
Voglio guardare di Diego De Silva, Einaudi L’Arcipelago, racconta dell’avvocato Davide Heller, brillante penalista e di Celeste, studentessa del terzo scientifico che:
Ha sedici anni e un corpo qualsiasi. Né bassa né magra. Porta spesso una bandana, in cui si nasconde i capelli. Mai gonne, mai cappotti. Non si trucca, tranne un po’ di ombretto.
Davide Heller è intelligente, capace, ha fantasia. Un narciso come tanti professionisti in carriera, episodicamente colto da irrefrenabili impulsi criminali, che non specificherò oltre per rispetto verso i lettori. Celeste è una creatura istintuale, irriflessa, improvvisa. De Silva ne racconta i gesti ma ne centellina i pensieri, lasciando capire al lettore che, semplicemente, lei non pensa, non decide, non progetta ma si affida all’impulso del momento. Celeste, prostituta minorenne senza necessità, conosce gli inconfessabili segreti dell’avvocato Heller, ma non lo giudica e non lo denuncia. Ne è attirata ed è soddisfatta di poter giocare con lui al gatto e topo. In realtà di questo gusto del breve potere sul piacere idiota dei maschi è anche la molla principale del suo prostituirsi. Heller nutre per lei sentimenti ambivalenti, di ostilità ma anche di desiderio.La loro storia non detta è destinata a terminare bruscamente, proprio quando Celeste ammette la sua complicità: «voglio guardare». Lo stile è sapiente, a tratti tanto sintetico ed efficace da dare le ali alla pagina, in qualche passaggio meno riuscito, troppo saputo e progettato per riuscire davvero efficace, ma comunque ben calibrato e ben ritmato.

Diego De Silva
«Uno scrittore che, come i classici, ci restituisce l’incomprensibilità delle cose» scrive di lui Giuseppe Pontiggia, in uno di quei frammenti di testo che gli editori amano trascrivere sulla copertina dei libri, senza ovviamente specificare se il lusinghiero giudizio debba essere applicato a cuor leggero anche al libro che il lettore tiene in mano. L’incomprensibilità delle cose e ancor di più dei misteriosi moti dell’animo umano è uno dei soggetti preferiti del narrare, una «scienza» empirica e destinata a non essere mai né sistematica né replicabile. Quindi una non-scienza, a tutti gli effetti, basata sull’imitazione, sull’incantesimo, sulla «simpatia» e sulla «somiglianza», come la magia nel
Ramo d’oro di Fraser. Replicare nel matraccio narrativo i gesti quotidiani della nostra umanità, ivi compresi quelli disordinati, immotivati, assurdi o criminali non è impresa facile. È necessario saper (ri)produrre l’incantesimo, ovvero la catena di parola che incanta il lettore e lo convince che un foglio carico di segni costituisce una storia. Non facile perché se l’incantesimo zoppica, se le parole sono mal scelte, se si affollano troppo o si diradano senza motivo il lettore si distrae e magari decide che sta soltanto leggendo.Non è questo il caso di De Silva, funambolico maestro di parole. Ma talvolta la magia non basta, per quanto abili – o abilissimi – si possa essere. A me, per esempio, piace che lo scrittore tenti di avvicinarsi al mistero, lo talloni, lo insegua, lo obblighi a confessare, anche se dell’ennesima falsa confessione si tratterà. Lo scrittore-Achille non riuscirà mai a raggiungere la tartaruga dell’«incomprensibilità delle cose» ma mostrerà di correre, di affannarsi, di soffrire. Ma De Silva si risparmia. Descrive, incolonna gesti ed emozioni, li ritrae arguto e veloce ma lascia che i personaggi vivano fuori dalla pagina, ne riporta i gesti «rivelatori» senza concedere rivelazioni. Ci chiede, in sostanza, di credere alla sua macchina scenica e al mistero che si compiace di se stesso. All’assassinio che accade impersonalmente, ai personaggi che dicono «io uccido» e «io guardo» come si potrebbe dire «io piovo». Perfette macchine autoriali Heller e Celeste non ammettono empatia né comprensione e le efferatezze narrate ne sanciscono lo spessore del tutto virtuale, la profondità soltanto ipotetica. Il meccanismo di «scissione» messo in atto da De Silva postula la necessità di crimini efferati per non risultare autocaricaturale. Il fatto è che, in realtà, non si ha la sensazione di una necessità pressante di narrare orribili eventi. Viceversa si ha il dubbio che tali eventi siano l’unica cornice accettabile per l’esistenza del romanzo. Nel solco della narrativa italiana più recente De Silva simbolicamente finisce per sgomitare esibendo grossi cartelli con la scritta «Qui Omicidio!», «Qui Pedofilia!», «Qui aberrazioni sessuali!». Un naturalismo greve – anche se nel suo caso di indubbia maestria – che si presta a meraviglia per riempire due colonne di recensione con le giuste parole chiave, tra la pubblicità di un assorbente alato e quella di un’auto da 20.000 euro.
Diego De Silva, Voglio guardare
Einaudi L’Arcipelago, 2002, pp. 183, € 12,00
idem, Einaudi ET Scrittori 2008, pp. 184, € 9,50
idem, Einaudi EBOOK 2010, pp. 192, € 6,99
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