1 . Non fatevi prendere dal panico
Richard Dawkins, biologo evolutivo, divulgatore e autore di bestseller, da molti affettuosamente definito «il Rotweiler di Darwin» per la sua strenua difesa del darwinismo più stretto, è da molti anni felicemente sposato con Lalla Ward, un’affascinante signora che per la maggior parte del pubblico inglese (e per pochi italiani con una memoria eccellente) è «l’assistente di Doctor Who», per il ruolo interpretato in gioventù nella più longeva e rispettata serie televisiva di fantascienza europea.
Il Rotweiler di Darwin conobbe l’Assistente di Doctor Who grazie a Douglas Adams, un giornalista radiofonico riciclatosi come sceneggiatore che, non dovremmo essere sorpresi, una volta scrisse un libro su una nave che si spostava grazie all’improbabilità, e così facendo cambiò per sempre il mondo della fantascienza.
In quel libro – e nei successivi – un numero assunse un ruolo centrale, divenendo la cifra iconica per i fan di Adams, il numero dei numeri.
La risposta alla domanda sulla Vita, l’Universo e Tutto Quanto.
Quarantadue.
Presentato dalla solita collana Urania con una bella copertina di Karel Thole ma senza lo straccio di un apparato critico – neanche la biografia dell’autore – in un’estate di tanti anni fa, Guida Galattica per Autostoppisti lo divorai in un pomeriggio, durante il quale mia madre entrò in camera un paio di volte più del solito, per venire a vedere che cosa ci fosse di così straordinario per farmi ridere a quel modo.
Divenni un fan di Douglas Adams praticamente all’istante.
E solo qualche anno dopo, confrontandomi coi pilastri del fandom, scoprii che gli appassionati di fantascienza «seri» – quelli che leggevano Asimov e Heinlein dai tempi delle medie, e consideravano Dune un capolavoro – avevano odiato fin da subito Guida Galattica per Autostoppisti, e continuavano a detestarlo.
Stupido, ridicolo, insopportabilmente irrazionale…
Una scemata, in poche parole.
La trama?
Mentre difende la propria casa, condannata alla demolizione dal Comitato Comunale della Viabilità che vuol metterci al posto uno svincolo autostradale, Arthur Dent (che come l’autore lavora per la radio) è testimone della demolizione della Terra per ordine dell’Autorità Viabilità Galattica, che al posto vuole metterci uno svincolo iperspaziale.
Arthur si salva (unico umano sopravvissuto, per ora) grazie all’amico Ford Prefect (che umano sembra, ma non è), un cinico freelancer che lavora come ricercatore sul campo per la Guida Galattica per gli Autostoppisti, fonte essenziale di informazioni per il viaggiatore spaziale (e molto meglio dell’Enciclopedia Galattica). I due scroccano un passaggio proprio su una nave da demolizione, vengono scoperti, torturati con la lettura di una poesia dal comandante, gettati nello spazio e raccattati all’ultimo minuto da una nave spaziale sperimentale.
Rubata.
Sulla nave – che è propulsa dall’improbabilità – si trovano Zaphod Beeblebrox, il migliore amico di Ford Prefect, una tipa che una volta Arthur ha cercato di rimorchiare (senza successo: la rimorchiò Zaphod, raccontandole di essere un extraterrestre) e un robot maniaco depressivo.
Beeblebrox, ex playboy, già Presidente Galattico, ha rubato la nave (che si chiama Cuore d’Oro) per usarla nella ricerca di un pianeta perduto, dove spera di scoprire per quale motivo, anni addietro, egli stesso si sia autoinflitto una mezza lobotomia sigillando a colpi di laser alcuni ricordi critici.
Segue l’arrivo sul pianeta misterioso, l’incontro coi resti di una civiltà che costruiva pianeti come attività industriale, la rivelazione di quale fosse la specie più intelligente sulla Terra e infine la Domanda Finale.
La cui risposta è «Quarantadue».
Non sorprende che gente cresciuta con Podkaine di Marte o L’altra faccia della Spirale ne avesse ricavato solo un gran mal di testa.
Tuttavia mancarono il bersaglio.
Guida Galattica per gli Autostoppisti non è affatto ridicolo.
2 . Motore rotto blues
Non era la prima volta che l’umorismo si accompagnava alla fantascienza.
I lettori italiano conoscevano e apprezzavano ad esempio le storie di Ron Goulart, che con gli anni Ottanta sarebbe quasi completamente scomparso dal panorama italiano, ma che negli anni Settanta vendeva bene, e piaceva.
