O tutto o niente. Dopo essere stato bellamente ignorato dall’editoria italiana, Lethem viene ripagato del tempo atteso con la pubblicazione contemporanea di ben due sue opere: L’inferno comincia dal giardino (ovvero The Wall Of The Sky, The Wall Of The Eye, 1996) per la romana Minimum Fax e Testadipazzo per Tropea, atto d’amore alla «sua» Brooklyn uscito l’anno scorso negli Stati Uniti (Motherless Brooklyn, 2000). Un’occasione doppia, quindi, per incontrare questo giovane scrittore americano giunto al successo negli Usa dopo dieci anni di gavetta, passati a «scrivere racconti come fossero romanzi».
Lethem è un visionario di quelli autentici, estroso e di difficile catalogazione: sovente preso e gettato nel calderone della Sci-Fi, la sua è spesso una fiction surreale che mescola con disinvoltura generi e influenze diverse. Dalla fantasy al giallo, dal noir al racconto psicologico, il crossover operato da Lethem convince soprattutto per la sua capacità naturale di rendere, potremmo dire, plausibile l’impossibile, e futuribile l’improbabile: conferendogli così la licenza di uccidere ogni divisione stilistica possibile tra letteratura colta, leggera, di genere o mainstream. Talento generoso o semplice irriverenza di un ex–enfant prodige ora coccolato dalla critica americana? Probabilmente entrambe le cose.
Incontro Lethem grazie alla casa editrice romana Minimum Fax: lui in Italia per fare promozione ai suoi due romanzi, io alla ricerca di autori interessanti da intervistare per LN–Libri Nuovi. I nostri obiettivi erano assolutamente complementari.
FE – The Wall Of The Sky, The Wall Of The Eye è la raccolta di racconti uscita nel 1996 in America, che solo oggi viene tradotta e pubblicata nel nostro paese. A distanza di sei anni, quanto senti ancora rappresentative di te e del tuo stile queste novelle?
JL– Le stesse novelle che compongono il libro coprono quasi dieci anni della mia vita, per cui mi rapporto diversamente con ognuna di esse. Alcune le sento sicuramente più vicine al mio stile attuale, altre forse mi paiono più come esperimenti giovanili; ma episodi come I Dormiglioni e Cinque Scopate sono importanti per me oggi come allora, credo molto in queste due storie e che hanno rappresentato una crescita notevole del mio modo di scrivere. Quello che se mai potrei sentire come meno rappresentativo del mio essere scrittore oggi è proprio la dimensione del racconto, della short story, visto che ho la tendenza oggi a concentrarmi su progetti di più ampio respiro.
FE– Uno sbocco naturale, se è vero, come ho letto in un’intervista, che anche nel tuo periodo di intensa produzione novellistica ti sei sempre considerato un romanziere.
JL– Certo, penso che la mia dimensione sia quella del romanzo anche quando scrivo racconti brevi. Il fatto è che anche nel racconto, nella novella, io applico le regole del romanzo, per cui il racconto stesso diviene in realtà una sorta di «romanzo compresso». Oppure uso la forma racconto come puro esperimento, come bozza per una storia più lunga e complessa. È il caso di quasi tutte le storie della raccolta, meno una, Per sempre, disse il papero, che è invece più simile a uno sketch, a un veloce spaccato su una certa realtà.
FE– In molti hanno parlato di Lethem come di un ideale incrocio tra Philip Dick e Raymond Chandler…
Franz Kafka |
JL – Questa definizione, che mi lusinga oltremodo, venne fuori al tempo del mio primo romanzo Gun with Occasional Music, uscito nel 1994. In quel caso era sicuramente appropriata, perché in effetti il mio tentativo era stato esattamente quello di mescolare Dick e Chandler e vedere cosa poteva scaturirne. Ma le mie influenze sono anche altre: Graham Green, Kafka, Italo Calvino, Borges. Il mio amore per Kafka penso di averlo manifestato soprattutto con Kafka Americana, inedito qua Italia, che è nient’altro che l’applicazione alla letteratura della ben nota pratica della coverin musica. Ho coverizzato alcuni brani di Kafka rivisitandoli e manipolandoli a mio modo. È stato interessante.
FE– Che cosa ti colpisce maggiormente di uno scrittore come Calvino, in bilico tra la perfezione formale e il surrealismo di testi come Il barone rampante o Il castello dei destini incrociati?
Italo Calvino |
JL– Penso Calvino sia un maestro. Ho letto tutto quello che Calvino ha scritto e adoro interamente la sua opera, per cui penso di essere troppo coinvolto per poter separare l’aspetto formale della sua scrittura dal contenuto dei suoi racconti. Perché questo è stato Calvino: uno scrittore di racconti, fondamentalmente. Contrariamente a quanto ti dicevo su me stesso, penso che nel caso di Calvino anche i romanzi siano stati concepiti applicando le regole del racconto.
