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    Magazzino

    Meglio non sapere

    • di Silvia Treves
    • Ottobre 18, 2012 a 3:42 pm

    di Silvia Treves

    Alla fin fine, tutto fa parte di un grande progetto, ciascuno ha già un destino assegnato, e nessuno, tanto meno Goetz, o Meyer, lo può cambiare
    David Albahari, Goetz e Meyer


    Di solito, quando si leggono libri diversi nel medesimo tempo, capita di seguire qualche percorso implicito: un filo che li percorre tutti, un certo modo di narrare, un’assonanza misteriosa fra i personaggi. Talvolta – sarà l’esperienza, sarà un bisogno inconsapevole ma potente di esplorare certi temi (il lutto, la morte, la nascita, l’esperienza di diventare genitori…) – si esce da questi «cicli» di letture più ricchi e stupiti di aver scelto con tanto fiuto. Ma è raro che un libro illumini quello appena terminato con tale intensità da stanare le ombre, portare allo scoperto le ambiguità e l’indignazione sorniona che lo pervadono, dandoci il conforto di una lucidità che, oltrepassando la storia passata, si proietta su un futuro dove ripetere certi errori sarebbe intollerabili. A me è capitato con due romanzi di temi apparentemente inaccostabili: Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro e Goetz e Meyer di David Albahari, editi da Einaudi nel 2006 e con due bellissime copertine.

     


    Immaginiamo un gruppo di studenti di un ottimo collegio inglese, Hailsham, situato in un luogo ameno e gestito da docenti di alto livello, dediti al loro lavoro e costantemente a contatto con i loro ragazzi, disponibili a seguirli individualmente e votati a renderli il più autonomi, critici e creativi possibile.

    E immaginiamo gli studenti: ragazzi e ragazze che vivono da sempre nel college, tanto da non ricordare altro luogo scolastico, da non accennare mai alle loro famiglie di provenienza. le relazioni complesse con i coetanei
    coprono, insieme ai rapporti con i docenti, tutto il loro spettro affettivo: con i compagni si confrontano, imparano a divenire adulti, a controllare l’aggressività, a lavorare in gruppo per il vantaggio di tutti. Lavorano sodo, partecipano alle lezioni e, quando non sono nelle aule o a studiare, si confidano con gli amici più fidati, riflettono sulla comunità e sul mondo esterno, sul futuro che li attende là fuori. Di questo futuro, gli insegnanti parlano spesso, rivelandolo poco a poco, anticipando appena le domande dei ragazzi in maniera che, quando qualche altro particolare verrà loro rivelato, essi abbiano la sensazione di conoscerlo da sempre, e non se ne stupiscano. Non si ribellino.
    E questo futuro, il lettore lo scopre poco a poco, è singolare e completamente tracciato: tutti loro, dopo un periodo più o meno lungo come «assistenti», diventeranno «donatori», Kathy, l’io narrante, è un’assistente molto apprezzata, tanto che, a più di trent’anni, non è ancora divenuta donatore, al contrario dei suoi migliori amici, Ruth Tommy, donatori da tempo. La vita adulta degli studenti, narrata da Kathy attraverso lunghi flashback, trascorre in ospedali e centri di riabilitazione dove gli assistenti accudiscono i donatori mentre compiono il loro ciclo: quattro fasi alla luce del sole, quattro donazioni dalle quali si rimettono con fatica sempre maggiore. Dopo la quarta donazione, che purtroppo non tutti raggiungono nella forma migliore… il donatore ha completato il suo ciclo: continua a essere utile alla società, naturalmente, ma le relazioni sociali non sono più il fulcro della sua esistenza in vita.


    Con tono pacato e lo stile tipico del romanzo di formazione, Ishiguro mette pian piano il lettore al corrente dell’essenza del progetto Hailsham, che comporta grandi vantaggi per la salute della comunità a tutto scapito dei giovani così perfettamente accuditi. Nel Regno Unito esistono tanti altri collegi per donatori e molto probabilmente, esistono istituti simili in ogni paese del mondo ricco, in ogni società che può permettersi di educare, o meglio di allevare, ragazzi come i loro… Ma Hailsham, un esperimento pionieristico, unico nel suo genere, alla fine è stato chiuso: i suoi docenti, anime belle che hanno tentato di raggiungere un impossibile compromesso tra utilità sociale e rispetto per la vita, hanno fatto del loro meglio per garantire un’alta qualità della vita ai loro protetti, coltivando le loro menti e raccolto i loro lavori artistici per «dimostrare che voi avevate un’anima». Altri, meno scrupolosi o meno ipocriti di loro, hanno semplicemente rimosso il problema: «La gente ha fatto del suo meglio per non pensare a voi. E se lo facevano cercavano di convincersi che voi non eravate veramente come noi. Che eravate inferiori [… ] e che quindi non contavate nulla».

