Cominciamo col dire la verità: «loro» NON sono gialli.
Matteo Ricci |
Un tempo lo sapevano anche gli europei: nel Cinquecento, i viaggiatori descrivevano i popoli dell’Estremo Oriente come di pelle bianca, qualcuno si spingeva a dire «olivastra», ma gialla proprio no. E non li consideravano indistinguibili e privi di individualità, né tutti mentitori/ infingardi/ astuti o, al contrario, tutti semplicioni/ inetti/ spregiatori della lettera erre. I «gialli» fotocopia, in realtà, sono comparsi nel Settecento, quando il moderno colonialismo ha cercato giustificazioni scientifiche nel concetto di razza. In buona sostanza, gli asiatici sono diventati «gialli» perché non potevano essere «bianchi» come noi, dal momento che dovevano essere «inferiori».
Nella seconda metà dell’Ottocento l’immigrazione cinese sulla costa pacifica degli Stati Uniti scatenò la diffidenza e il razzismo statunitense, ma il concetto di «pericolo giallo»(yellow peril, péeril jaune, gelbe Gefahr) nacque con lo scoppio della guerra cino-giapponese (1894):
Fino ad allora i gialli erano stati considerati solo come fastidiosi alieni che minacciavano il lavoro bianco con l’immigrazione. Ora emergeva una potenza gialla, il Giappone, che si dimostrava temibile anche sul piano militare.
La Rivolta dei boxers (1900) contro l’occupazione occidentale ribadì il concetto: i cinesi ci ammazzano, ci odiano, sono una minaccia per tutto l’Occidente.
Fabio Giovannini studia il razzismo occidentale da un punto di vista singolare ma rivelatore, quello delle produzioni dell’immaginario «bianco» popolare – racconti, romanzi, film e fumetti – dalla fine del sec. XIX ai giorni nostri, allineando puntigliosamente una raccolta di luoghi comuni dementi e privi di consistenza, ma quasi inestirpabili, proprio perché le loro radici affondano nel retropensiero, nella paura, nel senso di colpa e nell’ignoranza, nel bisogno di demonizzare il nemico per poterlo colpire impunemente.
Nella propaganda della Seconda guerra mondiale, i giapponesi sono ancora caricature: in un opuscolo distribuito ai soldati Usa di stanza in Cina si insegna How to spot a Jap (come riconoscere un giapponese): intanto i giapponesi sono «giallo-limone», poi non sanno pronunciare la «elle» e pronunciano una «esse» sibilante, sono più bassi e tozzi dei cinesi e hanno l’alluce separato perché indossano le «infradito». Individuarli, comunque è arduo, perché i Jap sono astutissimi e soprattutto sono tutte «copie fotografiche di uno stesso negativo», come si afferma in Know your enemy (!) un film di propaganda per l’esercito prodotto da Frank Capra.
Fra le centinaia di rappresentazioni occidentali dell’asiatico immaginario (da Fu Manchu a Ming, da dr. No a Zao, da Cato a Oddjob…) alcune sono particolarmente riuscite: come dimenticare il volpino Fu Manchu di Boris Karloff o quello tenebroso e impeccabile di Christopher Lee o la grandiosa ironia di Ming/Max von Sidow? E l’umorismo demenziale del domestico dell’ispettore Clouseau?
Una trattazione a parte meritano i personaggi femminili: le donne asiatiche, per gli occidentali, sono o sottomesse e suicidarie (Batterfly) o crudelissime dark lady (Turandot, Dragon Lady e Jade, la criminale vampira millenaria di Shanghai). Nei medesimi anni, l’immaginario occidentale fu popolato anche di cinesi (e giapponesi) «buoni», o almeno politicamente corretti ma, guarda caso, spessissimo, nel cinema, sono stati recitati da attori occidentali: Ne La buona terra da Paul Muni (ucraino) e Luise Rainer (tedesca). In Stirpe di drago da Katharine Hepburn (statunitense) e Walter Huston (canadese), tutti hollywoodiani con gli occhi tirati, per evitare scene di intimità tra attori di «razza» diversa…
Prova significativa del pensiero cinematografico occidentale resta la paccata di pellicole ripetitive nelle quali John Wayne si scontra, sempre vittorioso, con musi gialli ghignanti e crudeli (una per tutte: Berretti verdi). Perfino in pellicole apprezzate dalla critica come Full Metal Jacket di Kubrick sentiamo battute come questa, pronunciata da un soldato americano: «Siamo qui per aiutare i vietnamiti, perché dentro ogni muso giallo [gook] c’è un americano che cerca di uscire». È ben vero che film come questo, o come Platoondi Oliver Stone, ruotano attorno ai conflitti morali e alle anime macchiate dei bianchi, non all’interiorità dei vietnamiti, ma almeno il Coppola di Apocalypse Nowne era ben consapevole:
Non ho alcuna pretesa di conoscere l’esperienza dei vietnamiti: sarebbe quindi presuntuoso da parte mia inserire queste cose nel film. Si tratta di un altro film che deve essere realizzato da un vietnamita.
Parole sante.
Musi gialli di Fabio Giovannini è un saggio scorrevole e ben documentato e vale la lettura nonostante alcune pecche: la trattazione è un po’ dispersiva (alcuni argomenti vengono ripresi in capitoli diversi) e qualche volta superficiale; il modo in cui i media occidentali rappresentano la figura di Kim Jong II, ad esempio, è di sicuro pesantemente influenzata da stereotipi razzisti, tuttavia il fenomeno Kim Jong II meriterebbe una trattazione politica e sociologica più approfondita che esorbita dai temi del saggio; la mancanza di un indice analitico rende la ricerca di titoli e citazioni molto complicata; infine ho trovato francamente irritanti le quattro righe vaghe e imprecise dedicate a The man in the high castle, (La svastica sul sole) di Philip K. Dick, un romanzo di ucronia che non intende affatto rappresentare in maniera spiccia e giapponesi ma far riflettere i lettori sulle convergenze tra il mondo reale e un mondo alternativo in cui l’Asse abbia vinto la guerra.
E, per finire, un breve riassunto di Giovannini dei pregiudizi californiani sulla manodopera cinese; l’epoca era il 1880, io ho solo sostituito il presente all’imperfetto, perché le banalità e le sciocchezze non hanno data di scadenza.
… dei gialli sono dileggiate le caratteristiche fisiche, le abitudini reputate bizzarre, si mette all’indice l’uso di droghe, si additano i costumi sessuali ritenuti perversi. Dà fastidio la loro disponibilità a lavorare per bassissimi salari, mettendo a repentaglio il lavoro dei bianchi. E poi fa paura il numero: quei «gialli» sono troppi, numerosi, formicolanti. Se ci soppiantassero demograficamente?
Fabio Giovannini
Musi gialli
I nuovi mostri del nostro immaginario
Stampa Alternativa 2011
pp. 317, € 14.00