
Marco Ferrari, biologo e giornalista, si è dedicato alla divulgazione scientifica lavorando, come redattore e direttore, per numerose testate di natura e scienza.
Una premessa importante: per immaginare alieni occorre una laurea scientifica? No. Ferrari è un buon divulgatore ed è riuscito a contemperare due esigenze: rendere il saggio digeribile ma anche ricco e non banale. È inevitabile che alcuni capitoli siano più “tosti” di altri, ma è possibile non soffermarsi sulle frasi più tecniche e divertirsi ugualmente. Nell’introduzione, l’autore sottolinea come spesso le persone che si occupano a vario titolo di fantascienza parlino con estrema disinvoltura di velocità ultraluce, di wormhole e di universi paralleli. Tuttavia, se la vicenda si svolge su un pianeta lontano anni luce dalla Terra
«il paesaggio alieno è descritto come… “un paesaggio alieno”. Le piante vengono chiamate sempre piante, mentre gli animali sono inevitabilmente strani e i microorganismi (se ci sono) vengono indicati come “batteri”».
In sostanza, dice Ferrari, creature ed ecosistemi di altri mondi non possono essere indicati con le categorie che usiamo sul nostro pianeta. La domanda che attraversa tutto il saggio è proprio questa: esistono leggi naturali valide su Terra ma anche in altri mondi? E, di conseguenza, è possibile costruire un alieno credibile, ma pur sempre alieno?
Ecco alcune riflessioni delle prime pagine: la fotosintesi come base della rete alimentare di un mondo può essere considerata una regola biologica generale? E DNA/RNA sono molecole diffuse anche in altri mondi o «invenzioni peculiari della vita terrestre»?
Cominciamo.
Nel capitolo 1, Vita e altro, Ferrari affronta la domanda fondamentale, «che cos’è la vita?», senza cercare definizioni filosofiche ma semplicemente una soluzione «localmente ottimale».
Innanzitutto accantona il silicio, un tempo molto usato come alternativa esotica al carbonio. Uno sguardo a questa pagina di wikipedia, potrebbe essere interessante. Su Terra gli atomi presenti nei viventi sono un numero ristretto, ricordabili grazie all’acronimo CHNOPS: Carbonio (C), Idrogeno (H), Azoto (N), Ossigeno (O), Fosforo (P), Zolfo (S), aggiungiamone ancora una manciatina e per gli ingredienti siamo a posto. La spiegazione dell’autore è semplice e scorrevole, vi lascio la soddisfazione di leggerla per intero.

Un’altra questione attraversa il capitolo: la vita planetaria è un esito inevitabile, oppure un colpo di fortuna avvenuto solo su Terra? Gli studiosi che scelgono la seconda possibilità la chiamano «ipotesi della Terra rara». Indubbiamente il nostro pianeta si presta bene come luogo speciale adatto alla vita; se poi questo valesse per molti altri sistemi solari, allora le probabilità di poter immaginare alieni variegati diventerebbero molto più consistenti.
È nel secondo capitolo – Primi passi – che Ferrari azzarda una definizione di vita: «sistema lontano dall’equilibrio termodinamico che nel tempo cambia la sua struttura in base a dinamiche evolutive». Per vivere un organismo deve ingaggiare una lotta contro l’entropia e, nel contempo, interagire con l’ambiente esterno. Così, la vita e l’evoluzione si sono inventate la cellula, un sacchettino di sostanze organiche separato dall’esterno da una membrana protettiva che, almeno in qualche punto, mette in comunicazione il dentro con il fuori. Gli studiosi più audaci collocano l’inizio della vita terrestre a circa 4, 48 miliardi di anni fa, poco dopo la formazione del sistema solare e della Terra, ma l’autore è prudente e si attiene a 3,8 miliardi di anni fa.
Finalmente il campo della nostra visione si allarga: si parla dell’ «intenso bombardamento tardivo» subito da Terra e degli altri pianeti del sistema solare; ma vi piacerà anche LUCA (“ultimo antenato comune universale”), il progenitore – anzi no, progenitrice mi pare più sensato – di tutta la vita terrestre. Ci saranno delle LUCA anche nei sistemi solari là fuori? Per immaginare alieni occorre rispondere sì.
E che dire della “biosfera ombra”? Se gli alieni più vicini a noi non fossero là fuori ma nascosti proprio qui? Si parla, cioè, della possibilità che «gli esseri viventi che vediamo oggi siano i rappresentanti di una sola linea evolutiva [quella di LUCA ndr], mentre altre forme sono rimaste indietro, scomparse senza lasciare traccia. Oppure così sopraffatte che hanno dovuto rifugiarsi in ecosistemi oscuri e poco raggiungibili dai “nemici”». Forme simili potrebbero presentare una biochimica e una struttura diversa dalla nostra. Un primo assaggio di alienità, giusto?

