Molti umani considerano il mondo vegetale una via di mezzo tra uno sfondo (il verde) e un pranzo (frutta, verdura e legumi). L’autore spiega che è molto di più e che, per quanto appaia diversissimo da noi, ci è più simile di quanto crediamo.
Benché vecchio di una decina d’anni, il saggio merita la lettura, sia per l’argomento in sé, sia per il continuo confronto – attuato da Chamovitz nei vari capitoli – con i sensi del mondo animale.
Quel che una pianta vede
Anche se non vede come noi animali, una pianta monitora continuamente il proprio ambiente visibile; percepisce i raggi UV e IR, sa da che direzione proviene la luce e se abbiamo spostato il suo vaso in una zona più buia o più soleggiata.
Charles Darwin e il figlio Francis studiarono le piante negli anni Settanta del xix secolo, dimostrando il fototropismo, cioè l’effetto della luce su steli, rami e foglie, che li fa orientare verso luce.
Un altro fenomeno è il fotoperiodismo: le piante si dividono in brevidiurne, che fioriscono solo quando le giornate sono brevi, e longidiurne che, per fiorire, hanno bisogno di giornate lunghe. Le piante, però, non misurano le ore di luce bensì le ore continuative di buio. Tenute in serra ed esposte di notte a pochi secondi di luce rossa, le brevidiurne possono mantenersi senza fiorire per mesi.
Le luci rosse, però, non sono tutte uguali. La luce rossa lontana, che ha lunghezza d’onda lievemente maggiore di quella rossa brillante, ne annulla l’effetto sulla fioritura. A rilevare la differenza è un fotorecettore, il fitocromo, che funziona da interruttore: luce rossa brillante accende la fioritura, luce rossa lontana la blocca. Il meccanismo ha senso, perché la luce rossa lontana è visibile solo al tramonto e, agendo sul fitocomo, spegne il vegetale per la notte. La luce rossa brillante del mattino lo risveglia.
Così descritte, le piante possono sembrare creature aliene. Eppure, noi e loro abbiamo in comune i recettori per la luce blu che, in entrambi i regni, servono da regolatori dell’orologio circadiano. Gli umani, animali che viaggiando in aereo per lunghe tratte, soffrono il jet lag, possono alleviarlo esponendosi alla luce solare che aiuta a ristabilire i ritmi circadiani; alle piante, invece, i recettori segnalano che è giorno, il periodo in cui vanno svolte attività come la fotosintesi e i movimenti delle foglie. Questa comunanza di recettori ci dice che gli orologi circadiani si sono sviluppati prima che vegetali e animali si separassero, quando ancora gli organismi erano unicellulari.
Quel che una pianta annusa
Certe proprietà dei vegetali erano già note agli antichi: gli Egizi sapevano che, per far maturare un cesto di fichi, bastava sbucciarne qualcuno; in Cina era noto che bruciare l’incenso fa maturare le pere; le mele mature fanno maturare i frutti vicini. Tutti questi fenomeni hanno in comune l’emissione di piccole quantità di un ormone vegetale, l’etilene, che i frutti usano per comunicare il loro stato di maturazione.
L’etilene serve a regolare la senescenza delle foglie e la dispersione dei semi: tanti frutti che si inducono a maturare insieme richiamano gli animali che, dopo averli mangiati, portano i semi lontano dalla pianta madre grazie alle feci.
Quando i salici vengono attaccati dai bruchi divoratori di foglie emettono ormoni che avvertono le piante ancora sane dell’aggressione subita, in modo che esse producano sostanze chimiche sgradite ai bruchi.
La Cuscuta pentagona è una pianta parassita che annusa la presenza di piantine di pomodoro e va ad attaccarle.
Quel che una pianta prova
Le piante non provano dolore, ma possiedono il senso del tatto: i rampicanti crescono più velocemente quando toccano un muro o uno steccato; la Dionea muscipula, pianta insettivora, chiude le foglie in meno di 0,1 secondi quando un insetto si posa sul loro lobo interno, e comincia a secernere succhi digestivi. La preda, però, deve sfiorare almeno due peli del lobo interno, prima di fare scattare (con un meccanismo elettrico) la chiusura. Questo significa, fra l’altro, che la Dionea, scatta solo dopo il secondo contatto perché “ricorda” che già un pelo è stato sfiorato. Un fenomeno simile è il rinserramento di tutte le foglie della Mimosa pudica quando ne viene sfiorata solo una.
Un fenomeno comune fra le piante è il ritardo della crescita dovuto alla capacità di percepire l’ambiente circostante e di adattarsi: pioggia e neve sono sollecitazioni tattili che le informano dei rischi che corrono. Gli alberi che crescono sui crinali della montagna, esposti a forti venti, hanno pochi rami e tronchi spessi e corti; quelli che vivono in valli riparate, invece, sono alti, sottili e pieni di rami.
