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    La Piazza del Diamante di Mercè Rodoreda

    • di Sara Passannanti
    • Maggio 27, 2019 a 7:01 pm

    Scritto in esilio a Ginevra nel 1960, con La Piazza del Diamante Mercè Rodoreda ci consegna una Barcellona rarefatta che si disfa sotto il peso della guerra civile, incarnata nel personaggio di Natalia. Il mondo di Natalia-Colombetta è un mondo silenzioso, in cui la corporeità è quasi del tutto slegata dal pensiero logico, quindi dal linguaggio. Per questo motivo, il marito continua a insistere a rimproverarla di essere sempre impassibile, vorrebbe svegliarla. Allo stesso modo la suocera e i vicini la sopraffanno con i loro consigli e i loro giudizi.

    “Quando mia madre è morta, questo vivere senza parole si è dilatato. […] A casa si viveva senza parole e le cose che portavo dentro mi facevano paura perché non sapevo se erano mie…”

    Le persone che stanno vicino a Natalia non ne riconoscono la profondità perché questa non è manifestata dalle parole. E così anche la sua fatica e il dolore non vengono compresi, al punto che lei stessa, stretta tra le miserie della quotidianità da un lato e dall’assenza di empatia dall’altro, rischia di non riconoscersi nel proprio corpo.

    “Quando mi svegliavo mi guardavo le mani ben aperte davanti agli occhi e le facevo muovere per vedere se erano mie e se io ero io”

    La scrittura di Rodoreda è qui più che in altre opere ricca di sensualità, rievoca il contatto della pelle con i tessuti, i materiali, l’aria che cambia con il passare delle stagioni. Il tatto è il senso che domina le descrizioni nel romanzo, con una tale intensità che leggendo ci sembra di toccare gli oggetti prima ancora di immaginarli. E le mani hanno un ruolo particolarmente significativo nel succedersi degli eventi nella vita di Natalia e nel tessere insieme episodi che acquistano così un valore simbolico prima ancora che narrativo.

    “E arrivarono quelle mani. Il soffitto della stanza diventò molle come una nuvola. E scendendo diventavano trasparenti, come le mie mani, quando, da piccola, le guardavo contro il sole.”

    Mercè Rodoreda

    Rodoreda si serve di un insieme di sensazioni piccole, collezionate nell’infanzia, alle quali associa tutto ciò che la protagonista osserva e vive. L’autrice crea così un vocabolario che, proprio perché costruito da bambini, si compone di note delicate e cruda essenzialità, e rende la narrazione vivida in ogni pagina. L’intreccio, via via sempre più drammatico, rapisce completamente il lettore, dalla costruzione della colombaia per un capriccio del marito di Natalia alla cura dei bambini e alla risoluzione angosciante al termine della guerra, in un crescendo di tensione emotiva che culmina nella conclusione, con un finale liberatorio.

    Pochissimi sono i romanzi che lasciano il cuore gonfio, così che ci trasciniamo questo peso nel petto per lungo tempo dopo averli chiusi. Quando accade, li teniamo a portata di mano, per continuare a esplorarli e per ripetere l’intensità delle emozioni che le pagine hanno fatto affiorare la prima volta. La Piazza del Diamante è uno di questi libri rari e preziosissimi, le cui parole sedimentano insieme al vissuto personale e non ci abbandonano mai più.

    Mercè Rodoreda, La Piazza del Diamante, BEAT [2012], pp. 183, € 9,00, note Sandra Cisneros, Postfazione e trad. Giuseppe Tavani.

    Idem, La Nuova Frontiera [2008], € 15,00

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