Nell’aprile del 1994 hanno inizio i terribili Cento Giorni del genocidio del Ruanda, che porteranno alla morte un numero di persone comprese tra gli 800.000 e il milione. Vittime degli squadroni irregolari di Hutu – Interahamwe e Impuzamugambi – furono innanzitutto i Tutsi, una delle tre etnie del Ruanda, ma anche gli Hutu moderati, ovvero coloro che aiutarono i Tutsi a tentare di sfuggire al massacro. Al genocidio parteciparono numerosi elementi dell’esercito del Ruanda (FAR, Forze Armate Ruandesi) ed esponenti della guardia presidenziale. A guidare i gruppi di carnefici Hutu fu la Radio indipendente, la RTML, membri dell’organizzazione civile come sindaci e poliziotti e membri del clero parteciparono ai massacri, favorendo i gruppi di assassini o indicando loro dove i gruppi di Tutsi si erano rifugiati.
La guerra civile in Ruanda non era un fatto nuovo, dagli anni ’60 in poi i massacri e i tentativi di golpe organizzati dai due gruppi etnici si susseguirono, influenzando e colpendo anche le nazioni vicine: Burundi, Zaire, Tanzania e Uganda.
Ma la separazione tra Tutsi e Hutu non ha nulla di tradizionale.
La percezione di una divisione etnica da parte della popolazione del Ruanda è in gran parte un effetto del dominio coloniale europeo, prima tedesco e poi belga. I coloni introdussero le carte di identità e iniziarono a classificare rigidamente i ruandesi in funzione del loro status sociale e delle loro caratteristiche somatiche, in particolare distinguendo chiaramente fra Hutu e Tutsi. I Tutsi, in genere più ricchi e compiacenti, furono favoriti. L’antropologia razzista teorizzò che i Tutsi fossero una razza diversa dagli Hutu, intrinsecamente superiore in quanto più vicina a quella caucasica. Il fatto che Tutsi e Hutu siano due gruppi etnici distinti è stato oggetto di un notevole dibattito, e oggi l’ipotesi di un’importante differenza di origine etnica viene raramente presa in considerazione. [da Wikipedia]
Ed è nell’aprile del 1994 che Bérénice – Bibi – assiste al massacro della madre, della zia, del fratellino e dei tre cuginetti. Bibi ha cinque anni, allora, e, per quanto ferita, miracolosamente sopravvive. Il suo principale difetto è quello di essere una Tutsi, anche se lei stessa non avrebbe saputo dire in che cosa consistesse la differenza con un Hutu.
Salvata da una famiglia di Hutu, vicini di casa, Bibi viene trasportata in ospedale. Con tutti dovrà dichiarare di far parte della famiglia di Joseph e Marie Claire, ma questo è soltanto l’inizio di una serie di traversie che la condurranno prima in una famiglia di militari del FAR, poi nello Zaire, nella famiglia di Gerard e Astrelle, fino a suor Celeste e, a quattordici anni, in Italia.
Bibi ha cinque anni ma conosce troppo presto emozioni e stati d’animo più volte apparso nella vicenda umana del XX secolo, non a caso narrate da Primo Levi nel suo I sommersi e i salvati:
Ero viva, forse quello era il problema: scontavo il prezzo di respirare ancora. Non riuscivo ad andare avanti senza sentirmi colpevole, ma vivere non era stata certo una mia scelta e, a volte, mi pesava.
Raccontata con una leggerezza a tratti surreale, con i modi e i toni di una bambina di cinque anni costretta a crescere troppo in fretta, la vicenda della piccola Bibi rende familiari anche a chi della guerra civile in Ruanda non ne seppe né volle saperne nulla, il dolore, l’ansia, la rabbia, l’angoscia, il peso insostenibile dei distacchi, gli incubi, il rimorso di chi quella guerra visse senza poterla comprendere:
Dal giorno del massacro, anche inspirare ed espirare o mandare giù un sorso d’acqua era diventato un’impresa. Sembra assurdo, ma cercavo persino di convincermi a dormire, a riposare senza saltare sul letto ogni due ore, come una tarantolata, per gli stessi incubi. Era come un film visto e rivisto, in proiezioni mai autorizzate: scene del giorno dell’eccidio, talmente vivide da essere reali. Così impressionanti che, a volte, si arricchivano di particolari che credevo dimenticati. Invece tornavano sempre, come un monito, come qualcosa che mi apparteneva talmente tanto da non potermene disfare.
A colpire profondamente il lettore sono piccoli gesti, stati d’animo imprevisti e imprevedibili per una bambina, come la curiosa noncuranza verso il proprio braccio curato affrettatamente nell’ospedale ruandese, considerato un prezzo da pagare – e che è giusto pagare – per essere stata l’unica sopravvissuta, o la terribile stanchezza che la coglie a tratti, la rassegnazione nell’essere soltanto una bambina in un limbo dove migliaia e migliaia di altri bambini sono, come lei, perduti e dimenticati.
Un libro raccolto grazie al lavoro di Christina Ruggeri, che merita leggere e che propongo volentieri. Anche e soprattutto in tempi nei quali parlare di Africa è diventato intollerabile, scomodo o fastidioso. La vicenda di Bibi è un memento che non è possibile ignorare. In nessun caso.
Christiana Ruggeri, Dall’inferno si ritorna
Giunti 2015, pp. 236, € 14,90
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