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    Interzona · Magazzino

    Luca Rastello: due recensioni e un’intervista

    • di admin
    • Luglio 7, 2015 a 6:48 pm

    …la cocaina e l’eroina sono le merci più redditizie nella storia dell’economia, proprio perché la difficoltà di accesso al mercato al livello del dettaglio crea la sproporzione fra investimenti e ricavi

     

    La scomparsa di Luca Rastello ci ha colto di sorpresa. In fondo, come per tutte le persone a noi care, non potevamo credere che avrebbe ceduto al tumore col quale combatteva da dieci anni. Non è andata così. Luca mancherà a noi tutti.

    Ripresentiamo qui due recensioni e un’intervista usciti su due numeri di LN-LibriNuovi. A cura di Luca Battisti e Marco Email.

    piove rastello

    Il romanzo nasce da un pretesto: la moglie del protagonista (tra l’altro estranea al resto del romanzo) riceve una lettera di licenziamento. Duro colpo. Come per sollevarla, per esserle accanto, il marito inizia allora a raccontarle la propria storia, quella antecedente il loro incontro e le varie vicende socio-politiche di cui volente o nolente è entrato a far parte nel corso degli anni. Quello che si avvia tra i due è una sorta di dialogo immaginario, un flusso di ricordi forse nemmeno esternati a voce o in altra maniera e comunque dedicati alla moglie, una delle tante vittime dei buchi e delle falle dell’economia moderna con cui purtroppo ci confrontiamo giornalmente. Partendo da qui il protagonista ha modo di ripensare a un tempo in cui, intorno al ’77, si credeva di poter buttar giù – e con ogni mezzo – la base per un futuro diverso. Abbagliato da eroina, politica, emancipazione e altre sirene. Un futuro meno flessibile. Ma più solido, più rispettoso del valore della forza lavoro. Tutta la storia ruota attorno a questo perno: l’evidente fallimento di alcune proposte. È lì che sono le radici del nostro presente.
    L’intreccio è l’opportunità per ricostruire un periodo, ma la ricostruzione, che converge poi sui fatti intorno all’omicidio del generale Dalla Chiesa, è condotta in modo anomalo: con salti, contorcimenti nello spazio e nel tempo, a volte contaminata da inserti delle letture di Urania. Non è un filo lineare. Sembra quasi che Rastello voglia costruire un libro generazionale che rispecchi, anche nella forma, la confusione della generazione che ne è al centro. Diciamo che lo scheletro del romanzo racconta una situazione, una storia, dei personaggi attraverso una serie di squarci e frammenti di vita. Ma oltre al ’77, prepotente come non mai sulla scena letteraria, c’è anche un protagonista in carne e ossa (forse un alter ego di Rastello): Pietro, un ragazzo e poi un uomo molto riflessivo, con idee chiare, coinvolto e trascinato nel suo tempo ma a suo modo propositivo. Una spugna che assorbe quel che gli sta attorno più che una pecora del branco come potrebbe apparire a una lettura superficiale. Attorno a lui una selva di volti e animi. Alcuni emergono per profondità e sfaccettature, altri sono più sbiaditi. Tra i personaggi che più colpiscono ci sono i genitori del protagonista. Borghesi provati, spaventati dal comunismo, dovrebbero essere il nemico, invece restano solidi e positivi sino alla fine. Commovente la descrizione della morte dei due, specie quella del padre che, per non far carico della propria malattia al figlio, cerca con tutte le forze di non pesare e di cavarsela da solo. Come farebbe un militare quale egli è. Meno riuscite e coinvolgenti altre storie: ad esempio le ragazze con cui il giovane Pietro instaura un particolare e ambiguo rapporto sentimentale e sessuale alla ricerca dell’uomo nuovo. Si è meno trasportati nelle pagine a loro dedicate e quando escono – anche tristemente – dalla narrazione non si sente malinconia. Forse perché fallimentare è stata anche la loro storia particolare e dunque c’è il bisogno di ridimensionarla.
    Torino è lo sfondo di buona parte del romanzo e rimane disegnata come un’ulteriore protagonista silenziosa. La città è ricreata non da ambienti o suggestioni ma dalla sua storia così intimamente legata alla Fiat e al movimento operaio. Non può essere diversamente in un libro così fortemente politico. Una Torino fisica e misteriosa emerge però in altri capitoli che trovo piuttosto riusciti anche se forse eccedenti.