    Conoscere finalmente l’intero progetto, terribile nella sua semplicità, non può cambiare l’atteggiamento di accettazione di Kathy e Tommy che, ormai, hanno interiorizzato il loro «compito» tanto bene da non riuscire a immaginare altro futuro; uno dei meriti maggiori di Ishiguro è quello di descrivere la psicologia degli studenti con tanta finezza da indurre noi lettori, se non a condividerla, almeno a comprenderla, a concepire la pace e la soddisfazione di compiere bene, fino in fondo, il loro folle «lavoro».

    Adesso immaginiamo due persone serie e consapevoli dell’importanza dell’incarico loro affidato. Due lavoratori onesti, scrupolosi, puntuali, precisi e ordinati anche nel modo di vestire, amichevoli e disposti a dimenticare subito i piccoli screzi fra colleghi. In poche parole: immaginiamo due persone per bene, ed ecco Goetz e Meyer, o forse Meyer e Goetz, perché i due si somigliano tanto da essere quasi indistinguibili. E intercambiabili: una volta guida uno e una volta l’altro, una settimana dopo l’altra, conducendo il loro Saurer, un camion molto speciale, dal lager della Fiera, alla periferia di Belgrado, fino a Jajinici, dove sono state scavate le fosse. Il tragitto è breve, il carico è formato invariabilmente di alcune decine di ebrei, soprattutto donne, anziani e bambini, perché gli uomini sono già stati fucilati in precedenza. Poco dopo la partenza, la stupefacente semplicità del progetto si rivela: il Saurer si ferma, Goetz, o Meyer, scende dalla cabina, afferra il lungo tubo di scappamento dell’automezzo e lo collega abilmente con il cassone posteriore, che ovviamente è a tenuta stagna. Poi rientra in cabina e il camion riparte.

    Non occorre fare altro, i soggetti da trattare (così vengono definiti nelle relazioni) salgono sul camion volontariamente, convinti di essere condotti in un campo di lavoro meno orribile della Fiera. Goetz e Meyer non toccano i soggetti nemmeno con un dito, tranne forse i bambini, che uno dei due probabilmente ha accarezzato sul capo infestato di pidocchi distribuendo un po’ di cioccolatini, perché è anche padre di famiglia e i bambini si somigliano tutti. Tranne quando si è in servizio. Il suo compagno, invece, nel lager non entra mai: o non sopporta i bambini o non sopporta l’ipocrisia. O forse, semplicemente, parte da un assunto ben noto: «Le persone che loro trasportano non hanno un’anima, questo almeno lo si sa bene!» E, già ce lo ha spiegato Ishiguro, la questione dell’anima tormenta molto le persone per bene ma, alla fine, risolve sempre tutto e fa scendere la pace nelle coscienze.


    Goetz e Meyer non sono le uniche persone per bene incontrate dai soggetti: l’io narrante del romanzo di Albahari lo impara indagando e, soprattutto, immaginando le vite e i pensieri dei nazisti coinvolti nel progetto. Il comandante del lager, ad esempio, da civile era albergatore e il suo vice guida turistica… la professionalità non è acqua, e i due la rivelano usando un lessico appropriato con i superiori e con coloro che noi definiremmo volgarmente deportati, prigionieri affamati, vittime: «sistemazione», «trasporto», «menù giornaliero». È chiaro, anche per l’io narrante, che sono persone competenti e che fanno bene il loro lavoro: perché dovrebbero sentirsi responsabili di quanto accade ai loro ospiti?

