In occazione del secondo anniversario della morte di Luca Rastello, Franco Pezzini ci ha inviato un articolo che ci ricorda la sua breve vita e il suo modo particolare di viverla. Grazie Luca e grazie Franco.

Luca Rastello
Due anni fa, nel luglio 2015, fa moriva Luca Rastello, giornalista, narratore, saggista, operatore umanitario. Moriva ancora troppo giovane, ma dopo aver vissuto simultaneamente e intensamente molte vite: così tante da rendere oggi non semplice il recupero in chiave biografica anche solo dei fili principali di tale incredibile cammino. Come invece hanno fatto con coraggio e con rispetto gli autori (Gian Piero Amandola, Max Carnemolla, Susanna Gianandrea e Francesca Modica) del documentario Un passo più in là – Un viaggio con Luca Rastello, che andrà in onda su Rai Storia giovedì 6 luglio 2017 alle 23,40: una produzione Rai Teche realizzata dal Centro di Produzione Rai di Torino, e che da una vita eccezionale riesce a non trarre un semplice santino. Con particolare attenzione all’opera umanitaria durante la guerra in Iugoslavia, ma spaziando dagli anni al D’Azeglio fino agli ultimi di vita, il documentario costruisce come a mosaico un ritratto di Rastello che è anche un’intrigante macchina per pensare. Tra i conoscenti di Luca vengono infatti interpellati alcuni esponenti di rilievo del mondo culturale torinese: e in termini di grande equilibrio, senza polemiche, senza giudizi è possibile dal documentario farsi un’idea su modi anche tanto diversi di essere intellettuale oggi. Luca non era uomo da salottino di Fazio, non era uomo da «io… io… io»: ma era intellettuale sul serio, nel modo più onesto e disincantato che oggi sia concepibile. Per esempio teorizzava questo: lasciar perdere per tutto il possibile un certo grande circo, e invece tutte le volte che lo chiamavano andare sempre (anche quando le condizioni di salute stavano ormai precipitando) a parlare nelle scuole, o in iniziative «dal basso», e dire le robe che in questa Italia non sono dicibili e invece vanno dette. Dirle con gli strumenti del giornalista e del narratore, ma con estrema attenzione a quale linguaggio usare di volta in volta.
Non stupisce oggi sentire, talvolta anche in incontri pubblici, fraintendimenti del suo pensiero: sempre schierato ma evitando la semplificazioni, sempre lucido e diretto senza farsi tirare per la giacchetta sotto questa o quella bandierina. Indicative le reazioni a un libro come I buoni (2013), la cui carica critica si è spesso voluta ridurre a un giochino di maschere: una carica critica di cui invece abbiamo un gran bisogno per leggere non ingenuamente, da un lato, i convulsi intrecci di pubblico/privato che sempre più generano stili socialmente impattanti (dalle gestioni degli appalti alle consultazioni nelle aziende), e dall’altro meccanismi luridi che noi introiettiamo, e tali da far riconoscere all’autore di essere per primo lui stesso il cattivo Don Silvano. Badiamo che questa lettura ad ampio raggio è molto più esplosiva e più radicale di qualunque riduzionismo a identificazioni spicciole. Ovvio che spesso si consideri oggi Rastello come l’autore non citabile se non dietro prudenti distinguo («hai visto mai che si pensi che io condivida…»), che da comode poltrone ci si affretti a stigmatizzare le sue «generalizzazioni» («è così ingiusto e cattivo nei suoi giudizi…») o – per altri versi – che si provi a neutralizzare la carica critica delle sue parole in letture ammorbidite, concilianti, modaiole. Per esempio ponendo un altro suo libro esplosivo, Binario morto scritto con Andrea De Benedetti sul tema TAV, nell’innocuo scaffale dei libri di viaggio.
In Italia siamo specialisti nel dichiararci empatici con chi soffre: divi, calciatori, politici di ogni ordine e grado fanno a gara nel mostrare di essere solidali e condividere le sofferenze – uno sport nazionale fatto di flash e dichiarazioni ufficiali. Dopodiché quando ci si imbatte in una persona come Luca Rastello che empatico lo era davvero, che davvero viveva le ingiustizie sociali o i dolori individuali con partecipazione profonda, sofferta e personalissima, fino a mettersi a combattere a fianco della persona che sta male, fino a sfidare poteri radicati e ammanicatissimi, ecco che il mondo rimane spiazzato. Con una reazione di attonita, sospettosa perplessità verso questa specie di anomalia – uno stupore che emerge anche da voci di questo documentario, stimolante anche per questo. A dispetto delle vite salvate in Bosnia, a dispetto di tante azioni di coraggio, la vita di Luca non è stata una storia da santino: c’erano le fragilità e l’autoironia (magari nella forma di una certa risata) che impediva di prendersi troppo sul serio, gli errori e un carattere a volte non facile. Ma l’incontro con lui, almeno per chi non si chiudesse sterilmente nella propria nicchia di potere (grande o piccola che fosse) cambiava in concreto la vita delle persone: forse gli strumenti della cultura dovrebbero servire anche a questo. E tra i tanti regali, agli amici ne ha lasciato uno che è una bomba, distillato dall’esperienza già di suo padre davanti all’unico problema per noi uomini davvero irresolubile: da buon artigiano della vita e che la vita ama senza equivoci (per dieci anni ha combattuto contro un tumore orrendo proprio grazie a questo amore di vivere), Luca aveva messo a fuoco che anche la morte è qualcosa che si può affrontare. Si può fare. State serene – dice in quell’ultima lettera alle figlie che in realtà continua a consolare chiunque gli abbia voluto bene –, ricordatelo sempre, c’è sempre un’altra strada.