    rastello

    Luca Rastello

    La scrittura è solida: forse eccessivamente nervosa, a tratti delirante, e rende a volte meno partecipi degli eventi. In ogni caso è uno stile che si confà a un flusso di ricordi e al taglio col quale si è deciso di svolgere il romanzo. Dobbiamo notare che a volte perdiamo l’attenzione fra tanti dettagli, fra tante rabbie che finiscono per perdere parzialmente valore se messe l’una di seguito all’altra. Non è una lettura agevole. Questo è vero. Alla fine risulta lievemente stancante seguire le sorti delle varie comparse, frastagliate in orizzonti temporali che si inseguono e ritornano su se stessi. Proprio per questo dà più soddisfazione riuscire a tenere duro sino alla fine perché non è certo un difetto per un libro costringere il lettore a mantere sempre vigile l’attenzione. Costringerlo a pensare. A fare i conti col proprio cervello e la propria storia. Vista la mole della narrativa d’intrattenimento talmente leggera da competere in peso specifico con i gas più nobili, talmente avulsa da ogni istinto sociale da rendere piatte le onde cerebrali, a volte una razione di piombo serve proprio. Non fosse altro per tenerci ancorati a terra. Sì: all’ingiù.
    Luca Rastello, Piove all’insù
    Bollati Boringhieri 2006, pp. 259, € 18,00

     

    io sono il mercato
    Capita raramente di essere sorpresi da un libro. Libri interessante, curiosi, ben scritti, libri belli ne escono ancora, per fortuna, anche se è difficile scovarli in mezzo all’enormità di titoli che ogni giorno invade le librerie. Non sto parlando di libri di pura evasione: ma di strumenti per interpretare la realtà. Che siano inchieste, reportage o romanzi, descrizioni di paesi lontani e sconosciuti, storie appassionanti e complesse di intrighi internazionali o avvincenti ricostruzioni di eventi noti e meno noti, direttamente o indirettamente collegati al nostro quotidiano, si incontrano, con un po’ di fatica. Ma di solito, prima di iniziare, si ha già un’idea di cosa si troverà nel volume: conferme, nuovi argomenti e analisi approfondite a sostegno delle nostre idee, e spesso a fine lettura ci si ritrova a pensare come prima, con qualcosa in più, nel migliore dei casi.
    Luca Rastello è riuscito, in 164 pagine, a farmi girare la testa. In effetti, stavo guardando dalla parte sbagliata. Il suo libro ha illuminato l’economia, la società e il mercato di una luce diversa; credevo di sapere qualcosa sul traffico di sostanze stupefacenti: cani antidroga negli aereoporti, Interpol, corrieri colombiani, conti milionari in Svizzera o alle Cayman, maxisequestri e operazioni congiunte, roba da film. Appunto, un bel film rassicurante prima di andare a dormire: non che sia tutto inventato, soltanto che è tutto banalmente inutile.
    Questa è la storia di un tranquillo e pacifico rappresentante di piastrelle del nord-est che decide di diventare un sistemista, uno che si mette a organizzare il narcotraffico, che si inventa metodi per spostare tonnellate di cocaina dal Sudamerica all’Europa (tonnellate non grammi e nemmeno qualche chilo). Ma è una storia talmente surreale, anche se ben documentata, che pensavo fosse fiction, verosimile ma non vera, una storia immaginata dall’autore per descrivere il mondo criminale. Così ho deciso di chiedere direttamente a Luca Rastello.

    M.E.: La prima impressione che ho avuto, sfogliando in libreria Io sono il mercato, è stata di avere in mano un saggio, una sorta di intervista-confessione rilasciata da un criminale in carcere a un giornalista che si occupa di traffico di droga. Non appena mi sono addentrato nella lettura però, mi sono reso conto che il narratore è atipico e inconciliabile con i canoni della saggistica tradizionale: il giornalista scompare, anzi non interviene per nulla, nemmeno nell’introduzione o nella conclusione ed è il criminale in prima persona a scrivere, rivolgendosi direttamente al lettore in una cornice, a tratti, surreale (come può esserlo un manuale per il narcotrafficante).
    Forse sbagliando, ho visto nel «sistemista» un personaggio di finzione, il protagonista di un romanzo sul crimine, costruito però con molto rigore, attingendo direttamente da fatti concreti e reali o quantomeno verosimili. Ho sbagliato?

