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    Golem

    Noi, razzisti brava gente

    • di Silvia Treves
    • Ottobre 16, 2012 a 6:44 pm

    di Silvia Treves

    N.B.: tra virgolette «-» e in corsivo sono riportate citazioni dirette dai due testi:
    [1] Roberto Maiocchi – Scienza italiana e razzismo fascista – La Nuova Italia
    [2] Giorgio Israel, Pietro Nastasi – Scienza e razza nell’Italia fascista – Il Mulino


    Per lungo tempo la storiografia italiana ha avvalorato la tesi di una sostanziale estraneità del pensiero razzista (e antisemita in particolare) alla cultura italiana precedente al 1938. Mentre numerosi studi hanno chiarito come in Germania la scienza, la tecnica, la cultura e il pensiero nazista fossero indissolubilmente intrecciati nel perseguire un progetto di «modernismo reazionario», scarseggiano indagini accurate per quanto riguarda l’Italia e il razzismo nostrano può ancora essere considerato un’imitazione addolcita e superficiale della perfetta macchina di morte tedesca, un razzismo «blando», più umano perché non scientifico, che «discriminava, non perseguitava», come ebbe a dire Mussolini. Come se essere cacciati dal posto di lavoro, tagliati fuori da ogni istituzione culturale per motivi di razza «fosse una penale in un gioco di società» [2]. Un esame accurato della pubblicistica e del dibattito dell’epoca prova che la politica razziale italiana, che affondava le proprie radici in epoche lontane, non ottenne l’adesione tardiva di pochi intellettuali di regime ma fu il risultato inevitabile di un lungo processo culturale, iniziato ben prima del 1938, che escludeva l’adesione supina al razzismo biologico di stampo tedesco. Il razzismo italiano assunse aspetti originali ed ebbe nella medicina e nella scienza un sostegno ampio e articolato in continuità con l’orientamento nazionale e internazionale delle varie discipline.

    Due saggi indagano a fondo questo tema da angolazioni differenti e complementari.


    Il primo, di Roberto Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, ricostruisce accuratamente, con ricchezza di citazioni e di riferimenti bibliografici, il dibattito e gli apporti delle varie discipline scientifiche e storiche – bio-medicina, demografia, statistica, storia antica, antropologia ed etnologia – all’elaborazione di un pensiero razzista italiano, delineando un quadro complesso e sfumato che confluisce, a differenza di ciò che accadde in Germania, in un sostanziale rifiuto del razzismo puramente biologico e delle misure eugenetiche più estreme. Lo studio di Maiocchi rende conto delle varie correnti di pensiero all’interno di ogni disciplina, privilegiando l’apporto di alcune figure scientifiche emblematiche senza sottovalutare i contributi minori.

    Giorgio Israel e Pietro Nastasi, autori del secondo saggio, Scienza e razza nell’Italia fascista, oltre a documentare il dibattito sulla «razza» all’interno delle varie discipline scientifiche e l’intreccio complesso tra politica fascista e mondi della cultura e della scienza, indaga anche sulle conseguenze dell’espulsione degli scienziati ebrei sulla comunità scientifica italiana e sullo stato successivo delle varie discipline.


    Entrambi i saggi disegnano il medesimo panorama, concordando sui prodromi, sulle cause lontane e vicine e sulle conseguenze. I medici e i biologi italiani restarono sostanzialmente scettici sulla legittimità di applicare la genetica mendeliana e un darwinismo semplicistico alla specie umana. La formazione cattolica di molti di loro li portò a rifiutare misure estreme come la sterilizzazione e l’aborto eugenetico, il certificato di matrimonio obbligatorio (ma anche – ovviamente – il controllo delle nascite e l’uso di anticoncezionali graditi invece a studiosi laici e socialisti), non in nome di principi democratici o antirazzisti ma, semmai, del «senso della misura» e del «cauto e sobrio positivismo» dei «Latini» (E. Morselli – 1923), dando comunque per scontato che

    occorre effettuare una cernita fra tutte le razze o varietà umane (…) e poiché senza alcun dubbio le più evolute nei riguardi del fisico, le più avanzate nei riguardi della mentalità, sono le cosiddette razze bianche o ‘leucodermiche’ bisogna assicurarsene il predominio (…) e ciò non si può ottenere se non a spese delle razze di colore, delle gialle e specialmente delle negre (ibid.).

    La comunità medica privilegiò misure eugenetiche di profilassi, igiene, miglioramento ambientale, salutando con gioia l’avvento del fascismo e la sua sensibilità in tema di salute pubblica, che il regime collegava al rafforzamento politico-sociale della nazione e al miglioramento della razza. Il dissenso esisteva, e godette di libertà di espressione sino al 1927, quando con il «discorso dell’ascensione» Mussolini liquidò come inaccettabile ogni forma di eugenetica basata sulla regolamentazione della riproduzione in nome dello slogan «numero è potenza».


