Nell’introduzione, l’autore – dirigente di ricerca presso l’Istituto di Studi sul Mediterraneo del CNR e direttore dell’Environmental Humanities Laboratory del KTH di Stoccolma – rammenta un compagno delle elementari nella Napoli degli anni Settanta. Ciro, che trascorreva la notte a raccogliere i cartoni dall’immondizia per rivenderli, presto abbandonò la scuola per sempre. Quel ricordo offre ad Armiero l’occasione per puntualizzare:
in questo libro lo scarto non sia considerato una cosa, ma piuttosto un insieme di relazioni socio-ecologiche tese a (ri)produrre esclusione e disuguaglianze (p.3).
Riprendendo il titolo, Armiero precisa che Wasteocene
presuppone che gli scarti possano essere considerati la caratteristica planetaria della nuova epoca in cui viviamo […] perché si fonda su quelle che chiamiamo wasting relationships: le relazioni di portata davvero planetaria che producono luoghi e persone di scarto (p. 4).
Quest’affermazione è il filo conduttore di tutto il saggio.
Il primo capitolo, Dall’Antropocene al Wasteocene è dedicato ai numerosi cene accumulati negli ultimi anni per indicare l’epoca nella quale l’azione umana è divenuta una forza geologica responsabile della crisi climatica e di innumerevoli ingiustizie e disuguaglianze.
Contrariamente a ciò che crediamo, il termine Antropocene non risale all’anno 2000, quando fu proposto dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, ma agli anni Ottanta. Tuttavia, il concetto che intende esprimere, cioè la forza distruttiva dell’azione umana, è molto più vecchio e risale almeno alla seconda metà dell’Ottocento. Antropocene, comunque, è contestato in quanto troppo neutrale: non tutti gli umani sono ugualmente responsabili del disastro. Capitalocene, invece, chiarisce che la responsabilità è il modello di sviluppo estrattivista e la sua necessità di crescere in maniera lineare e infinita. L’autore cita numerose altre varianti che evocano una storia ben diversa dall’asettico Antropocene, per esempio Piantagioneocene, Tecnocene, Econocene, Maschiocene, Uomobiancocene. Ognuno di essi coglie aspetti contigui del problema.
Allora, perché proporne un altro?Waste in inglese è sostantivo (rifiuti) e verbo (sperperare), ma Wasteocene – in italiano traducibile come “Scartocene o era degli scarti (p.19)” – non si riferisce agli oggetti scartati ma a qualcosa di molto più complesso: “nella sua vera essenza, scartare significa decidere che cosa ha un valore e che cosa non lo ha (p. 19)” e il regime dello scarto è l’organizzazione sociale e politica che decide che cosa (e chi) sia un rifiuto e dove vada scaricato.
Credo che il Wasteocene possa essere compreso soltanto all’interno del più ampio concetto di Capitalocene […] il Wasteocene ci impone di esplorare quella che potremmo chiamare l’organosfera, per l’appunto la sfera del vivente e delle relazioni che consentono la vita sulla Terra […] il Wasteocene è intrinsecamente storico, perché implica la permanenza dei rifiuti; e sincronizzato con quella che Rob Nixon (2011) ha definito «violenza lenta», per indicare gli effetti ritardati dei danni ambientali sugli umani, i non umani e gli ecosistemi (p. 20)
Il discorso di Armiero si dipana come una narrazione, nella quale trovano posto anche cenni alla cinematografia fantascientifica: da The Road, trasposizione del romanzo di Corman McCarthy La strada nel quale un padre e un figlio vagano cercando cibo in un paesaggio devastato, alla saga di Mad Max, ambientata in un mondo post apocalittico pieno di macerie e di rottami che acquisiscono significati differenti dagli scopi per cui sono stati prodotti. L’autore cita anche la serie brasiliana 3%, nella quale l’entroterra è diventato un’immensa favela affacciata sull’off-shore, un paradiso isolano destinato a pochi fortunati selezionati ogni anno. Immancabile il riferimento ad Elysium, “una trasposizione fantascientifica del Wasteocene che ruota intorno a due tropi principali: il corpo malato e il migrante (p. 30)”.
Il secondo capitolo, Storie del Wasteocene, propone argomenti di grande respiro, soffermandosi su quelle che Armiero chiama “Memorie addomesticate, narrazioni tossiche, racconti scartati (p. 32)” ovvero il tentativo di espropriare popoli e comunità del loro passato attraverso la manipolazione dei libri di testo di storia e quella che Stefano Barca ha definito “narrazione del padrone”:
una narrazione che nasconde l’intersezione sistemica di razzismo/colonialismo, eteropatriarcato, disuguaglianza di classe e supremazia degli umani nella produzione della crisi del pianeta (p. 34).