    L.R.: Non è un personaggio di fiction. I fatti e i metodi raccontati nel libro sono tutti rigorosamente veri, raccolti in anni di testimonianze incrociate (anche incrociate con sé stesse, a distanza di tempo, per verificare l’attendibilità dell’autorappresentazione, fatalmente narcisistica, di un soggetto criminale), in larga parte guidate dal riferimento a una singola precisa figura di cui non rivelo l’identità per ovvie ragioni ma a cui ho cercato di dare la parola senza mediazioni.
    L’operazione di costruire un manuale di narcotraffico aveva due intenti: il primo quello di raccontare come effettivamente avvengono le consegne di carichi nell’ordine delle tonnellate, qualcosa che influenza profondamente le dinamiche sociali ed economiche del nostro continente ma che stranamente non è mai raccontato se non nella veste limitativa e fantasiosa delle storie di corrieri, valigette e ovuli gastroprotetti (metodi che non consentono il movimento colossale di merci evidenziato dal volume dei consumi). Il secondo di cercare di capire la visione del mondo, i gusti perfino, le scelte, i valori o disvalori di figure tanto nefastamente influenti sui destini di tutti i noi. Il carattere comune a queste due finalità è – insieme a quello di fornire informazioni inedite, come quelle sulla «consegna al buio» – di smontare un po’ di cliché con i quali viene rappresentata una realtà vasta ed efficace al punto da determinare larga parte del sistema delle relazioni internazionali. Credo che un ennesimo saggio con fonti giudiziarie sul volume dei sequestri sarebbe stato pleonastico.

    rastello

    Luca Rastello

     

    M.E.: Dalla lettura del libro emerge in modo chiaro che il mercato della droga è fondato sul proibizionismo. I costi di produzione sono irrisori rispetto ai ricavi della vendita al dettaglio e la domanda non tende ad attenuarsi, sono soprattutto i divieti e il conseguente «lavoro» per superarli che rendono il traffico di droga economicamente redditizio. Ipotizzando un’eventuale legalizzazione delle droghe si ridurrebbero drasticamente i profitti e, probabilmente, come diretta conseguenza il crimine organizzato perderebbe l’interesse economico e subirebbe, quantomeno, un duro colpo. Questa, secondo lei, è e resterà un’ipotesi assurda o ci sono delle possibilità che venga presa in considerazione sul serio? Inoltre, ad impedire un approccio antiproibizionista al narcotraffico ci sono soltanto vincoli di tipo morale ed etico oppure esistono anche altri interessi?

    L.R.: Temo che, benché fondata e ragionevole, resterà un’ipotesi assurda. Per numerose ragioni. Mi limito a segnalarne due. Una di carattere economico: come lei ha giustamente rilevato, la cocaina e l’eroina sono le merci più redditizie nella storia dell’economia, proprio perché la difficoltà di accesso al mercato al livello del dettaglio crea la sproporzione fra investimenti e ricavi. La proibizione ha poi anche l’effetto di impegnare le organizzazioni criminali nel riciclaggio dei proventi del loro traffici, ovvero nella trasformazione di tali proventi in capitali dotati di diritto di cittadinanza nel sistema dell’economia legale. Questo si traduce in un’iniezione di ricchezze formidabile (a velocità che altri cicli economici non possono garantire, peraltro) in interi sistemi creditizi che rischierebbero la catastrofe senza il denaro «sporco». Come è scritto nell’Introduzione, già nel 1999 il Rapporto Annuale del Centro per l’Investigazione e la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti riportava la seguente affermazione: «Se il narcotraffico venisse debellato, l’economia degli Stati Uniti subirebbe perdite comprese fra il 19 e il 22%, mentre quella messicana vedrebbe un crollo del 63%». A queste condizioni – che a dieci anni di distanza, se vanno riviste non è certo al ribasso – nessuno penserebbe seriamente di correre il rischio di una lotta effettiva contro il mercato delle droghe. Contro il mercato tout court si potrebbe sostenere, con un livello di provocazione abbastanza moderato.
    La seconda ragione è più complessa e mi limito ad accennarla. È di carattere direi «antropologico»: la cocaina svolge un formidabile ruolo simbolico, insieme alle altre sostanze stupefacenti, incarnando la figura socialmente accettata del «male assoluto», oggetto di condanna universale e di orrore condiviso. Per molti versi a buona ragione. Ma per contro, questa forma di consenso simbolico che fornisce un formidabile scarico di responsabilità a molti, garantisce una legittimazione incontestabile a chi si batte – a qualunque titolo e in qualunque modo – contro di essa: chi si erge contro il male assoluto non può che qualificarsi come rappresentante del bene assoluto. E quindi incontestabile. Sorvolando sul fatto che la cocaina fornisce i fondi neri di tutte le polizie del mondo, per fare un esempio, che peraltro affiora allarmante dalle inchieste sull’uso che proprio della cocaina facevano esponenti delle forze dell’ordine coinvolti nei fatti genovesi del 2001. Un intero «impero del bene» vasto e articolato, fatto di agenzie pubbliche e associazioni private, polizie, servizi pubblici e mecenati, oltre che naturalmente di politici e formazioni politiche, vive e prospera di questa legittimazione fornita dal male speculare.

