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    M. Jarre – Ritorno in Lettonia

    • di Silvia Treves
    • Giugno 17, 2004 a 5:28 pm

    lettonia

    Ritorno in Lettonia di Marina Jarre (Einaudi 2003) è un racconto di viaggio e di esplorazione delle proprie origini e delle vicissitudini familiari e, insieme, ritorno al mondo perduto – ma non innocente – dell’infanzia e alle lingue di allora: il lettone e il tedesco.
    L’autrice è nata – come la sorella minore Annalisa – in Lettonia, figlia di un ebreo lettone e di una valdese italiana; una doppia ascendenza di «diversità» rispecchiata dal cognome, Gersoni (che andrebbe pronunciato con la G dura), non italiano ma lettone e di antica origine ebraica. Fuggite dalla Lettonia negli anni trenta per volere della madre, ormai separata dal marito, Marina e Sisi crebbero coi parenti piemontesi, non tornarono più in Lettonia e, nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, mantennero sporadici contatti con i parenti lettoni sopravvissuti all’Olocausto. Il padre, invece, restò a Riga e fu una delle tante vittime dei nazisti nel dicembre del 1941, quando le SS trucidarono migliaia di ebrei in due soli giorni. Il bisogno di sapere, di riannodare i fili dei ricordi ha spinto l’autrice, dopo sessant’anni a ritornare in Lettonia.
    Il ritorno, una breve visita in compagnia del figlio, è uno spaesamento difficile da sopportare. È uno spostamento dapprima nello spazio, nella «città dell’infanzia, «la città aliena dove è stato ucciso mio padre», poi nel tempo, per ricostruire ciò che è accaduto a suo padre e agli altri ebrei e, ancora più indietro, per riscoprire le origini della propria famiglia; infine sulla pagina scritta per portare una cauta testimonianza indiretta, consapevole che «tra l’evento e noi che leggiamo, ascoltiamo, guardiamo, si aggirano i sopravvissuti, costretti a tener viva l’esperienza. […] E narrano e rammentano e si augurano, e noi con loro, che lo strazio del ricordare sia utile e necessario ma narrano rivolti agli innumerevoli che dovettero soccombere, non a noi che ascoltiamo e guardiamo».
    Questa volontà di sapere e di far sapere è uno dei sensi profondi del libro. Perché su ciò che accadde a Riga e nei boschi di Rumbula, dove gli ebrei vennero trucidati, esistono pochissimi documenti e ancor meno studi storici; sul collaborazionismo dei Lettoni, sui rancori verso i «vicini» ebrei che vennero saldati orribilmente in quei mesi, sull’antisemitismo latente che i nazisti seppero risvegliare, sui crimini di guerra commessi è sceso un velo che, come in altri paesi, nessuno ha voglia di sollevare. Al termine della guerra gli imputati furono pochi, accusati dai russi di tradimento verso l’Unione sovietica, e di aver partecipato al massacro degli ebrei; nessuno si dannò l’anima per chiedere l’estradizione dei criminali di guerra lettoni. Eppure esistettero due divisioni di SS lettoni, centomila lettoni (su una popolazione totale di meno di un milione e mezzo di abitanti) combatterono a fianco dei tedeschi ed esistette una polizia lettone che collaborò attivamente con gli invasori tedeschi.
    Per i lettoni, che «li conoscevano tutti, i loro ebrei, li conoscevano uno a uno, conoscevano le loro case, le loro botteghe, i loro negozi, le loro fabbriche, gli ospedali, le scuole, le sedi della comunità, le sinagoghe, il cimitero», improvvisamente gli ebrei diventarono «altri», dei «loro» smarriti e incapaci di comprendere il tradimento dei concittadini: «I pochi superstiti, nelle loro deposizioni ai processi e nelle loro memorie, ci appaiono più attoniti per l’imprevisto livore dei concittadini che per il trattamento inflitto loro dagli occupanti tedeschi».
    In una lettera del 1957, una parente dell’autrice restata in Lettonia scrive:

    se i lettoni avevano ricevuto i russi con i fiori, fecero lo stesso con i tedeschi, accogliendoli col saluto hitleriano. Subito arrivarono le leggi antiebraiche. I lettoni prestarono buoni servigi. Cacciarono fuori dagli appartamenti i vecchi proprietari di cui erano stati i servi e vi s’installarono. I primi ebbero il permesso di «fare le pulizie». Il 25 ottobre [1941] tutti gli ebrei dovettero stabilirsi nel ghetto.