Si trattava di storielle infestate di giochi di parole, situazioni giovanilisticamente osé, e una generale aria da vaudeville.
Forse la trovata più memorabile di Goulart fu il robot Nutzemboltz, sorta di meccanico Che Guevara di una rivoluzione robotica marxista – e questo ci dà un’idea del livello e dei limiti dell’umorismo di questo autore.
Goulart scriveva essenzialmente satire di costume, nelle quali l’elemento fantascientifico veniva utilizzato per amplificare l’effetto comico delle frecciate lanciate verso la burocrazia, l’ipocrisia e il perbenismo, le mode culturali, i nuovi mostri.
In questo senso, i romanzi di Goulart non si discostavano da lavori – infinitamente migliori – pubblicati da autori come Silverberg, Sheckley o Leiber: satire del mondo di oggi attraverso la lente deformante di un domani ridicolo.
Se qualche elemento della fantascienza veniva satireggiato, era la fantascienza pulp degli anni Venti e Trenta, di Burroughs e Hamilton – le donnine discinte, le creature umanoidi dalla pelle di colori insoliti…
Niente che Lyon Sprague De Camp non avesse già fatto – ancora una volta, molto meglio – con le sue serie sui robot clochard o con le storie dei Viagens e del pianeta Krishna (aperta satira del planetary romance alla Burroughs o alla Vance).
Lyon Sprague De Camp, di solito in combutta con il suo degno compare, l’incomparabile Fletcher Pratt, è anche responsabile di una più interessante produzione fantasy umoristica, che si segnala per una sostanziale differenza: non più (o non solo) la quotidianità dell’America del presente viene satireggiata, ma anche tutti gli elementi e i cliché del fantasy.
Troppo tradizionale per poter essere veramente classificata come fantasy revisionista, la produzione De Camp/Pratt è tuttavia molto diversa dalla fantascienza umoristica sua contemporanea, nel mettere in discussione proprio le basi del genere.
Principesse leggere, leprecauni avvinazzati, minuscoli draghi tascabili usati come trappola per topi, alcoolisti col potere di materializzare i propri incubi da delirium tremens… il baraccone di Pratt & De Camp mina le radici del fantastico, e (forse) inconsapevolmente ne promuove l’evoluzione e la maturazione.
Nella fantascienza hard manca qualcosa di simile fino al fatidico giorno in cui il signor Prosser, discendente diretto di Gengiz Kahn (non che lui lo sappia, naturalmente), forte dei suoi caterpillar, non va a bussare alla porta di Arthur Dent, per imporgli l’evacuazione immediata.
E fu in fondo questo ad andare contropelo agli appassionati «seri» – qui c’era un libro di fantascienza che si faceva beffe della fantascienza.
Pur restando scientificamente plausibilissimo, e quindi molto hard.
E molto più avanti, scientificamente, di tanta fantascienza hard.
Douglas Adams era un uomo malinconico intrappolato in un mestiere ridicolo.
Pigro, per sua stessa ammissione, usava il computer Apple sul quale scriveva come scusa per non scrivere – aggiungendo e rimuovendo componenti hardware e software, svolgendo laboriose manutenzioni, testando nuovi programmi… tutto pur di non scrivere.
Come autore radiofonico curò molti programmi scientifici, ma collaborò pure con i Monty Python, e scrisse vari episodi di Doctor Who e altre serie televisive della BBC.
Intelligente, molto portato per la matematica e affascinato dalla scienza, Adams riversò le proprie diverse esperienze in Guida Galattica – uno sceneggiato radiofonico, all’origine – e nei quattro episodi successivi della trilogia (…., OK, lasciamo perdere per il momento).
Se la New Wave inglese – altra branca del genere fantascientifico molto odiata dai tromboni nostrani – rappresentò la ribellione verso la scarsa qualità letteraria della fantascienza contemporanea, allora GuidaGalattica rappresentò il grido isolato di ribellione verso la scarsa qualità scientifica della fantascienza contemporanea – ancora incapace di rendere le meraviglie della matematica estrema, le complessità dello spazio-tempo, o di estrapolare realisticamente da questi elementi una visione veramente rivoluzionaria del futuro.
E in più, faceva ridere da impazzire.
Altri più dotati di noi hanno discusso su queste pagine del motore a improbabilità, certo una delle più felici invenzioni letterarie di Adams, al contempo un valido costrutto logico e un’eccellente giustificazione per il crescente numero di improbabili eventi che costellano i romanzi della serie.
Ma si tratta di una sola delle molte solide trovate scientifiche di Adams, per anni considerate spazzatura da lettori non abbastanza preparati per coglierle.
