Silvia Treves [1]
É scientificamente legittimo suddividere la specie umana in gruppi razziali nettamente definiti? E classificare le persone in base all’intelligenza? E, soprattutto, a che (a chi) concretamente possono servire tali operazioni?
Prendiamo una frase logora, sicuramente già ascoltata (magari bisbigliata alle nostre orecchie e preceduta da un «non è che sia sia razzista, ma…»): « I “bianchi” sono più “intelligenti” dei “neri” ». É un non sequitur, che collassa sotto il peso delle virgolette, ovvero di concetti e categorie scientificamente indimostrabili. Eppure mentre moltissimi la condannerebbero dal punto di vista etico pochi saprebbero invalidarne la scorrettezza scientifica: perché le discipline scientifiche fino a pochi anni fa hanno garantito la correttezza della separazione e classificazione dell’umanità in gruppi omogenei al loro interno, differenti gli uni dagli altri; l’hanno fatto nel secolo scorso misurando e confrontando crani e cervelli, e nel ‘900 effettuando test psicologici, attribuendo punteggi di Q.I. e, infine, esaminando in maniera più o meno diretta il patrimonio genetico degli esseri umani. Attualmente nell’ambiente scientifico è in corso un dibattito che sfiora la polemica: molti studiosi (in Italia Luigi Luca Cavalli-Sforza e Alberto Piazza, ad esempio, all’estero proprio Gould e Richard Lewontin, tanto per fare qualche nome) hanno negato validità al concetto di razza. Hanno sottolineato l’impossibilità di separare in gruppi rigidi una specie che si incrocia liberamente, che viaggia e migra da sempre, senza rispettare le barriere e i confini geografici. Hanno affermato che le caratteristiche somatiche più evidenti degli esseri umani – come il colore della pelle e dei capelli, il tipo di lineamenti e altri utilizzati per definire le diverse razze – sono semplici adattamenti all’ambiente, controllati da una frazione molto piccola del nostro genoma. Hanno accertato che le persone differiscono in misura notevole fra loro dal punto di vista genetico: due italiani del medesimo sesso sono geneticamente differenti di circa il 30%, una percentuale analoga a quella che rende così diversi un bianco e un nero.
Questo per quanto riguarda il termine “razza”. Ma si sta facendo giustizia anche dell’illusione di misurare e definire con un numero un’entità complessa, sfaccettata (multipla, direbbe H. Gardner) e influenzata dall’emotività (come ha spiegato Goleman) come la “intelligenza”.
Insomma, la tentazione di liquidare frasi simili come un cumulo di sciocchezze è forte, ma è meglio non farlo, dato che all’ultima domanda (a cosa-chi serve…) è fin troppo facile rispondere: serve a difendere e limitare il godimento di determinati diritti sociali ed economici ad alcuni gruppi di individui, i bianchi, gli ariani, i sani, i normali escludendone altri: i negri, gli ebrei, i pazzi, i devianti ecc. E infatti all’inizio del secolo i test per misurare il Q.I. furono usati negli Stati Uniti per individuare e rispedire a casa gli immigrati europei deboli di mente, e per sterilizzare e impedire loro di riprodursi i cittadini americani “inadatti” (alla fine del 1935 erano già state effettuate 20.000 sterilizzazioni eugenetiche di “imbecilli”, alcoolisti, tossicodipendenti, persino sordi e ciechi). La medesima “scienza” giustificò in Germania la sterilizzazione, l’internamento e infine lo sterminio di ebrei, zigani e dei socialmente indesiderabili.
Uno dei maggiori contributi a dimostrare la sostanziale illegittimità di queste misurazioni venne, quindici anni fa, da un saggio esemplare di Stephen Jay Gould: Intelligenza e pregiudizio, già edito da Editori Riuniti nei primi anni ’80 e ora riproposto dal Saggiatore in una nuova edizione riveduta e ampliata nel 1996. Le novità consistono in un’ottantina di pagine: una nuova, più ampia, introduzione e due nuovi capitoli di critica al testo The Bell Curve, pubblicato in USA nel 1994 da Richard Murray ed Herrnstein, nuova bibbia della destra. Vediamo brevemente i contenuti dell’edizione precedente (che vinse, tra l’altro, il National Book Critics Circle Award) e le novità di quella attuale.
Il tema centrale del saggio è il determinismo biologico, la posizione di chi ritiene che le differenze economiche e sociali fra esseri umani (in primo luogo quelle fra razze, classi e sessi) riflettano differenze innate di capacità, di “intelligenza” e che il divario sia biologico e come tale non colmabile. Insomma, riprendendo la frase precedente: «Non siamo noi ad essere razzisti (sessisti, classisti), sono loro ad essere scemi».