La parola d’ordine di Energia, vita e complessità, il terzo capitolo, è “transizione evolutiva”. Immaginiamoci un mondo là fuori che ospita batteri, archea ed eucarioti unicellulari. Su Terra è cominciata così, con gli unicellulari: batteri e archea (che si sono separati abbastanza presto) privi di nucleo, semplici sacchettini pieni di molecole organiche. Gli eucarioti con un nucleo e molti organelli cellulari. Ma tutti quanti procedevano «bloccando, incamerando e gestendo l’energia ambientale per costruire le proprie molecole ricche della stessa energia».
Da una parte c’erano – e ci sono tuttora – organismi autotrofi (batteri, archea e alghe unicellulari) che usano l’energia solare per produrre molecole organiche partendo dalla CO2; da loro deriveranno anche le piante acquatiche e terrestri; dall’altra, organismi eterotrofi, ossia consumatori o detritivori dai quali deriveranno protisti, animali e funghi.
La grande rivoluzione fu compiuta, a partire da 2,7 miliardi di anni fa, proprio dagli autotrofi che nelle reazioni chimiche liberavano ossigeno, cambiando completamente l’atmosfera del pianeta e provocando la prima estinzione di massa: una strage di quei batteri e archea per i quali l’ossigeno era veleno. Il capitolo offre molte varianti possibili su altri pianeti: ad esempio, se il passaggio dagli organismi anaerobi agli aerobi non fosse avvenuto, la vita nata altrove sarebbe inchiodata a un metabolismo molto lento.
La pluricellularità, su Terra, è emersa più volte ed è difficile risalire all’inevitabile LUMA (ultimo antenato comune multicellulare). La vita multicellulare è più avvantaggiata? Secondo Ferrari sì:
«Non c’è dubbio però che un corpo composto da molte cellule, ognuna in grado di sfruttare appieno l’ossigeno, sia più efficiente, veloce e pronto all’azione di ogni unicellulare […] i multicellulari sono divisi in distretti composti da cellule specializzate in questo e quel compito e quindi più produttive».
Così, circa 600 milioni di anni fa, la vita terrestre è esplosa dal punto di vista delle dimensioni e della complessità. Un caso famoso è il biota di Ediacara; ritrovato in molte zone del pianeta era costituito da organismi privi di scheletro rigido che lasciarono poco più che impronte: «dall’aspetto esterno sembrerebbero piume, dischi, tubi, sacchi pieni di fango o piumini trapuntati».

Il 3° capitolo offre materiali molto suggestivi per costruire possibili alieni.
Nel quarto capitolo, Una casa molto intricata, l’autore sposta l’attenzione sulle stelle dei sistemi solari lontani. Pianeti di stelle simili a Sol potrebbero, se di dimensioni adeguate e posti nella fascia abitabile, avere avuto una storia non diversa da quella di Terra. In tal caso, la prima regola, chiamata “del decimo”, riguarderebbe i vari livelli trofici della rete alimentare planetaria.
Su Terra una parte dell’energia solare intercettata dagli organismi autotrofi va dispersa in calore, inoltre essi consumano una buona parte di quella che assorbono per mantenersi, e ciò vale per tutti i livelli. Così, l’energia trasferita sotto forma di cibo da un livello all’altro è circa il 10%. Tuttavia, molto materiale resta nell’ambiente, basta pensare a quanto se ne accumula nei boschi: rami, foglie, resti di animali morti. Questi avanzi vengono completamente riciclati dai decompositori (funghi, lombrichi, piccoli crostacei e gli onnipresenti batteri), tanto che la maggior parte dell’energia (circa l’85%) passa attraverso i detriti. È quindi evidente che ogni organismo vivente è legato a ogni altro (se riuscissimo ad accettarlo causeremmo molti meno danni al pianeta!)
Quali relazioni potrebbero avvenire fra specie differenti? Su Terra, oltre alla predazione, esistono la competizione (per il cibo, il territorio, la riproduzione) e la simbiosi, una relazione vantaggiosa per tutti i contraenti e, talvolta, così forte da legare le specie per la vita: è il caso dei pesciolini e piccoli crostacei che puliscono i denti dei grandi pesci oceanici, delle comunità di formiche ospitate e nutrite in particolari organi delle piante tropicali, e che aggrediscono con violenza gli erbivori che vorrebbero cibarsene; i licheni sono organismi costituiti da un fungo e un’alga o un cianobatterio, le barriere coralline (che su Terra sono ormai in parte distrutte dalle attività umane) sono formate dall’associazione di piccoli polpi e di alghe zooxantelle.

