Due coniugi, soli in una carrozza di un vecchio treno, percorrono a lungo la tundra innevata, fino a che il buio scende improvviso: il convoglio sta attraversando un fitta foresta.
La donna è molto malata e il marito l’assiste senza più sapere come starle vicino. Fingere la speranza è quasi impossibile. Ma lei si ostina ancora a lasciargli un figlio, forse come pegno della loro unione ormai logora, forse per offrirgli un motivo per vivere.
Per adottarne uno, hanno fatto un viaggio estenuante da New York a un Paese sconosciuto dell’estremo nord europeo, l’unico disposto ad affidare un bambino a una coppia tanto provata. Della città non sanno nulla, e scendono a una stazione di transito riuscendo a fatica a raggiungere il centro. Quando giungono al Grand Imperial Hotel, è notte inoltrata. Una notte momentanea, presagio del buio, esteriore e interiore, che li accompagnerà per tutto il soggiorno.
“La traversata della hall era la tappa finale del viaggio. L’uomo e la donna guadarono quella distesa oceanica, fra arcipelaghi di poltrone disposte come una barriera corallina intorno a bassi tavolini rotondi di legno”.
Giunti in camera, la moglie, stanchissima, subito sprofonda nel sonno e il marito si reca al bar dove conosce una strana donna, Livia Pinheiro-Rima:
“Era anziana, si rese conto lui, forse oltre i settanta, ma aveva una sensualità esplicita e sconcertante. Indossava un lungo vestito nero attillato, ornato di paillettes iridescenti […] e i lunghi capelli grigio argento erano tirati in un’acconciatura astrusa e antiquata. Il viso era forte e magro […] Gli occhi erano grandi…”
Bizzarra e a suo modo affascinante, Livia racconta del proprio passato sorprendente e dei mariti che ha avuto. In poco tempo i due entrano in confidenza: l’uomo racconta di sé e della moglie, lei chiede se siano venuti per il guaritore o per l’orfanotrofio. In ogni caso, consiglia, una visita a fratello Emmanuel potrebbe essere utile.
E così, Livia – che inizialmente pare folle e impicciona, poi portatrice di un talento empatico – diventerà un presenza fissa accanto ai due coniugi. Grazie a una filosofia pragmatica e alla capacità di raccontare mezze verità, talvolta menzogne, induce l’uomo – e con lui chi legge – a guardare il mondo e la società con occhi nuovi e meno imbevuti di colpa:
“io posso soltanto farla uscire da se stesso. Dopo, dove se ne va, sta a lei”.
Ma non è l’unico incontro dell’uomo per quella notte.
“A quell’ora la hall non era vuota. Un gigante dall’aspetto nordico con un abito di buon taglio, sedeva in una delle poltroncine di pelle disposte intorno ai tanti tavolini rotondi. Scriveva come una furia su un taccuino di pelle nera e sembrava sottolineare gran parte di quel che annotava”.
Ruvido, aggressivo, lo sconosciuto è convinto che loro due si siano già incontrati. È un “uomo d’affari” e come tale verrà sempre indicato. E di che cosa si occupi è presto detto:
“Affari, denaro. Nient’altro potrebbe portarmi sopra il sessantesimo parallelo […] Uh, il genere più grezzo. Petrolio”.
Poche frasi che proiettano i lettori nel mondo di fuori, quello reale:
“E tu per chi lavori, per i russi o per i finlandesi?
Per nessuno dei due. Io sono l’uomo nel mezzo, il sacco da prendere a pugni”
Anche l’uomo d’affari diverrà una presenza fissa delle notti in quella strana città, inducendo il marito, sempre più scosso, a esplorare lati insospettabili di sé.
Piano piano, frequentando persone e luoghi differenti, le vite dei coniugi si separano. Il marito va a trovare il bimbo che stanno per adottare:
“l’uomo prese il piccolo e se lo strinse al petto. Ne sentiva il peso e il calore anche attraverso i vestiti. Le gambette nude erano morbide e di un tepore incantevole […] Chiuse gli occhi. Si chinò a baciare le testolina bionda e inspirò il profumo di pulito dei suoi capelli. Poi strinse il piccolo un pochino più forte per assicurarsi che sapesse di essere stato preso in braccio”.
Lei parla con fratello Emmanuel, un personaggio gentile e rigoroso, che l’aiuterà a fare pace con se stessa.
Scritto in terza persona, illuminando i pensieri di entrambi i protagonisti, Cose che succedono la notte ha un andamento quasi teatrale nei dialoghi sospesi, che spesso i comprimari, contribuiscono a tessere. Come in questa riflessione di Livia su commiati che vanno ben oltre la banale buonanotte:
“Prima o poi vanno tutti a letto, dico bene? Sono cose che succedono la notte. Le persone spariscono, sempre che ci siano mai state. La vita è orrenda, infame, come e più del tempo”.
E in questi dialoghi, queste frasi che sembrano buttate lì ma sedimentano nella coscienza dei personaggi e, di conseguenza, dei lettori, presente e passato si mescolano, speranza e accettazione alla fine sono due facce della stessa medaglia.
La scrittura di Cameron è nitida e magistrale; lo spazio descritto, notturno e quasi allucinatorio, rispecchia la difficoltà comunicativa dei personaggi fra loro e con se stessi. Vissuta soltanto di notte, o nella penombra di un inverno artico, la città è un luogo indefinito che le storie, reali o presunte, dei vari personaggi contribuiscono a creare.
Il finale mantiene tutte le promesse della narrazione, conservandone l’indeterminatezza, proprio come fa la città, un luogo che si rivela soltanto al momento di essere lasciato.
Il resto, intuizioni e conclusioni, è lasciato a chi legge, perché – proprio come suggerisce Livia – Cameron può farci uscire da noi stessi, ma dove andiamo è affare nostro.
Peter Cameron
Adelphi ha pubblicato numerosi romanzi dell’autore; questo è il decimo ed è stato seguito, nel 2023, dalla raccolta di racconti Che cosa fa la gente tutto il giorno?
Di quest’ultimo, l’autore ha parlato dialogando con Fabio Fazio
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.