Fin dalla prima pagina, chi legge entra in un luogo impervio e maestoso situato ai confini del mondo, dove un pugno di persone vigila su una foresta primigenia. Nel posto di guardia vivono tre famiglie: quella di Momun un uomo anziano e mite, l’unico ad amare e conoscere davvero la foresta e le risorse che essa offre, affezionatissimo al nipote di otto anni che affidatogli dai genitori separati che ora vivono altrove; la famiglia della guardia ausiliaria con la giovane moglie e sua figlia; la famiglia di Orozkul, guardia forestale e marito di Bekej, figlia di Momun.
Tirannico e violento, Orozkul deruba lo stato vendendo i tronchi della riserva forestale. In preda all’alcol e alla perenne convinzione di meritare molto più di ciò che ha, la guardia picchia la moglie, che non riesce a dargli dei figli, e si giova del lavoro di Momun pagandolo due soldi.
Nonostante le miserie umane di cui è testimone, il bambino vive felice in quel luogo magico dove i confini tra naturale e soprannaturale, tra umano e animale, sono porosi e mitici. Ascolta le leggende raccontate dal nonno, parla con gli oggetti, immagina che i grandi massi incontrati lungo il cammino siano animali, è felice quando finalmente può frequentare la scuola e sogna di diventare un bimbo pesce per poter nuotare fino al battello bianco sul quale crede che viaggi suo padre.
“Da lì si vedeva ogni cosa. Perfino le cime innevate più alte, sopra le quali c’è solo il cielo. Si ergevano dietro a tutte le altre catene, sopra a tutte le montagne e alla Terra intera. I monti al di sotto, invece, erano boscosi, coperti in basso da alberi verdi, in alto da nere abetaie. […] Sulle strade minuscole automobili correvano come topi, trascinandosi dietro lunghe code di polvere. E all’estremità della terra, dove lo sguardo giungeva appena, oltre la striscia sabbiosa del litorale, la curva convessa del lago, d’uno azzurro intenso. Quello era l’Issyk Kul’. Lì, acqua e cielo si toccavano. […] Il bambino guardò a lungo da quella parte. «Il battello bianco non è ancora comparso» disse alla cartella.”
La vicenda si snoda, apparentemente semplice e realistica, verso un finale amaro. Ma Ajtmatov è un autore raffinato che non si limita a mescolare al reale alcuni miti della sua gente.
Il romanzo aveva un titolo originale diverso, Dopo la fiaba, più appropriato alla vicenda e alla sua struttura complessa; il primo editore, però, scelse di cambiarlo con il sottotitolo, Il battello bianco, che fu sempre mantenuto. Scritto in terza persona, pare all’inizio la voce di un narratore onnisciente; in realtà, si adegua al punto di vista del bambino.
Il romanzo è composto da sette capitoli; nei primi tre vengono presentati i personaggi e preparato il conflitto che esploderà nei tre capitoli finali; al centro trova posto il mito fondante della etnia Bogu (i kirghisi), riguardante Madre cerva dalle corna ramose [1]
Il romanzo comprende quattro narrazioni: due leggende, una fiaba e un mito.
Le leggende, narrate dal nonno, parlano dell’amore dei kirghisi per la patria, la fiaba racconta di come una specie di Pollicino, inghiottito da un lupo, gridi da dentro l’animale per mettere in guardia le greggi.
Anche il bambino crea una storia sulla propria vita, da raccontare al padre. Per raggiungerlo, si trasformerà in un pesce per poi riprendere sembianze umane.
Il mito centrale di Madre cerva dalle corna ramose – narra l’origine del popolo kirghiso.
La madrepatria dei kirghisi era un tempo il corso superiore dello Enisej, allora chiamato Enesaj (fiume madre), il più lungo della Russia. Il fiume nasce nella Siberia meridionale, sfocia nel Mar Glaciale Artico e presenta uno dei maggiori bacini idrografici del mondo, che copre la maggior parte della Siberia centrale.
Non c’è fiume più largo, Enesaj
Non c’è terra più cara, Enesaj
Non dolore più profondo, Enesaj
Né libertà più libera, Enesaj
Con il tempo le tribù kirghise migrarono verso sud, stabilendosi sulle montagne del Kirghizistan.
La versione di Ajtmatov del mito di Madre cerva non è meramente recuperata da fonti tradizionali, ma la stratificazione di molti miti contigui, una sorta di ventaglio narrativo al quale lo scrittore ha legato la migrazione del suo popolo.