    M.E.: Infine, mi piacerebbe avere la sua opinione sulla percezione comune del consumo di cocaina rispetto ad altre droghe. Ho la sensazione infatti che la cocaina non venga vista nella sua pericolosità, non solo individuale ma anche sociale, sembra quasi tollerata dai più come un «vizietto» per ricchi, un illecito non grave per chi ha un determinato stile di vita. Periodicamente si sentono notizie su coca party a cui avrebbero partecipato personaggi pubblici, finanzieri, industriali e addirittura parlamentari. Ma cosa succederebbe se saltasse fuori la notizia che tra i banchi del parlamento siedono eroinomani o che grandi industriali e dirigenti si bucano o si impasticcano? Come si è riusciti a fare della cocaina una droga «pulita»?

    cocaina1

    L.R.: Anche grazie ad accurate strategie di marketing. Non bisogna pensare alla domanda di droghe come a qualcosa di spontaneo e ingovernato. Come ogni industria, quella delle sostanze stupefacenti ha le sue strategie organizzative e di penetrazione del mercato. L’inondazione che ne ha subito l’Europa una quindicina di anni fa, per esempio, è legata fra l’altro alla flessione della domanda Usa in un periodo di riflusso dopo l’euforia anni Ottanta e alla necessità di individuare nuovi mercati fertili lontano dagli Stati Uniti. Governando i prezzi, rivoluzionando la distribuzione e il sistema logistico, delocalizzando (è il ruolo dei «sistemisti»), favorendo modalità di consumo inedite (in Europa, ad esempio consumo giovanile, di massa, «ludico»). Forti anche dell’ipocrisia diffusa, i signori del narcotraffico hanno trovato terreno fertile: la cocaina basta condannarla, a parole (da anni si parla di «campagne di informazione», no? Senza che si sia visto un risultato). Dimenticando che si tratta della sostanza più pericolosa dal punto di vista della dipendenza, fisica e psicologica. Nella tabella 1 stilata dalle Nazioni Unite si trova al primo posto fra quelle che generano il cosiddetto «craving», la spinta all’assunzione compulsiva, vera e propria schiavitù chimica. Seconda sarebbe la nicotina, di cui ancora esiste un monopolio di stato, però, e finché non si discute su categorizzazioni omogenee (la dipendenza, che vedrebbe cocaina e nicotina trattate insieme a un livello di dannosità superiore a quello dell’eroina. Oppure la mortalità indotta, i tassi epidemici, che vedrebbero la cocaina trattata ben dopo l’alcol e la nicotina, e l’eroina ancora più indietro), ogni asserzione sul pericolo generato da queste sostanze si presta a qualsiasi gioco di interpretazioni. A favore dei criminali e del loro disprezzo della vita umana. Con buona pace del «bene assoluto» legislativo o sociale.

    Luca Rastelli, Io sono il mercato
    Chiarelettere 2009, pp. 164, € 12,00

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