L’autore dichiara il proprio dissenso sin dal titolo: Mismeasure of Man (L’erronea misurazione dell’Uomo), un’allusione sia all’uso non legittimo della misurazione per stabilire una gerarchia all’interno della specie, sia al fatto – spesso trascurato – che gli antropometristi misuravano solo la metà maschile dell’umanità, considerandone il maschio rappresentante per eccellenza e la donna una brutta copia. Gould si concentra sugli ultimi due secoli, l’Ottocento, epoca d’oro della craniometria, e il Novecento, il secolo dei reattivi mentali, i test di “intelligenza” a punteggio. Entrambi gli approcci (quello fisico e quello psicologico) poggiano sulla convinzione errata che esista una qualità unitaria, ereditabile e misurabile denominata “intelligenza”, e che tale qualità, rappresentabile con un numero (il volume cranico, il peso del cervello, il Q.I.), sia diversamente distribuita all’interno di gruppi umani (razze, classi, sessi), giustificando lo svantaggio e la discriminazione di alcuni gruppi rispetto ad altri.
La novità del saggio di Gould stava – sta – nel non limitarsi a contestare le tesi deterministe dal punto di vista etico, criticandone proprio il preteso valore scientifico obiettivo, la maniera scorretta in cui i dati furono raccolti ed elaborati. Insomma le tesi dei deterministi non sono “cattive” ma, più semplicemente e più significativamente, “sbagliate”.
La parte più interessante e innovativa del saggio (VI capitolo) riguardava un argomento matematico non affrontato in altre confutazioni: l’analisi fattoriale dei test mentali, in particolare il parametro conosciuto come g di Spearman, un valore arbitrario di rappresentazione su cui i deterministi continuano ostinatamente a basare i loro discorsi. Gould, paleontologo con una lunga competenza nell’interpretare le variazioni tra popolazioni e al loro interno, ha fatto le pulci ai dati dei craniometristi e dei testisti mentali, ha esaminato il metodo di analisi matematica inventato da Spearman e dai suoi successori (un metodo tuttora utile per trattare altri tipi di dati) e ne ha dimostrato l’inadeguatezza. Spearman inventò l’analisi fattoriale – dice Gould – per dimostrare la sua teoria determinista e non elaborò la teoria a partire da un’analisi oggettiva e neutra dei dati. «Il mio strumento di ricerca preferito era sorto per un utilizzo sociale che mi risultava del tutto estraneo».
Quello di Spearman non è il solo caso sorprendente di inversione del famoso metodo di ragionamento scientifico (prima i dati e poi la teoria e non viceversa!). C’è il clamoroso autogoal di Morton che pubblicò scrupolosamente tutti i dati e tenne conto soltanto di quelli in accordo con la sua teoria; il caso, molto più spinoso e spiacevole, di Sir Cyril Burt che per maggior tranquillità si inventò spesso di sana pianta i dati e persino una collaboratrice impegnata a raccoglierli (la ben nota Miss Convay). Ma ciò che Gould intende dimostrare, oltre all’errore di base del determinismo, non è che i deterministi erano – sono – cattivi scienziati, né che fossero sempre in errore. Ciò che invece sottolinea è che
la scienza (..). è un’attività socialmente inserita (…) I fatti non sono frammenti puri e incontaminati di informazione, anche la cultura influenza che cosa vediamo e come la vediamo. Le teorie, inoltre, non sono semplici induzioni da fatti.
Cyril Burt
Nessuna grande teoria nasce soltanto dall’osservazione, ma da visioni, da intuizioni, da modi assolutamente nuovi di accostare osservazioni già fatte da altri. Se fossero soltanto i dati a parlare, chiunque potrebbe elaborare nuove teorie.
Insomma non esiste una scienza oggettiva, avulsa dalla realtà sociale, praticata da spiriti eletti che si collocano “fuori” e al di sopra di ogni contesto. Questa è forse la lezione più interessante e di portata più generale del saggio di Gould, che vi ha profuso la competenza del biologo statistico, l’abilità brillante del divulgatore e anche una profonda passione – insolita purtroppo per uno scienziato – per la storia, e il gusto di rifarsi direttamente alle fonti originali invece di «affidarsi comodamente alle fonti secondarie e scopiazzare qualche ordinaria riflessione da altri saggisti».
Intelligenza e pregiudizio è presto diventato un classico, una pietra miliare della storia della scienza, un testo ever green, proprio perché confuta una linea di pensiero e di indagine, non singoli casi. Come tale non ha avuto praticamente bisogno di ritocchi e rinfrescate per quindici anni ed è di stretta attualità ancora oggi; ha venduto più di 250.000 copie in USA ed è stato tradotto in dieci lingue. Perché allora questa nuova edizione?