    Da diversi anni, ormai, di fronte a questi discorsi, a questi ricordi, c’è qualcuno che rimarca il tanto tempo trascorso e la necessità di perdonare, di «riconciliarsi». In proposito Marina Jarre è pacatamente chiara: «Non c’è resa dei conti se non nel grembo del Signore. Non di perdono scrivo, quindi adesso, qui, ma di conoscenza».
    Un altro senso del viaggio e della narrazione è la volontà di riannodare i fili della lunga storia dei suoi avi diretti, mescolati ai tanti ebrei costretti dalla regina Isabella, nel 1492, ad abbandonare la Spagna. Diversamente dai molti che cercarono rifugio nei paesi affacciati sul Mediterraneo, i Gersoni e altre famiglie percorsero tutta l’Europa da Ovest a Est e da Sud a Nord per stabilirsi in Lettonia e subire, infine, la persecuzione nazista. La loro storia viene raccontata con grande sobrietà, senza mai fare leva sull’emotività dei lettori e sul sentimento, talvolta con un pizzico di malinconico umorismo molto consono allo spirito yiddish.
    Ma il senso più profondo e più sfumato, il più discreto, dichiarato poche volte ma avvertibile in ogni pagina, è l’occasione di ritrovare e, finalmente, di fare la pace con un padre fantasioso, «selvaggio e caotico» un padre bello, vitale e affascinante, amante delle donne e da loro amato, che – come disse un’amica dell’autrice aiutandola a riconciliarsi con i ricordi – «è stato un cattivo marito ma un buon padre».
    Camminare per Riga in compagnia del figlio ha significato riconoscere una via, una casa, svoltare istintivamente a destra o a sinistra, constatare come tutto, per quanto riconoscibile, fosse irrevocabilmente cambiato. Tornare in Lettonia forse era soltanto l’inizio del vero viaggio che si concluderà soltanto sulla pagina scritta.

    Nel pomeriggio di lunedì prendemmo l’aereo e lasciammo la Lettonia. Ero, nell’insieme, quieta, contenta, avevo adempiuto a un dovere. Avevo superato il muro. Non mi ponevo domande, non mi davo risposte, mi riposavo.

    E così Marina Jarre, dopo tanto tempo è riuscita a «tornare», attraverso questo libro nitido, scritto in un italiano preciso che offre il piacere di una lingua usata con sapienza. Un libro impervio perché induce anche il lettore a tornare sulle proprie convinzioni, a «guardare». Un libro strano, che non è un romanzo e nemmeno un saggio storico ed è pieno di digressioni, di ricordi, di lettere scritte e ricevute, di immagini riemerse dall’infanzia e di nodi che il secolo appena concluso non ha saputo sciogliere, come la questione del perdono, come la irriducibilità delle colpe dei nazisti, dei fascisti e dei collaborazionisti a una questione di numeri. Sulla polizia lettone che collaborò al massacro Jarre scrive:

    Ma ci interessa davvero sapere che non fossero molti, che non spararono loro stessi? […] A Rumbula non erano affatto pazzi, erano ubriachi e avidi di preda, ed erano soprattutto ubbidienti al padrone del momento. Troppo breve il periodo nel quale era stato loro concesso di essere liberi cittadini, non avevano avuto il tempo di persuadersene nel profondo. In quelle due giornate, che nessun verbale più riporta, sfogarono in un’orgia di violenza la doppia vita cui una sembianza di professionalità li aveva costretti.

    Eppure per molti le etichette e i numeri fanno la differenza. Questa è la risposta data dalla presidente della Lettonia, Vaira Vike-Freiberga, il 6 novembre del 2000, a un giornalista della bbc che le chiedeva se vi fossero state legioni lettoni di SS e una stretta complicità con i nazisti: «C’era un certo grado di complicità da parte di qualcuno, come accade in tutti gli eserciti. Quando un esercito occupa un paese, c’è sempre collaborazione».
    Gioverebbe non dimenticare che nel 2000 venne consentito ai veterani lettoni delle Waffen SS di marciare attraverso Riga. Ma Riga è una città democratica, dice Vike-Freiberga, dove tutti hanno il diritto di radunarsi se ne chiedono l’autorizzazione. «Non abbiamo Waffen SS ufficialmente tali che marciano per le nostre strade. Non le abbiamo». L’oblio è una grande tentazione.
    Ma ci sono ragioni superiori per emettere un giudizio: «Un boia va giudicato. Il giudizio non è dovuto al mio lutto, è dovuto, quale compimento, all’ordine del mondo in cui vivo». Invocare un giudizio non significa cercare vendetta, la parola «ordine» – che potrebbe, in altro contesto suonare sinistra, indica semplicemente le forme del vivere insieme, il fondamento del patto sociale sottoscritto da tutti noi che ci riconosciamo in uno Stato (non in un determinato governo).
    Condivido il punto di vista di Marina Jarre e non saprei esporlo con parole migliori delle sue.

     

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