Il protagonista di Spider, di Patrick McGrath, è sicuramente un predestinato e il romanzo che ne racconta la storia è un buon libro che, a sua volta, sembra predestinato – per una serie di coincidenze editoriali – a venir sottovalutato dai lettori abituali dell’autore e a deludere chi non ancora non lo conosce.
Innanzitutto Spider, che risale al 1990 e non è un nuovo romanzo, non è stato pubblicato da Adelphi, l’editore che ha avuto il merito di farci conoscere McGrath. Non ne conosco i motivi, fatto sta che a pubblicarlo è Bompiani, nella dignitosa traduzione di Alberto Cristofori e in una veste editoriale sicuramente meno sobria di quella Adelphi. Il titolo (che è quello scelto dall’autore a suo tempo), poi, sembra fatto apposta per essere confuso con tutte le pubblicazioni accessorie all’uscita del (deludente, a mio parere) film Spiderman, con il quale, ovviamente, non ha nulla da spartire. Morale: i lettori Adelphi, insospettiti, cominciano a leggere un po’ prevenuti, e i lettori di genere che amano letture più forti rimarranno delusi. Aggiungiamo che in Spider McGrath, molto più che in tutti gli altri suoi romanzi già pubblicati in Italia, ha ampiamente utilizzato le convenzioni del gotico e che diversamente che in Follia, Il Morbo di Haggard e Martha Peake, il personaggio principale è di genere maschile e che non esistono donne nelle quali una lettrice abbia desiderio di identificarsi. Bastano tutte queste coincidenze per predestinare Spider a una vita editoriale non proprio rosea? Spider è innanzitutto una storia d’atmosfera, Di vecchie case e vie dell’East End londinese, delle rive del Tamigi, di pub frequentati da operai che bevono birra per dimenticare una vita sempre uguale e senza prospettive di riscatto. Di inverni nebbiosi e freddi, di vecchi edifici sporchi, di cieli coperti.
La nostra abitazione era al numero 27 e, come tutte le altre case della strada, aveva due stanze al piano di sopra, due stanze al piano di sotto e un cortile sul retro, circondato da un muro con un cancello che dava sul vicolo, e un casotto con il gabinetto […] Tutte le stanze della casa erano piccole e in disordine, con soffitti bassi […] Forse l’unica cosa per cui la nostra casa era diversa dalla altre di Kitchener Street stava nel fatto che noi ne eravamo proprietari: i genitori di mia madre erano commercianti e avevano comperato la casa per i miei genitori quando si erano sposati. Mi ricordo che questo si tirava in ballo quando mia madre e mio padre litigavano in cucina di notte, perché mio padre era convinto che i genitori di mia madre lo guardassero dall’alto in basso…
Spider, un uomo di mezz’età che prima della guerra e prima del «Canada» viveva nell’East End, torna nel quartiere nel 1957, vent’anni dopo. Sente contemporaneamente il bisogno e l’angoscia di rivedere i luoghi dove si è svolta la «tragedia», così trascorre le giornate vagando per le strade; siede per ore su una panchina di fronte al canale, arrotolando una sigaretta dopo l’altra, stupito che Londra sembri così grande e vuota rispetto a un tempo.
Le notti, invece, le passa nella casa della signora Wilkinson, una creatura che gli fa paura e gli ricorda Hilda, la donna che ha segnato per sempre la sua infanzia. La casa della Wilkinson è uno squallido pensionato gestito con tirchieria e regole inflessibili; gli altri ospiti «Non escono mai; sono creature apatiche, passive, anime morte come ne ho incontrare spesso oltremare».
Il passato che Spider ricostruisce meticolosamente, con una memoria tanto nitida da diventare sospetta, è interamente occupato dalle figure dei genitori: una madre gentile che trova il tempo, la sera, di fantasticare insieme al figlio e raccontare storie, e un padre ottimo idraulico e marito impaziente e distratto, ingannevolmente mite nei modi ma in realtà violento, che sfoga l’amarezza sul figlio e trascorrendo le serate al pub. Poi c’è Hilda, naturalmente… Del padre, che riempie tutto l’orizzonte dei suoi ricordi, Spider ricorda anche i rari momenti di armonia col mondo, quando la domenica mattina partiva in bicicletta per il suo orto, concedendosi alla nebbia autunnale, pregustando le ore dedicate alla terra.
Ogni notte, nella sua cameretta all’ultimo piano, Spider riempie di ricordi un quadernetto, poi lo nasconde nella cappa del camino: guai se la Wilkinson dovesse trovarlo. Mentre scrive è come se tutto scivolasse all’indietro nel tempo, nell’unico tempo reale, quando tutto era chiaro e aveva significato, anche se la tragedia era nell’aria; adesso, invece, gli avvenimenti diventano incomprensibili e la realtà si sfilaccia; i gesti banali, quotidiani della Wilkinson e gli scricchiolii notturni della vecchia casa dai pavimenti di legno sembrano presagi.
E il lettore continua a leggere, guidato dai ricordi ciechi di Spider, chiedendosi quanto sia affidabile la sua guida e che cosa sia accaduto in «Canada»…
Personalmente ritengo Spider una buona prova, molto meno «letteraria» del pur abile Martha Peake e molto diversa da Grottesco, che era un libro cattivo e pieno di humour nero. Spider segue la corrente del gotico senza lasciarsene travolgere, vincendo la difficile scommessa di pilotare il lettore nella mente di Spider e nella periferia londinese degli anni trenta, nelle sofferenze di una mente disturbata e nell’esistenza «normale» di gente che dalla vita può sperare soltanto la breve tregua di un sabato sera al pub. Approdando a un finale macabro e divertente, McGrath dipinge la malattia mentale e la realtà – mondi di più contigui di quanto vorremmo – con una cautela che non diventa mai superficialità; al lettore non concede nulla, né grandi passioni a giustificazione della follia, né l’alibi di una lettura «colta».
Patrick McGrath, Spider, Bompiani tascabili 2004, pp. 218, € 9,00, trad. Alberto Cristofori
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