Un danno a una foglia di pomodoro provoca un segnale percepito da tutte le altre foglie; comportamenti tanto differenti come la risposta alla stimolazione meccanica dei vegetali e degli animali, è mediata da meccanismi elettrici molto simili.
Quel che una pianta ode
Questo è uno dei capitoli più divertenti, a cominciare dagli esperimenti di Dorothy Retallack sugli effetti positivi o negativi di numerosi musicisti sul benessere delle piante: Bach, Schoenberg, Hendrix, Led Zeppelin… Io tollero benissimo ognuno di questi artisti, ma ammetto di non essere una pianta.
Studi seri hanno invece dimostrato che le piante o erano indifferenti alla musica o, se sottoposte a bombardamenti sonori “a palla”, subivano urti dovuti alle onde sonore, esattamente come le piante esposte al vento del capitolo precedente.
«Forse, il problema non è che alle piante non piace la musica rock; forse è solo che a loro non piace essere sballottate», suppone Chamovitz.
Studi promettenti ma (dieci anni fa) ancora da approfondire hanno consentito al neurobiologo vegetale Stefano Mancuso di incrementare con onde sonore il raccolto di un vigneto. Una direzione di studio è l’esplorazione di suoni naturali, noti per influenzare processi specifici delle piante (ad esempio l’impollinazione), come il ronzio delle api e dei calabroni.
Come una pianta sa dove si trova
Come fa una pianta a conoscere la propria posizione nello spazio, con tronco e rami in alto e radici in basso?
Noi abbiamo i canali semicircolari, ciglia e otoliti dispersi nel vestibolo e i nervi propriocettivi. Le piante, invece, si orientano con la forza della gravità: gravitropismo positivo per le radici e negativo per fusti e rami. Ma quali parti della pianta la rilevano? Alcune cellule all’estremità delle radici e altre, che nello stelo formano l’endodermide avvolta attorno ai tessuti vascolari, contengono microgranuli di amido analoghi ai nostri otoliti. Il loro movimento verso il basso informa entrambi i tessuti di come agisca la gravità. Poi entrano in gioco ormoni vegetali come l’auxina, che fa piegare radici e fusti in senso opposto.
In conclusione, la pianta viene attratta contemporaneamente in direzioni diverse: la luce la fa piegare verso i raggi solari, gli statoliti dei rami si piegano le dicono di raddrizzarsi, quelli della radice indicano dove sia il basso. Così la pianta si bilancia collocandosi in una posizione ottimale.
Quel che una pianta ricorda
Le piante conservano informazioni che integreranno nel loro contesto in un momento successivo: sanno quale sia l’ultima luce rossa che hanno visto o che le piante vicine sono state aggredite dai bruchi; la dionea sa che un pelo del suo lembo fogliare interno è già stato toccato.
Le sofisticate memorie umane implicano un’autocoscienza che manca alle piante. Esse, però, possiedono la memoria procedurale, legata a come si fanno le cose, e possono codificare l’informazione, conservarla e di recuperarla.
La memoria procedurale della dionea è a breve termine: se passa troppo tempo tra i contatti con il primo pelo e con il secondo, la pianta perde il ricordo del primo.
Altri tipi di memoria procedurale sono a lungo termine, come quello del grano invernale usato un tempo dai contadini sovietici: piantato in autunno, questo grano germoglia prima del freddo intenso e rimane dormiente sino a primavera, quando l’aria intiepidisce. Svernare al freddo garantisce alle piante di germogliare o fiorire in primavera, avendo a disposizione lunghi mesi di bel tempo e molte ore di luce. La quantità di luce da sola non basta, perché le piante non riuscirebbero a distinguere la primavera dall’autunno. La pianta sa di essere in primavera perché ricorda il freddo invernale.
Il più basso livello di coscienza, caratteristico della memoria procedurale, è proprio delle piante e degli animali più semplici. La discussione sull’argomento è tuttora in corso; il campo di studio dei ricercatori che se ne occupano è la neurobiologia vegetale, che ingloba eventi che vanno dalla chiusura delle foglie di dionea alla somiglianza fra l’architettura delle radici e le reti neurali di vari animali.
Nell’epilogo l’autore propone di non utilizzare per le piante il termine intelligenza, e di parlare invece di consapevolezza. Le piante, quindi, sono consapevoli? La sua risposta è sì. In conclusione, facciamo male a parlare alle piante, a battezzarle con nomi di fantasia? A loro sicuramente no. E nemmeno a noi che, creando una maggior intimità nei loro confronti, ci sentiamo più responsabili. Io lo faccio e, come suggerisce Chamovitz, non le considero verde, ma parenti lontani:
«un altro possibile risultato della nostra stessa evoluzione, un risultato che ha imboccato una strada diversa circa due miliardi di anni fa».
Daniel Chamovitz, Quel che una pianta sa. Guida ai sensi nel mondo vegetale, Raffaello Cortina Editore, «Scienza e idee 237», 2013, pp. 174, €18,00, Trad, P.L. Gaspa
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