Altri esempi?
Beh, è solido e reale il fatto che si possa sopravvivere nel vuoto dello spazio senza tuta per una trentina di secondi, idea che scatenò le furie dei lettori ma che è verificata scientificamente, con buona pace degli effetti speciali di Total Recall.
Così come è solida e reale, per quanto controintuitiva, tutta la matematica alla quale Adams fa riferimento.
E abbiamo accennato a mister Prosser, dipendente comunale e discendente di Gengiz Kahn.
Anche questo non è poi così irrealistico, considerando la crescita demografica e le linee genetiche europee, siamo TUTTI discendenti di Gengiz Kahn, per strano che possa sembrare.
E la Domanda Finale?
Non sorprende che, appresa la risposta («Quarantadue»), la domanda vada perduta, e in nulla si risolvano i tentativi di recuperarla, in sintonia con il Principio di Indeterminazione.
Ma forse Adams è molto più sottile: abbiamo una risposta precisa (che è, lo ripetiamo, «Quarantadue») perché non abbiamo mai fatto una domanda precisa.
Se avessimo fatto una domanda precisa, ne avremmo ricavata una risposta molto più vaga.
Più fuzzy, per così dire.
Ma c’è di più.
Tragicamente realistica – per quanto potenzialmente deprimente – è la visione dell’universo di Adams, che coincide (qualcuno apprezzerà il paradosso) tanto con quella di Lovecraft che con quella di Dawkins e della paleontologia moderna.
L’universo di Adams è un vasto meccanismo senz’anima e senza ragione, nel quale particelle si agitano sospinte da forze che non comprendono, e che non hanno significato.
Essere intelligenti – intelligenti davvero – in un universo di questo genere, è la garanzia della depressione – e non è forse Marvin il robot depresso dotato di «una mente grande quanto un pianeta»?
Gli esseri umani e gli altri ridicoli abitanti della galassia sfuggono alla follia semplicemente abbracciando il ridicolo che deriva dall’essere creature ordinate in un universo disordinato.
Iniziata con una risata, la saga di Guida Galattica si chiude con profonda amarezza, e i successivi romanzi della trilogia – Ristorante al termine dell’universo, La Vita, l’Universo e Tutto Quanto, Addio e grazie per tutto quel pesce, Il Salmone del Dubbio e Praticamente innocuo – sprofondano in un crescente pessimismo.
Arthur Dent si fa più rassegnato e Ford Prefect più cinico.
La ragione è da ricercarsi nell’altra opera fondamentale di Douglas Adams, quel Last Chance to See che nessuno ha mai pensato di tradurre nella nostra lingua, un lungo periplo del pianeta alla ricerca di tutte quelle realtà transeunti del mondo naturale che la nostra generazione sarà l’ultima a poter vedere.
Un saggio amaro e inesorabile.
Dopo la radio e la carta stampata, Guida Galattica divenne uno sceneggiato televisivo a bassissimo costo e un film troppo sontuoso per essere completamente fedele all’originale.
Adams – ormai talmente esperto nell’uso del suo computer Apple da essere assunto dalla Apple come consulente – pubblicò due romanzi nella serie di Dirk Gently e Starship Titanic, romanzo collegato al videogioco del quale Adams aveva curato lo script.
Si tratta di opere affascinanti, ma prive del mordente della Guida.
Poi, senza troppa pubblicità, Douglas Adams morì per una crisi cardiaca.
Non arrivò mai alla cinquantina.
Oggi, Guida Galattica per Autostoppisti è un libro culto.
Che brutto.
Mondadori ce l’ha ristampata in tutte le salse, tutte le edizioni, tutte le possibili permutazioni.
Io ho ancora il mio vecchio Urania, e l’edizione della Pan, con «Don’t Panic» stampato sulla copertina.
I vecchi tromboni continuano a piangere per ogni chiasmo della prosa di Asimov, per ogni pentamero annidato da Heinlein nelle sue descrizioni di soldati spaziali contenti.
E ammettono che no, dopotutto, Adams non era così male.
Non si ricordano di Goulart.
De Camp e Pratt non li ristampa nessuno; criminalmente, i Racconti del Bar di Gavagan non hanno mai visto la pubblicazione nel nostro paese.
[Buttiamola lì…. Magari Fanucci decide di farlo uscire.]
Altro?
Douglas Adams ha avuto tre eredi in campo fantastico che meritano una menzione.
Il primo, anche cronologicamente, è Terry Pratchett.
Popolarissimo per le sue storie del Discomondo, Pratchett esordì con una storia intitolata The Dark Side of the Sun incentrata, guardate un po’, su un’azienda che costruisce pianeti.