È con questa coscienza della radicalità proficua e senza sconti dei testi di Luca e insieme della sua sovrabbondanza di umanità che, come amico tra i tanti in una delle sue tante vite, propongo il breve passo che segue. Il giorno della funzione al Tempio crematorio di Torino, 8 luglio 2015, sono stati letti parecchi testi commemorativi: queste poche righe stordite, su un Luca più «privato», erano il mio.
Un gioco, uno scherzo che da ragazzi facevamo con Luca era di immaginare quando, ormai adulti e celebri, qualcuno avrebbe girato il grande film sulla nostra vita – e di immaginare persino gli attori che ci avrebbero interpretati (per sé voleva Robert Mitchum). È dunque in questa luce di gioco e di scherzo che va compresa la frase che sabato pomeriggio scorso – quando io ero lontanissimo da pensare che si sarebbe trattato di un dialogo ultimo – mi ha detto a un certo punto: «Ti affido un incarico: quando ci sarà il grande film sulla nostra vita impedisci che mi raffigurino come l’intellettuale tormentato». Ho risposto che avremmo virato il tutto sullo spirito gavazzone di Rabelais (era stato Luca a regalarmi il Gargantua), poi qualcosa ci ha interrotti e il discorso non è stato ripreso.
Ecco, in questi giorni si stanno moltiplicando – e giustamente – articoli che ricordano la vita di Luca, il suo spessore di intellettuale, le sue battaglie, il coraggio di dire cose che in Italia nessun altro aveva osato dire – e delle quali c’è un gran bisogno; e spesso in questi articoli si ricorda l’uomo-Luca, la sua onestà, il suo rigore. Il suo lavoro non era «finito» perché in fondo non poteva finire, e anzi sta a noi continuarlo (sia pure con mezzi tanto più limitati). Tutto questo è importante, e anzi fondamentale. Ma per quanti di noi hanno avuto il dono della sua amicizia è chiaro che questo impegno pubblico era il precipitato naturale, senza cesure, senza scollamenti, di ciò che lui era nella vita quotidiana. Delizioso e a volte non comodo, affettuoso e pronto alla risata, fantasioso e visionario, amante dell’avventura, amante della bellezza. Non la bellezza come dimensione astratta, ma quella che si spalanca a ventaglio a rivelarci perché la realtà in cui siamo immersi può essere davvero – con le parole del Genesi – cosa buona. Una bellezza relazionale, una bellezza da vivere insieme o almeno da condividere il più possibile: che certo dobbiamo saper avvertire noi per primi, dobbiamo saperne gioire, ma che poi è pronta a erompere con forza – e Luca sapeva liberarla tutto attorno a sé. Si trattasse di un pagina di Omero o (appunto) di Rabelais o invece di un pezzo musicale, delle meraviglie della via carovaniera di Samarcanda, delle piole del Canavese o di Praga, o magari della tovaglia che, diceva ieri una sua vicina, lui le aveva visto stendere, aveva commentato che era proprio bella e aveva finito col comprarsene un paio simili anche lui.
Questa bellezza relazionale che illumina la realtà è in fondo un aspetto di quella con la B maiuscola, la Bellezza che i padri russi – che Luca conosceva bene – dicono che salva il mondo. Qualcosa che sana la cesura tra una materialità che (ben sappiamo) ha le sue ragioni, e ciò che normalmente si definisce spiritualità. Luca questa Bellezza l’ha cercata tutta la vita, godendone le dimensioni più speciali come le più quotidiane e condividendole con generosità – col sogno e l’impegno di rendere più bello anche il mondo intorno.
Ho parlato al passato solo per convenzione linguistica: possiamo avere idee diverse su cosa ci attenda una volta chiusi gli occhi, ma credo che dobbiamo dare ragione all’amico che ieri esortava a parlare di Luca al presente. Qualunque sia il nostro modo di concepire le cose ultime, in ogni caso Luca è nella nostra vita presente, nel nostro oggi, nei nostri sogni, nel senso della Bellezza che ci invita a cercare. Ed è nel nostro futuro, ad aiutarci a guardare a una realtà che sia più giusta e più bella.
…
Qui il link per il materiale a suo tempo pubblicato su LN-LibriNuovi.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.