Cosa può fare una ragazza dell’alta borghesia di New York quando il padre, rovinato, si suicida lasciando solo debiti? Se è bella può sperare in un buon matrimonio; se è anche intelligente può cercare un lavoro dove bella presenza e savoir faire siano indispensabili. Se però è anche determinata a fare da sola e non si fida degli uomini, come Teodolinda Bonner, farà qualcosa di assolutamente imperdonabile: aprirà un’agenzia investigativa.
Dol Bonner ha le idee chiare e grinta da vendere, è scrupolosa e affidabile, conosce molto bene gli ambienti che contano, dove i motivi per commettere reati hanno almeno cinque zeri. Infatti viene assunta da un vecchio amico di famiglia per difendere la moglie da un sacerdote di Siva che le spilla ogni mese lauti assegni a maggior gloria del dio. Disgraziatamente il cliente viene ucciso senza aver avuto tempo di formalizzare l’assunzione e Dol ha la spiacevole sorpresa di trovarlo impiccato ad un albero della sua vasta tenuta. Iniziano le indagini (cui contribuirà in ultimo anche l’ispettore Cramer) e si scopre l’inevitabile: tutti gli invitati per il week-end avevano motivi per sopprimerlo e nessuno ha uno straccio di alibi…
Ambientato nella buona società, popolato di ricchi, segretari, domestici, poliziotti e di tutta la varia umanità tante volte descritta dall’autore, è un giallo gradevole ma in tono minore, ben lontano dal disegnare «l’affresco di una torbida America del passato» promesso nel risvolto di copertina. Di buono ha soprattutto il personaggio di Dol, ragazza tosta, diversissima dalle giovani eroine sventate dei giallisti dei primi decenni del secolo, sul tipo di Edgar Wallace, Luis Wilton o, prima ancora, Jacques Futrelle, anche se il tono della narrazione un po’ li ricorda: leggera, attenta ai risvolti sentimentali, al lieto fine. In realtà Dol, nonostante le ovvie differenze, ha qualcosa in comune con Nero Wolfe (che qui proprio non compare): come lui è scettica e misantropa ma interessata alla gente; la tirata in cui spiega al suo cliente come vede il mondo potrebbe essere pronunciata da Nero, cambiando appena i pronomi di genere.
L’intreccio è, invece, un po’ faticoso, ha meno ritmo e meno mordente rispetto ai romanzi con Nero; è poco originale nella scelta del colpevole, per ragioni di happy ending. Tra le qualità di Stout che personalmente apprezzo c’è la sua abilità nel ritrarre con poche battute e una manciata di dettagli alcune donne indimenticabili: assassine grandiose o ragazze oneste e intelligenti che riescono a strappare persino l’ammirazione di Wolfe. Qui, purtroppo, a parte Dol, i personaggi femminili sono appannati, come se guardandoli troppo da vicino l’autore non riuscisse a metterli ben a fuoco. Insomma Stout sembra decisamente più a suo agio quando guarda il mondo con gli occhi disincantati di Archie Goodwin. Sullo stile non mi pronuncio: sospetto che un’ulteriore lettura prima della stampa avrebbe eliminato qualche goffaggine e trascuratezza della traduzione, ma non so se avrebbe evitato l’abuso di certe frasi fatte come «l’ascoltava con un orecchio solo» o «lanciò uno sguardo torvo»…
Il mio amore per Stout (e per l’ineffabile Wolfe) resta comunque intatto, tanto che vi ricordo un suo romanzo sperimentale, Due rampe per l’abisso (Sellerio 1980), nitido e terribile, che la critica americana degli anni Trenta stroncò, convincendo l’autore a dedicarsi alla più remunerativa letteratura di genere.
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Rex Stout, Il Guanto, Sellerio 1999 – Ed. orig. 1937 – pp. 270 € 9,00, trad. Rosalia Coci
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