Indubbiamente il mondo piatto descritto da Pratchett in The Colour of Magic e nei romanzi successivi entrerà nella storia del fantastico – per il numero di copie vendute, certo, per la tagliente polemica verso Harry Potter, ma anche per l’assoluta qualità letteraria di molte delle uscite della serie (basti pensare alla trilogia sulla Morte in vacanza).
Pratchett è un discendente tanto di De Camp e Pratt quanto di Adams: la sua logica è ferrea, la sua adesione ai modelli del fantasy classico totale.
Le sue storie non sono semplici satire della società contemporanea, ma anche e soprattutto una satira del genere, una feroce sottolineatura in rosso di tutte le brutture, i cliché triti e le sciocchezze che infestano gli scritti di molti emuli di Howard o Tolkien.
Secondo arrivato, meno popolare, comparso sporadicamente in Italia, è Tom Holt.
Il suo Expecting Someone Taller abbe l’onore di venire segnalato da Michael Moorcock nel saggio sul linguaggio del fantasy, Wizardry and Wild Romance. Holt ha una passione per il classicismo e le sue opere rappresentano di solito aggiornamenti di miti classici.
L’intento satirico è più palese, ma il risultato complessivo è ancora una volta arricchito dal realismo (non abbiamo altro modo di definirlo) mutuato da Adams.
Titoli essenziali, Who’s Afraid of Beowulf, You Don’y Have to Be Evil to Work Here (But it Helps), e Blue Skies.
Curiosamente – o forse no – sia Pratchett sia Holt sono stati trattati meglio, nel nostro paese, dall’editoria per ragazzi.
Certo, insieme con i romanzi effettivamente scritti per un pubblico giovanile sono stati anche tradotti romanzi per adulti, ma nessuno pare essersene accorto.
Terzo erede di Adams, e soprattutto del suo nichilismo cosmico, è l’americano Christopher Moore, che ebbe un discreto successo con La Commedia degli orrori ma poi scomparve dai nostri schermi (e così ci siamo persi, ad esempio, la «commedia romantica» Bloodsucking Fiends).
Più orientato all’orrore che al fantastico puro, Moore è un ateo convinto che scrive di dei, demoni e tutte le creature intermedie. Non c’è ombra di satira nelle sue pagine, se non verso le aspettative artificiose dei lettori stracchi.
Però, come abbiamo detto, tutti questi autori non li traducono – o, peggio, li traducono male.
I fan si prendono troppo sul serio, e non amano chi li sbertuccia e – implicitamente – dà loro degli ignoranti.
Ma chissà, forse Fanucci leggerà queste pagine, e deciderà di sfruttare un paio di buone idee a costo zero.
E d’altra parte, la vera eredità di Douglas Adams, ironico e malinconico esploratore delle possibilità più avventurose della scienza, è stata in realtà raccolta da autori quali Ian M. Banks, Ken Macleod o Charles Stross, capifila di quella fantascienza al contempo hard e avventurosa, seria senza essere seriosa, che da un decennio domina le classifiche di gradimento e i premi letterari. Allo stesso modo i canadesi Cory Doctorow, Karl Schroeder e David Zindel hanno saputo scrivere storie nelle quali gli aspetti più improbabili della fisica quantistica, il ritmo della matematica, tutto ciò che di controintuitivo si annida nella nostra realtà, viene messo al servizio del vecchio sense of wonder.
Tutti citano con affetto Douglas Adams come idolo personale, icona, o semplicemente come autore preferito.
E che i tromboni continuino a trombonare.
Douglas Adams, Guida galattica per autostoppisti
Mondadori Oscar, pp. 224, € 9,50, trad. Laura Serra
Douglas Adams, Ristorante al termine dell’universo
Mondadori Oscar, pp. 252, € 9,50, trad. Laura Serra
Douglas Adams, La vita, l’universo e tutto quanto
Mondadori Oscar, pp. 238, € 9,50, trad. Laura Serra
Douglas Adams, Addio, e grazie per tutto il pesce
Mondadori Oscar, pp. 208, € 9,50, trad. Laura Serra
Douglas Adams, Il salmone del dubbio
Mondadori Oscar, pp. 300, € 11,50, trad. Laura Serra
Douglas Adams, Praticamente innocuo
Mondadori Oscar, pp. 246, € 9,50, trad. Laura Serra
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Douglas Adams, Guida galattica per autostoppisti. Il ciclo completo
Mondadori Oscar, pp. 1000, € 15,00 trad. Laura Serra
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