Forte e suggestiva è la simbiosi tra le piante e i funghi: le radici forniscono ai funghi degli zuccheri di derivazione fotosintetica; i funghi, che intrecciano le proprie ife con le radici, cedono loro materiale nutritivo e acqua contenuta nel suolo. Leggendo gli esempi e le riflessioni di Ferrari, ɜ fantascientistɜ potrebbero immaginare moltissime variazioni aliene sul tema: per esempio l’esistenza di vegetali dotati di un sistema nervoso lento ma capace di reagire con movimenti non casuali, legati alle altre forme di vita: è
«probabile che la nostra visione della foresta […] come di un complesso di specie e di individui singoli, magari in lotta costante l’uno contro l’altro sia altrettanto estrema: e che invece molti ecosistemi siano un tutt’uno integrato e interconnesso».
Ed eccoci al quinto capitolo: L’altra faccia della medaglia: l’evoluzione. La domanda di partenza è «ma perché ci sono così tante specie?» Questo esito, dice l’autore, è praticamente inevitabile: «Poste di fronte a condizioni diverse […] le specie cambiano e modificano la loro profonda struttura genetica». Ferrari ricapitola in modo scorrevole i meccanismi evolutivi, chiarendo anche la cosiddetta sintesi moderna tra la teoria darwiniana e la genetica, nonché l’importanza evolutiva della riproduzione sessuale.
Proseguendo la lettura, aumentano le domande; una particolarmente interessante viene posta verso la fine del capitolo: «Un meccanismo come l’evoluzione porta necessariamente a organismi più complessi?» Su Terra, nella storia della vita si passa da unicellulari vari a organismi pluricellulari di complessità crescente. Più complessi non significa migliori o più efficienti, ma semplicemente dotati di un numero maggiore di distretti corporei che devono collegarsi ed essere protetti). Ma è così anche sugli altri pianeti? È con questa domanda che Ferrari ci conduce oltre, ma non prima di aver precisato «tutto o quasi tutto, sono abbastanza certo, è avvenuto, avviene e avverrà all’interno delle strette regole della teoria dell’evoluzione.

Sesto capitolo Mosaico planetario. Primo di due capitoli immaginifici, il sesto ci propone di «limitarci a delineare i confini fisici, chimici e soprattutto biologici entro i quali collocare i possibili abitanti di altri pianeti». Gli argomenti affrontati sono vasti.
Torniamo indietro per un attimo al terzo capitolo: la pluricellularità è comparsa numerose volte nel corso della storia di Terra, spesso lasciando pochissime tracce, come nel caso degli ediacariani. Erano pacifici brucatori e detritivori ma, quando le risorse si ridussero fortemente, non restò che la predazione. Come deve essere un predatore? La simmetria bilaterale non è indispensabile, ma una direzione verso cui andare fa comodo: meglio se ad arrivare per prima è la testa, dotata di cervello e di organi di senso. E infatti, Hallucigenia, Anomalocaris e Opabinia, che l’autore presenta fra i primi cattivi del Cambriano (540 milioni di ani fa) avevano una testa e una zona caudale, l’essenziale per la bilateralità. Anche la metameria è una proprietà importante, molto diffusa fra invertebrati e vertebrati, tutte creature modulari, fatte di pezzi di Lego attaccati uno dietro l’altro: ogni unità può avere appendici esterne, antenne e altre strutture sensoriali. E se la metameria è così diffusa su Terra potrebbe presentarsi anche in mondi alieni, probabilmente imboccando altri gradi di complessità rispetto a noi.
I bilateri, comunque, sono diffusissimi e molto diversificati: la testa che raccoglie, oltre al “cervello” anche quasi tutti gli organi di senso è tipica dei vertebrati: negli artropodi, invece, contiene i gangli nervosi ed è protetta in qualche modo, ma gli organi che percepiscono le molecole olfattive o le vibrazioni dell’aria possono stare da un’altra parte.
Ferrari descrive i principali organi di senso, compresi alcuni che noi umani non possediamo, come la percezione del campo magnetico terrestre e dei campi elettrici.
Ma, per immaginare dei veri alieni, ripassate la struttura dei cefalopodi, i più alieni tra i nostri parenti alla lontana (le forme più antiche comparvero nel Cambriano): quelli con dimensioni maggiori, come polpi e seppie, presentano una coppia di grossi gangli davanti agli occhi, collegati a una catena di gangli intorno alla bocca. Il tutto è connesso con i gangli che innervano le braccia, otto nel polpo o dieci nelle seppie. I gangli delle braccia sono quasi indipendenti da quello centrale. Molti cefalopodi non possiedono ossa o conchiglie, quindi la muscolatura estremamente potente non si aggancia a un organo di sostegno, come nei vertebrati, ma è dovuta al mantello che avvolge tutto il corpo tranne il capo e i tentacoli. Gli occhi hanno una struttura simile a quella dei vertebrati.