Nel 1994 negli Stati Uniti è stato pubblicato un saggio di cui si è molto parlato anche qui, in Italia. Molti studiosi e molti che si occupano a vario titolo di attualità ne hanno, qui da noi, sottovalutato l’impatto, scambiandolo per un rigurgito – alla fin fine innocuo – dell’ideologia ultraconservatrice, tanto più che gli autori, lo psicologo di Harvard Richard Herrnstein (scomparso pochi mesi prima della pubblicazione del saggio) e il rispettato sociologo Charles Murray, sono esponenti della destra americana, non nuovi a saggi di questo genere. Ed è anche vero che queste posizioni estreme non scompaiono mai, semplicemente diventano più o meno visibili a seconda del clima politico della comunità scientifica e della società. The Bell Curve, però, è stato pubblicato in concomitanza con la vittoria alle elezioni dei repubblicani di Gingrich e con un «nuovo periodo di restrizioni nel campo delle politiche sociali senza precedenti nell’arco della mia vita», osserva Gould, spiegando le ragioni di questa nuova edizione.
Nei nuovi capitoli Gould riprende il discorso precedente e dimostra cheThe Bell Curve segue esattamente le orme dei biodeterministi, nonostante le premesse possibiliste degli autori, destinate ad ammorbidire l’impatto di un testo estremista. Le loro tesi, condite da decine di grafici e tabelle che Gould ha minuziosamente studiato – sono le solite: la fattibilità e la correttezza scientifica della misurazione dell’intelligenza mediante l’attribuzione di valori di Q.I., la qualità innata dell’intelligenza che Murray ed Herrnstein pretendono in gran parte (non completamente, ci tengono a sottolineare gli autori per evitare le polemiche!) controllata dai geni ed ereditabile, avulsa dall’influenza ambientale. E, vedi caso, l’elaborazione matematica dei dati si rifà alla solita analisi fattoriale di Spearman e dà per scontato il famoso parametro g.
Molto scalpore ha fatto un loro “dato”: i punteggi di Q.I. dei neri americani sarebbero significativamente più bassi di quelli riportati dai bianchi. (circa 15 punti) Secondo gli autori questo gap, essendo di origine genetica, è incolmabile, ma differenze di questo genere sono state riscontrate in molte altre situazioni nelle quali una minoranza veniva variamente discriminata rispetto ad una maggioranza. Il medesimo valore, in altre situazioni sociali, è – strano ma vero – rapidamente diminuito fino a scomparire quando sono venute meno o comunque si sono attenuate le discriminazioni. Le conclusioni degli autori sono ovvie: i neri sono ben più fertili dei bianchi, i veri americani stanno perdendo terreno, la stupidità si diffonde e il paese perderà la preminenza economica e tecnologica. I mali sociali sono imputabili ad una irrimediabile “stupidità”. Meglio allora abolire qualunque programma sociale di aiuto ai poveri, alle minoranze e alle “single mothers”, abbandonare gli oneri sociali del welfare e degli investimenti a favore della scuola, dei programmi di supporto a chi ha difficoltà di apprendimento per spendere a favore di chi dimostra doti particolari.
Così Gould:
Per quanto sia indisponente l’anacronismo di The Bell Curve, trovo molto più irritante la sostanziale falsità del libro. Gli autori tacciono fatti oggettivi, facendo un uso scorretto dei metodi statistici, e sembrano restii ad ammettere le conseguenze delle loro affermazioni» (…) «il libro è un manifesto della teoria conservatrice e il suo misero e distorto trattamento dei dati ne rivela il proposito principale: la perorazione di una causa, prima di tutto.
Con mia grande soddisfazione, a dare torto marcio a Murray ed Herrnstein ci si mettono persino quegli indisciplinati degli studenti. Questa notizia, riportata da Gould alla fine del primo nuovo capitolo, si commenta da sola. Il riferimento è ad una scuola del Bronx impegnata in una politica di aiuto agli scolari più svantaggiati:
Alla Hostos i punteggi totalizzati nella prova di lettura sono raddoppiati nel giro di due anni. Bassa è la percentuale degli abbandoni, e alta quella della frequenza. Circa il 70 per cento delle classi del 1989 si è diplomato nei tempi stabiliti, il doppio della media cittadina.
Mai letto niente sulla situazione scolastica della popolazione del Bronx? Io sì.
Non vorrei sollevare polemiche in una sede non appropriata ma siamo sicuri di voler spendere i fondi statali per finanziare la scuola privata invece di migliorare prima di tutto, com’è dovere di ogni stato democratico moderno, la scuola che esso deve garantire ad ogni cittadino?
Steven Jay Gould
Intelligenza e pregiudizio
Contro i fondamenti scientifici del razzismo
Il Saggiatore tascabili
pp. 382, € 11,00
trad. Zani A.
e-book
pp. 384, € 4,99
Qui un breve saggio in italiano sul libro «The bell curve» a cura di Mark Epstein.