A questo tipo di narrazione, si sono opposti, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, gli storici sociali, che hanno fatto entrare nel discorso storico “lavoratori, donne, schiavi, popoli nativi, poveri, contadini (p. 35)” e altri soggetti emarginati.
Un esempio per tutti, il disastro del Vajont che Marco Paolini, attore e autore teatrale, ha fatto riemergere dal limbo nel quale era stato sprofondato dal racconto ufficiale. Un altro esempio italiano è la tossicità del territorio provocata a Taranto dall’Ilva. Si ritorna al discorso sui corpi, dimenticati e spinti al margine della memoria.
Per difendersi, ogni comunità deve mantenere le proprie narrazioni, ci dice Naomi Klein, per rifiutare la logica capitalista del disastro:
È ciò che accade quando perdiamo le nostre narrazioni. Quando perdiamo la nostra storia, quando finiamo disorientati. Ciò che ci tiene orientati, e all’erta, e fuori del disastro, è la nostra storia (cit. p. 43).
Il capitolo sottolinea anche l’evidente legame tra i rifiuti, soprattutto quelli tossici, e i luoghi nei quali vengono depositati: valga per tutte la vicenda della Cancer Alley (vicolo del cancro) in Louisiana , una storia tuttora in corso di rifiuti tossici pericolosissimi giocata ai danni di una popolazione per lo più afroamericana.
Cancer Alley suona molto male, vero? Non c’è problema, le autorità locali hanno ribattezzato la zona Industrial Corridor .
Il terzo capitolo, Il Wasteocene al microscopio è suddiviso in due parti dai titoli molto evocativi: “Una città con vista sul Wasteocene: Napoli malata”e “Il Far West dei rifiuti”.
Nell’ultimo capitolo, Sabotare il Wasteocene, Armiero riprende, fra l’altro, il tema delle narrazioni fantascientifiche:
“ricordo che il regresso alla barbarie e la fine della cività sono quasi sempre tropi cruciali in questi racconti. Spesso in queste catastrofi immaginate, gli umani iniziano a uccidersi tra loro, lottando per ottenere il controllo delle risorse più preziose […] a volte, guardando questi film apocalittici, mi sembra di vedere rappresentate sullo schermo le cupe parole di Margaret Thatcher: «Non esiste una cosa come la società: esistono singoli uomini e singole donne, ed esistono le loro famiglie» (p.81).
Ma, dice l’autore, questo ragionamento è sbagliato.
Le comunità esistono, e nei momenti più difficili si mobilitano. Mentre le wasting relationships si basano sul consumo e l’alterizzazione, le pratiche di commoning cercano di riprodurre risorse e comunità e, nel farlo, smantellano il progetto alterizzante, creano comunità e possono potenzialmente minare il regime del Wasteocene (p. 82).
Il capitolo è dedicato a dimostrare quest’affermazione, e traccia un percorso di esempi, a cominciare dalle Brigate della solidarietà popolare, nate in vari Paesi durante il periodo peggiore della pandemia. In Italia, le Brigate di solidarietà attiva e un gran numero di volontari hanno “provveduto alle necessità di base della popolazione, soprattutto tramite i banchi alimentari e la consegna capillare di cibo (p. 84)”.
Sono belle storie, come quella dei catadores, i raccoglitori di rifiuti di Rio de Janeiro, e della loro presa di coscienza, o come le lotte dei lavoratori di Tuzla nella Bosnia ed Erzegovina, e la rivendicazione dei propri diritti da parte della comunità di Can Sant Joan in Catalogna, avvelenata da una fabbrica estremamente inquinante.
L’ultima storia è simile a quella della comunità stretta attorno allo stabilimento dismesso della Snia Viscosa di Roma. Qui, gli attivisti hanno recuperato la memoria delle lotte operaie e rivendicato i diritti dei non umani, animali e piante, ritornati nell’area quando l’acqua sottostante la vecchia fabbrica è riemersa formando un lago. Gli Assalti Frontali hanno celebrato la vicenda in un brano musicale – Il lago che combatte – reperibile qui. Ascoltarlo è una notevole soddisfazione.
In conclusione, L’era degli scarti, non si limita a informarci e a sostenere una tesi articolata, ci chiama ad ammettere la necessità di schierarci, prima davanti a noi stessi e poi alla società.
per un progetto di vera emancipazione, assumere il controllo dei mezzi di produzione non basta, se non trasformiamo in commoning le relazioni socio-ecologiche fondate sullo scarto di luoghi e persone (p. 102).
Marco Armiero L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale, Giulio Einaudi, 2021, pp. 122, € 15.000, ed. or. 2021, trad. M. L. Chiesara
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