Ferrari ci ricorda l’importanza della convergenza evolutiva, cioè la comparsa di strutture simili in phila separati da centinaia di milioni di anni:
«se una struttura, o una funzione, compare molte volte in tanti gruppi animali o vegetali differenti e solo lontanamente imparentati […] è probabile che l’evoluzione per selezione naturale e quindi le condizioni ambientali […] abbiano portato a quella particolare funzione e a quel particolare organo».
Inventare gruppi alieni che presentino convergenza evolutiva darebbe compattezza alla descrizione della vita di un altro pianeta, quindi? Prendiamo nota. Ma che dire delle piante?
«la pianta porta invece al limite […] la modularità, la metameria, la flessibilità della struttura corporea e le differenze, anche notevoli, tra appartenenti alla stessa specie».
I loro piani corporei sono differentissimii da quelli animali e, in un certo senso, molto più liberi. Potrebbero essere vistosamente condizionati solo da caratteristiche estreme, come una gravità molto più bassa o molto più alta di quella terrestre, fornendo l’occasione per piante fluttuanti nell’atmosfera o molto basse e tozze. Tra le varianti ci sarebbero sicuramente i pigmenti fotosintetici, legati alla luminosità della stella.
Il settimo capitolo, Comunicazione e società,esplora un’ampia gamma di argomenti intrecciati, dalla comunicazione chimica, la più primitiva, forse, ma sicuramente efficace, persistente e raffinata (le formiche riconoscono gli appartenenti al loro nido, le termiti, che sono cieche, comunicano esclusivamente grazie a complesse molecole. Il problema, però, è la direzionalità del messaggio (un alito di vento può confonderlo), la velocità di trasmissione, il mischiarsi degli odori di specie differenti. Un pianeta abitato per lo più da organismi vegetali sarebbe attraversato da un chiacchiericcio odoroso e sotterraneo affascinante.
Il suono è un tipo di segnale abbastanza veloce, anche se può diffondersi soltanto attraverso aria, acqua e altri fluidi; i nostri ipotetici esopianeti sarebbero però almeno dotati di atmosfera, quindi tutto bene; il suono potrebbe essere utilizzato come segnale comunicativo anche da comunità sofisticate, fino a diventare un linguaggio articolato e complesso, o uno strumento esplorativo altamente specializzato, simile a quelli utilizzati dai chirotteri o dai delfini. Gli infrasuoni usati per comunicare dagli elefanti sarebbero un altro bel suggerimento.
Per quanto riguarda la vista, noi umani mandiamo numerosi segnali non verbali, come espressioni del viso, posture ecc. Ma niente batterebbe i nostri alieni cefalopodi, in particolare le seppie, in grado di variare in decimi di secondo l’azione dei loro cromatofori e comunicare emozioni, intenzioni, timori. La comunicazione tramite colori, mimetismo ecc. solleva l’interessante problema della possibilità di mentire.

Un paio di gruppi di pesci usano l’elettricità per “scansionare” l’ambiente acquatico piuttosto torbido nel quale vivono, un’idea da tenere a mente per esplorare pianeti particolarmente oscuri o fangosi.
Un’ultima interessante riflessione sulle comunità animali: tra esse vi sono vere e proprie società, come quelle di imenotteri, formiche, termiti, ratti talpa, che praticano una comunicazione estremamente sofisticata ma anche rigida. Gli altri gruppi sono una vasta gamma di aggregazioni che vanno dalle occasioni di corteggiamento, alle strutture familiari, a branchi più o meno grandi. In alcuni di essi, gli individui assumono comportamenti altruistici perché ne condividono il patrimonio genetico. Il comportamento di creature aliene in casi simili sarebbe un interrogativo interessante. Le idee di branco, di collettività, di comportamento “giusto” sono temi molto promettenti, che Ferrari suggerisce e che potrebbero far felici non solo i fantascientisti ma anche, semplicemente, degli animali complessi e curiosi come noi umani.
Buona lettura.
Marco Ferrari, Come costruire un alieno. Ipotesi di biologia extraterrestre, Codice edizioni, 2021, pp. 240, € 17,00
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