    Una delle figure più influenti fu Nicola Pende, che elaborò una nuova disciplina: la «biotipologia umana», ossia una «scienza dell’individualità umane nelle loro particolarità morfologiche, funzionali, psicologiche» [1], una medicina che – valendosi dei suggerimenti della vecchia fisiognomica, aggiornati con le moderne scoperte dell’endocrinologia e della genetica – intendeva abbracciare l’intero individuo come unità psicosomatica cui applicare le misure di prevenzione, igiene e «bonifica della razza». Pende, firmatario critico del Manifesto della Razza fornì, forse al di là delle sue stesse intenzioni, una solida base scientifica al razzismo del regime; ma, nonostante la prudenza e il trasformismo, non fu un semplice lacchè, ma un pensatore autonomo che in tutto il Ventennio si mantenne fedele nella sostanza alle sue posizioni iniziali di rifiuto verso il razzismo biologico e la celebrazione della razza nordica di Rosenberg, contrapponendovi la stirpe mediterranea, vigorosa sintesi di numerose stirpi, che possiede il privilegio della «polivalenza biologica e culturale».

    Sul versante delle scienze sociali anche gli studiosi di demografia, statistica, economica, sociologia, diedero il loro appoggio allo slogan di regime «il numero è forza», fornendo al fascismo, in continuità con filoni di pensiero ben precedenti al 1938, un impressionante retroterra di dati e ricerche. La preoccupazione di molte nazioni europee per il calo di natalità – che risaliva all’inizio del secolo e si era intensificata dopo la prima guerra mondiale – aveva portato a considerare la prolificità un indice di vitalità e di superiorità razziale: maggiore la prolificità, più giovane e vitale la razza. L’Italia veniva così contrapposta a nazioni senescenti come la Francia e l’Inghilterra. Lo statistico e demografo Corrado Gini lavorò per un trentennio all’individuazione di condizioni adatte all’aumento di popolazione (diminuzione della mortalità infantile, miglioramento delle condizioni ambientali urbane, ritorno al ruralismo, attuazione delle condizioni più favorevoli al concepimento), riconoscendo nei regimi totalitari i più adeguati a realizzarle. Sull’esistenza di una razza italiana prevalse tra gli studiosi sociali lo scetticismo, e la teorizzazione – dati statistici alla mano – di un pluralismo di «razze». In nome di una superiorità della grande razza bianca e delle sue diramazioni, tra cui la vitalissima e prolifica «razza italiana», essi rifiutarono l’eugenetica estrema delle leggi razziali tedesche (1933). Maiocchi dedica ampio spazio ai notevoli studi di Livio Livi sulla comunità ebraica italiana. Benché lo studioso partisse da posizioni non discriminanti e considerasse gli ebrei italiani una razza di ottime qualità, degna in tutto delle altre razze occidentali, la sua convinzione che essi formassero una comunità sostanzialmente pura, i cui membri – per ragioni storiche, non razziali – erano giunti ai vertici della società italiana, venne utilizzata in senso pesantemente razzista e anche Livi, nel 1938, riprese i suoi studi per difendere la legislazione razzista del regime. Apporti fornirono molti altri studiosi: Boldrini, ad esempio, elaborò un’applicazione originale della statistica all’antropologia di popolazione che, in anni delicati come il 1934, offrì una patente scientifica agli eccessi più rozzi del razzismo biologico pur sostenendo una visione sintetica – tipicamente italiana – della razza, pluralità di popoli e di tipi costituzionali.


    Stante la particolare situazione meticcia degli italiani e l’eredità di studiosi come Paolo Mantegazza, che ritenevano la razza solo un approccio di comodo per le scienze dell’uomo, ovvero antropologia, etnologia, paleoantropologia, studio della preistoria e della storia antica, fu quasi obbligatorio sottolineare il potere unificante della cultura, delle idee, del «comune sentire». La tesi fu sostenuta, tra gli altri, da Giuseppe Sergi e da Francesco Pullé che svincolò le caratteristiche psicologiche dal retaggio biologico, assegnando importanza ai «fatti geografici e storici», facendo quindi dell’eterogeneità un pregio.