Spesso ricorre il tema delle popolazioni della regione, sempre in guerra fra loro fino a massacrare l’intera tribù kirghisa. Madre cerva salva e nutre gli unici due sopravvissuti, un ragazzino e una ragazzina che, protetti dall’animale totemico, diverranno gli antenati dei nuovi kirghisi. Pregata perché facilitasse i parti, Madre cerva protegge la sua gente per molto tempo, fino a quando l’avidità degli umani non espone i maral a una caccia crescente. Allora i cervidi lasciano il paese per non tornare più.
La divinità dalle corna ramose torna nelle leggende kirghise anche in altri modi: una ragazza saggia con le corna in capo, dotata di poteri soprannaturali, una donna che impone al marito di avvertirla prima di entrare nella yurta e, sorpresa dal marito nelle sembianze di un maral, fugge per sempre.
Ne Il battello bianco Ajtmatov rivisita queste leggende e immagina un possibile ritorno della divinità animale.
Činghiz Ajtmatov (dicembre 1928 – giugno 2008) è uno degli rappresentanti della letteratura kirghisa più noti nel mondo. Suo padre, vittima delle purghe staliniane, fu giustiziato nel 1938 per “nazionalismo borghese”. Dopo svariati lavori, Ajtmatov si dedicò agli studi letterari e lavorò per la Pravda. La prima opera che lo fece conoscere al mondo fu Melodia della Terra (1958), tradotto in russo e in francese nel 1959 da Louis Aragon che lo definì la storia più« meravigliosa scritta al mondo sull’amore». Negli stessi anni, l’opera venne tradotta in una trentina di lingue dell’ex Unione Sovietica e all’estero. Dopo aver ricoperto importanti incarichi nella cultura russa, durante la perestrojka fu ministro di Michail Gorbačëv. Come diplomatico condusse numerose cause a favore delle minoranze etniche.
In un suo romanzo, Ajtmatov introdusse il termine “mankurt”, tuttora utilizzato per indicare persone insensibili, indifferenti a tutto, capaci solo di eseguire gli ordini, quasi degli zombi che hanno perduto il senso delle proprie origini e della rete di relazioni che lega ogni umano al proprio mondo sociale.
Una ricerca in internet mostra quanto Ajtmatov sia tuttora ricordato. Cito qui un articolo di Avvenire, che illumina la scrittura ricca di sfumature dell’autore:
“Ajtmatov non si adegua ai canoni che richiedevano una sorta di propaganda del proletariato, ma sceglie di descrivere la condizioni umana, di guardare in faccia gli uomini e le donne della sua terra, mettendone in luce i sentimenti, le passioni, le fatiche, raccontando un mondo dove il legame tra le generazioni è considerato una sorta di sacralità, incorruttibile e dove il senso del dovere domina come richiamo morale. In più Ajtmatov accentua il richiamo alla bellezza di questo territorio arso in estate, freddo e gelido in inverno, attraverso descrizioni liriche che diventano una prerogativa della sua scrittura, che pur nutrendosi della tradizione dei grandi scrittori russi, sceglie sempre di rimanere nell’ambito di una narrazione sapienziale, spesso in forma di parabola o di fiaba, proprio per accentuare quel carattere popolare, di accessibilità a tutti, senza per questo rinunciare ad una propria, personalissima voce”.
Altre opere di Ajtmatov sono presenti nel catalogo dell’editore.
Desidero ringraziare il dr. Ivan Roksandic, che ha dedicato il secondo capitolo della propria tesi [2](1985) a Il battello bianco. Le sue informazioni e osservazioni mi hanno aiutato a mettere a fuoco la complessa struttura del romanzo.
1. ispirata ai magnifici cervi Maral degli Altai (o vapiti degli Altai) ecotipo dell’Asia centrale del wapiti (Cervus canadensis)
https://www.latorbiera.it/animali/wapiti-degli-altai-o-maral/
2. THE OUROBOROS SEIZES ITS TALE: STRATEGIES OF MYTHOPOEIA IN NARRATIVE FICTION FROM THE MID-FIFTIES TO THE MID-SEVENTIES: SIX EXAMPLES
Činghiz Ajtmatov, Il battello bianco, Marcos y Marcos, 2007, pp. 203, € 15,00, Trad. G. Venturi
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.