Luftkrieg und Literatur è il titolo originale di questo saggio di W. G. Sebald: «Guerra aerea e letteratura», un titolo sicuramente più dimesso e quasi reticente rispetto alla profondità e all’ampiezza dei temi affrontati. Guerra aerea e letteratura è anche il ciclo di conferenze che Sebald tenne a Zurigo nel 1997, nell’ambito di un più esteso dibattito sul tema Guerra e letteratura. Come spiega nella prefazione, Sebald ha rivisto, integrato e modificato i testi originali, per renderli adatti a un saggio in forma scritta. L’interrogativo al quale Sebald si sforza di trovare una risposta è la lamentata mancanza di un «grande romanzo epico tedesco sulla guerra e il dopoguerra». Una mancanza in apparenza inspiegabile, tanto più tenendo conto della violenza dei bombardamenti distruttivi subiti dalla Germania nell’ultimo periodo della guerra, tra i quali quelli di Dresda e di Amburgo sono divenuti paradigmatici come il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki. Le tempeste di fuoco scatenate dall’uso di bombe dirompenti e incendiarie avevano infatti ben poco da invidiare all’effetto dell’atomica:
Il fuoco, levandosi nel cielo in vampe alte duemila metri, attirava a sé l’ossigeno con una violenza tale che le correnti d’aria raggiunsero la forza di uragani […] Dietro le facciate che crollavano, lingue di fuoco alte come palazzi salivano al cielo: simili a una mareggiata, si riversavano nelle strade a una velocità di oltre centocinquanta chilometri all’ora […] Il fumo aveva raggiunto gli ottomila metri di altezza e lassù si era allargato in un gigantesco ammasso nuvoloso e cumuliforme, simile a un’incudine. […] Altri [corpi], ancora, furono scoperti ormai carbonizzati e ridotti in cenere a causa del calore che aveva superato i mille gradi, sicché per rimuovere i resti di intere famiglie bastava adesso un semplice cesto della biancheria.
Eppure, chi, nato dopo la guerra, volesse tentare di afferrare le emozioni e i sentimenti nati in quei terribili giorni, coglierne l’eco attraverso opere narrative, avrebbe a disposizione ben pochi testi, incompleti o inadeguati. Se le generazioni del dopoguerra volessero limitarsi alle testimonianze degli scrittori, troverebbero difficoltà a farsi un’idea dello svolgimento, dell’estensione, della natura e delle conseguenze che assunse la catastrofe abbattutasi sulla Germania con la guerra aerea.La tesi a questo proposito illustrata da Sebald è che:
le opere prodotte nel dopoguerra dagli scrittori tedeschi nascono spesso da una coscienza falsa o dimidiata, intesa a consolidare la posizione affatto precaria di chi scrive in una società caduta irrimediabilmente in discredito sul piano morale. Per la stragrande maggioranza dei letterati rimasti in Germania durante il Terzo Reich, dopo il 1945 fu molto più urgente ridefinire la propria immagine anziché raffigurare il mondo reale che stava loro attorno.
Da questo acuto sentimento di «discredito morale», secondo Sebald, nasce la rimozione collettiva che unì ogni strato della popolazione tedesca, la fretta di cancellare gli eventi, e tra questi anche i massacranti bombardamenti inflitti alla popolazione civile, rimuovere le rovine, ricostruire e riurbanizzare, facendo della rapidità della ricostruzione e del silenzio sul passato motivo di orgoglio e di ritrovata dignità.
Quando volgiamo gli occhi al passato, in particolare agli anni compresi tra il 1930 e il 1950, il nostro è sempre al tempo stesso un gettare e un distogliere lo sguardo.
La cecità selettiva, il silenzio che è più mutismo che doloroso stupore, sono anche alla base dei molti tentativi di ritoccare la propria immagine pubblica attuata da coloro che negli anni di massimo fulgore del Reich non seppero e non vollero opporsi. Tra questi Sebald sceglie come particolarmente emblematico lo scrittore Alfred Andersch, al quale è dedicata la seconda parte del volume. Nato nel 1944, Sebald non può vantare persecuzioni né vessazioni da parte del regime e quindi la sua riflessione non ha, né può avere, i toni di una requisitoria. Sebald si rivolge essenzialmente ai testi, alle pagine, all’ispirazione e ai temi di Andersch, ricercandone con implacabile attenzione i sintomi della falsa coscienza, la rimozione dell’acquiescenza verso la persecuzione degli ebrei, il virtuoso antimilitarismo divenuto cosciente soltanto dopo la sconfitta. Ma l’aspetto probabilmente più interessante e sorprendente della lunga riflessione di Sebald è il suo essere così intimamente correlata alle narrazioni, ai pochi romanzi che abbiano affrontato il tema della guerra aerea sulla Germania e alle opere di Alfred Andersch. Dialoghi, personaggi, storie letti e commentati da Sebald rivelano inadeguatezza e ritrosia, involontari tic, penose menzogne e modesti, imbarazzanti esibizionismi. Il mutismo che si fa riso nervoso o autocommiserazione:
ricavando effetti estetici o pseudoestetici dalle rovine di un mondo devastato, la letteratura contravviene […] alla propria legittimazione.
Qualcuno, a questo punto, si chiederà se scopo non dichiarato Sebald sia quello di imporre alla narrativa una finalità pedagogica e formativa, piegandola a una «funzione» che non le è propria. Sul valore «etico» del narrare Sebald torna effettivamente in più parti del suo scritto, ma si tratta, a mio parere, non tanto dell’intenzione di valutare un’opera sulla base di criteri morali, quanto di desumere dal testo i valori etici che lo ispirano. Per Sebald non soltanto i temi e gli strumenti del narrare formano un unicum inscindibile, ma la narrativa è una sensibilissima spia dello Zeitgeist. Dove la voce narrativa è flebile, formale o tesa unicamente a provocare un effetto superficiale nel lettore – raccapriccio, orrore, disgusto – a mancare è una riflessione critica sullo stato delle cose, un’elaborazione matura degli eventi e del loro effetto sulla vita emotiva e sulle speranze e desideri umani. Esiste un legame profondo, non facile da esprimere, tra il testo di Sebald e le pagine più intense e tormentate de I sommersi e i salvati di Primo Levi. Probabilmente l’ansia di comprendere e scongiurare, percorrendo tappa per tappa l’orrore per cercarne gli elementi quotidiani e i sintomi inavvertiti. Tra questi, tornando al libro di Sebald, sicuramente il più agghiacciante è la dimensione industriale della distruzione, la sua natura di necessità, insita nel nostro modello di sviluppo:
La forma pianificata della distruzione […] sembra ormai pressoché incapace di giustificare il principio speranza. […] Il generale [Frederick L. Anderson, dell’ottava flotta aerea statunitense] rileva che, in fin dei conti, quel carico di bombe costituisce una «merce costosa… All’atto pratico non la si può buttare via scaricandola sui monti o in aperta campagna, dopo tutte le risorse profuse in patria per fabbricarla».
La dimensione contemporanea dello sterminio e della guerra è una funzione dell’esistenza delle merci, ne è corollario e anima. Non si può parlare di guerra rimuovendene la dimensione tecnica ed economica. A noi esseri umani non restano che i nostri deboli corpi e le parole. Forse poco, ma già moltissimo.
W.G.Sebald, Storia naturale della distruzione
Adelphi 2004, ed. or. 2001, pp. 149, € 14,00
trad. dal tedesco di Ada Vigliani
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