    Dai due saggi scaturisce quindi l’immagine di tre ambiti scientifici distinti e delle loro figure chiave, che giungono a posizioni simili, di valorizzazione dell’eterogeneità italiana in chiave nazionalistica, e approdano alla definizione di «razza spirituale», sintesi feconda di differenze. A questo orientamento contribuì certamente la tradizione, tutta italiana, di studi antropologici cattolici che considerava monogenica l’origine della specie, accidentali e frutto di lunghissime interazioni e pressioni ambientali, le razze e le nazioni comunità di genti diverse unite dal vincolo «della cultura e di un destino storico profondo» (Schmidt, 1938).
    Applicata a popolazioni di colore l’antropologia italiana però cadde – come ben documenta il saggio di Maiocchi – in descrizioni razziste di cui la letteratura, i resoconti di viaggio, i fumetti non sono che la versione becera. I neri venivano considerati inferiori come luogo comune consolidato almeno da metà Ottocento. La gran messe di studi antropologici ed etnologici – preesistenti e incrementati dal fascismo al servizio della politica coloniale – giunse alla conclusione che le razze «inferiori» non erano perfettibili e che era, quindi, lecito e doveroso per una nazione vitale e superiore come l’Italia rivendicare le risorse non adeguatamente sfruttate dai neri. Era inoltre necessaria un’avveduta politica razziale per evitare gli incroci con razze inferiori. [N.B.: è da leggere la citazione di Renato Biasutti, allora il maggiore etnologo italiano, che sostiene la «recenziorità»della razza nera, come confermavano «la mancanza di ominidi fossili che mostrino con chiarezza i sintomi della specializzazione negridica». Una topica divertente, oggi che è dato per assodato che gli ominidi africani furono i primi a precisarsi in concomitanza con la migrazione del ceppo europeo-asiatico del genere homo].


    In buona sostanza la scienza italiana, anche nei suoi rappresentanti più seri e apprezzati, diede la sua benedizione al colonialismo e alla segregazione sostenendo che «Non siamo noi ad essere razzisti, sono loro ad essere inferiori».

    I suggerimenti funzionali alla politica pronatalista e razzista del regime piovvero da ogni luogo: una pattuglia di fisiologi – con in prima fila Sabato Visco teorico men che modesto ma ottimo promotore di se stesso – contribuirono con studi sull’alimentazione al servizio della stirpe e dell’autarchia alimentare, veri antesignani della dieta mediterranea, insomma: «razzismo alimentare» è l’azzeccata definizione di Israel e Nastasi. Una commissione di scienziati di varie discipline propose un ambizioso esperimento da compiersi nella «colonia interna» di Littoria (oggi Latina) per la «determinazione dei caratteri somatici, psichici e demografici delle famiglie emigrate» impostando uno studio a lungo termine dei rapporti fra genetica e ambiente e per «impostare scientificamente i futuri movimenti migratori».
    Uno dei meriti maggiori dei due saggi (Israel e Nastasi, soprattutto, vi dedicano ampio spazio) è chiarire che questo cocktail di riduzionismo scientifico, antisemitismo cristiano non razzista, nazionalismo spiritualista (non razzista ma pronto a identificare nell’ebreo l’estraneo) e totalitarismo, non necessariamente doveva approdare al razzismo e all’antisemitismo, come dimostra l’adesione iniziale di molti ebrei al fascismo:

    il carattere fondamentalmente laico (e in certi casi perfino anticlericale) dello stato e della cultura dominante offriva garanzie (…) fino al Concordato fra chiesa e fascismo, gran parte degli ebrei italiani non percepì l’esistenza di un ‘problema ebraico‘ (…) molti di loro potevano anzi scorgere nella visione “romana” del fascismo uno scudo difensivo.

    Per la sterzata razzista degli ultimi anni Trenta fu fondamentale la politica pronatalista del regime, e furono necessari alcuni catalizzatori: il Concordato, il consolidarsi del patto d’acciaio con la Germania e la fase imperiale e antiborghese del fascismo. Il regime entrò nella sua fase razzista radicale con le leggi razziali, annunciate da quel pasticcio maldestro eppure significativo che fu Il Manifesto degli scienziati razzisti. Di questo e delle conseguenze devastanti che il Manifesto e le leggi di epurazione ebbero sulla comunità scientifica parleremo nel prossimo numero di LN.
    Un’ultima considerazione: il saggio di Israel e Nastasi (del quale raccomando caldamente la lettura) dà spazio soprattutto alla componente antisemita del razzismo scientifico, sottovalutando il peso e le conseguenze dell’eugenetica in altri paesi occidentali: «soltanto in alcuni paesi come la Germania e l’Italia queste politiche videro la luce e condussero a conseguenze pratiche» il che non si sarebbe verificato in paesi come l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Ciò non è esatto, come ha argomentato ampiamente S. J. Gould in Intelligenza e Pregiudizio.
    Che i pregiudizi siano duri a morire è dimostrato anche da una notizia recente: in un famoso ospedale di Chelsea i bambini down che necessitano di interventi chirurgici sarebbero discriminati a favore dei «normali»…

    Roberto Maiocchi
    Scienza italiana e razzismo fascista
    La Nuova Italia, 1999
    pp. 346, € 16,53

    Giorgio Israel, Piero Nastasi [1]

    Scienza e razza nell’Italia fascista
    Il Mulino, 1998
    pp. 420, € 19,63

    ed. fuori commercio 

    [1] Segnalo l’esistenza di un volume a firma del solo Giorgio Israel che riprende e amplia i temi qui toccati: Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, ed. Il Mulino, 2010, pp. 443, € 29,00





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