    «Se diventi parte di un meccanismo, dice Albahari, allora ti assumi la stessa responsabilità di ogni altra sua parte», così, paradossalmente, Goetz e Meyer hanno la medesima responsabilità dei prigionieri serbi che seppelliscono i cadaveri gassati che, a Jajinici, scivolano fuori dal portello posteriore del Saurer e – a ben pensarci – la medesima responsabilità degli ebrei che salgono volontariamente nel camion. Folle? Forse, esattamente come è folle l’ipotesi di partenza degli istituti di Ishiguro, che hanno il solo merito di non esistere.
    Ma continuiamo a immaginare: «Poniamo che un gruppo di persone si sieda attorno a un tavolo e decida di annientare un intero popolo». Quando dopo le resistenze iniziali, nessuno mette più in discussione la tesi di partenza, «con la sua insensatezza essa stabilisce un nuovo senso, assolutamente chiaro, ed esso si consolida come criterio di ogni altro senso». Allora alla domanda «perché» vengono sostituite le domande «quando», «dove», «come» e tutto ha davvero inizio. Ed è allora, quando nessuno mette più in discussione la tesi di partenza (quella reale dei nazisti, e quella immaginata negli anni Settanta nel mondo di Ishiguro, così contiguo al nostro), che anche le anime belle, invece di reagire nell’unico modo eticamente possibile: alzandosi dal famoso tavolo e rovesciandolo, cominciano a dire cose come «facciamolo almeno nel modo migliore».
    «Noi non siamo dei selvaggi […] e poiché siamo stati chiamati a portare nel mondo una vita migliore, dobbiamo anche dargli una morte migliore», afferma il comandante del lager e il pensiero corre a Himmler, alla sua anima (che lui sicuramente possedeva) sensibile, o forse allo stomaco debole che non gli consentiva di guardare prigionieri fucilati malamente e gettati nelle fosse ancora vivi. È grazie a Himmler che i nazisti hanno avuto i Saurer.
    Ma c’è di peggio, perché le vittime del nazismo e gli studenti di Hailsham vivono nel medesimo mondo dei carnefici e degli stati «efficienti» e imparano a interiorizzare la loro stessa logica.

    Certe persone vanno incessantemente incontro al proprio destino; altri, come i miei genitori, aspettano che il destino venga a prenderli. Non sarebbe bene dedurre da questo che i primi sono migliori dei secondi, perché alla fine conta soltanto il destino.

    La riflessione che Albahari dedica ai parenti, sterminati in gran parte tra il 1941 e il 1942, non avrebbe senso nel mondo dei donatori: alcuni di loro ritengono, come Tommy, inutile tergiversare, altri pensano, come Kathy, di essere utili prima come assistenti, ma nessuno rifiuta il proprio destino: imparare ad accettarlo è stato parte del loro addestramento, anche se i loro «ammirevoli» insegnanti si ostinerebbero a chiamarla educazione.

    Kazuo Ishiguro

    Non lasciarmi, scritto nello stile tipico del romanzo psicologico e di formazione, è un testo che anni fa sarebbe stato definito un grande romanzo di narrativa di speculazione; dipinge in maniera impeccabile un universo separato da noi soltanto dall’aver seguito con decisione una linea di ricerca che nel nostro mondo viene (per ora) considerata eticamente inaccettabile. È un testo ricco di ambiguità, perché la medesima strada che porta a Hailsham potrebbe salvare tante vite, e alla fine suggerisce che certi grandi temi non possono che essere affrontati in maniera politica «alta» (perché tutti noi cittadini dobbiamo condividere la responsabilità della scelta) e non sviliti da squallide strumentazioni di partito o affidate ipocritamente agli «esperti» e a chi se la sente di sporcarsi le mani. Ma Non lasciarmi è anche esattamente ciò che sembra: una grande prova di sensibilità e capacità narrativa, l’esplorazione di vite che non sono le nostre ma potrebbero sfiorarci e chiederci conto delle nostre scelte o del nostro rifiuto di scegliere.

    David Albahari

    Goetz e Meyer è un romanzo che, in chiave sperimentale e spesso surreale, racconta episodi poco conosciuti della devastazione nazista. Il suo tema è la banalità del male, la convivenza possibile tra persone «per bene» e gli atti orribili che esse riescono a compiere trovandoli «normali». Queste vite e questi atti devono essere raccontati senza etichettarli come «inumani», ma anzi restituendoci tutta l’umanità che contengono per mettercene in guardia e impedirci di dimenticare. Per farlo, Albahari ha scelto un registro sperimentale e spesso surreale; il tono sarcastico lo aiuta a tenersi lontano da una commozione accecante che non aiuterebbe a capire. L’io narrante può sembrare – ma non è – un semplice alter ego dell’autore, la sovrapposizione tra i due non è necessaria e può essere fuorviante. Il testo, talvolta, risente di una certa letterarietà, come nelle due pagine finali, ma la forza e la lucidità delle riflessioni, le immagini limpide che, andando ben oltre la semplice testimonianza, entrano nella grande narrativa ne fanno un libro da leggere e non dimenticare.
    Kazuo Ishiguro

    Non lasciarmi 
    Einaudi Supercoralli 2006,

    pp. 296, € 17,50
    Einaudi Super Et, 2007
    pp. 296, € 12,00
    trad. P. Novarese
     

    David Albahari
    Goetz e Meyer
    Einaudi , 2006
    pp. 120, € 10,50
    trad. A. Parmeggiani

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