FE– Ho letto che Five Fucks è nato da una chiacchierata con Sterling…
Bruce Sterling |
JL – Io e Bruce parliamo spesso di letteratura, e sebbene abbiamo sovente punti di vista abbastanza differenti, devo dire che le chiacchierate con lui sono sempre molto affettuose e piacevoli. Un appunto che Bruce mi fece qualche anno era circa una mia supposta «volontà di persecuzione» nei confronti dei personaggi dei miei racconti che facevano sesso, come se l’atto sessuale in sé potesse essere foriero di mali successivi. Con Five Fucks non ho fatto altro che portare all’estremo questa considerazione. Tutto qui.
FE– Come hai ricordato poco fa, il tuo esordio letterario è stato nel 1994 con Gun with Occasional Music: che cosa hai pensato quando hai visto che la tua novella stava avendo un buon successo di pubblico e critica?
JL – Penso che il successo possa meravigliare solo lo scrittore davvero esordiente, nell’accezione di colui che da poco ha iniziato a scrivere. Il buon successo di Gun… è arrivato quando io avevo trent’anni, ed era da almeno dieci anni che scrivevo: e dieci anni di gavetta ti fanno abbastanza perdere quel senso di piacevole stupore che potrebbe derivare dal vedere un proprio libro nella vetrina del libraio dietro casa. Inoltre, per quanto Gun…abbia avuto una buona accoglienza, si è trattato comunque di un successo abbastanza circoscritto, ma che per fortuna è cresciuto progressivamente con gli altri miei romanzi. Il mio ultimo libro Testadipazzo sta andando molto bene e ne sono particolarmente soddisfatto; un successo di queste dimensioni ai tempi di Gun…, forse mi avrebbe meravigliato davvero.
FE– Sei uno scrittore che pianifica attentamente il plot dei propri romanzi, o concedi molto all’improvvisazione?
JL – È improvvisazione continua. Quando mi siedo a scrivere ho in mente alcuni punti fermi, alcuni personaggi e alcune ambientazioni che vorrei riprodurre nel romanzo, ma ci sono sempre tantissime lacune che mi diverto a colmare improvvisando giorno per giorno, senza sapere bene quali sviluppi ci possano essere per ogni pagina costruita così senza nessuna progettazione. E difatti il finale dei miei racconti è spesso diverso da come me lo immaginavo all’inizio.
FE– Quanto c’è di te nei tuoi personaggi?
JL – Ovviamente i miei personaggi sono molto autobiografici, ma è un tipo di autocitazione molto particolare, riflessa, distorta, applicata con l’uso di metafore e parallelismi che spesso solo io o chi mi conosce molto a fondo sa decifrare.
FE– Se parli di metafora, non posso che chiederti qual è allora il significato nascosto della sindrome di Tourette di Lionel Essrog, il protagonista dell’ultimo tuo libro Motherless Brooklyn…
JL – Esatto, la Tourette del protagonista è una metafora: ho conosciuto diverse persone che erano afflitte dalla sindrome in maniera più o meno grave, e dopo averle conosciute ho notato che, in misura minore, certe reazioni compulsive a stimoli di vario tipo sono presenti in ognuno di noi, me compreso. Ma la Tourette è anche una maniera alternativa con cui guardare al mondo, con cui approcciarsi con le persone e con il loro intimo.
FE– Quale influenza ha avuto la tua famiglia sulla tua attuale carriera?
JL – Mio padre era un pittore, in un certo senso la figura dell’artista in casa ha sempre goduto di familiarità e soprattutto di rispetto. Io stesso ho frequentato la scuola d’arte, ma mi sono presto trovato nell’impossibilità di tradurre in segni e colori tutto quello che provavo, e che invece la scrittura mi permetteva di esprimere.
FE– Penso che una caratteristica di tutta la tua produzione letteraria sia la capacità di dare vita ad ambientazioni e scenari assolutamente immaginifici e fisicamente impossibili, ma di renderli altrettanto assolutamente reali e plausibili agli occhi del lettore. Sei d’accordo?
JL – Sono d’accordo con quanto dici, e quello è esattamente uno dei miei obiettivi. Lewis Carrol è stato il maestro dell’assunto «diamo l’assurdo per scontato». Un assunto che ho fatto mio e ho sempre cercato di realizzare. Nel momento in cui il lettore riesce a trovare familiare un ambiente fantastico, significa che i miei sforzi hanno avuto successo.
FE– Tra le tante collaborazioni che hai messo in piedi a livello giornalistico, so che hai lavorato anche con la rivista «Rolling Stones». È una collaborazione che continuerà nel futuro?
JL – Assolutamente, sono un grande fanatico di musica e scrivere per Rolling Stones è assolutamente divertente. Ho finito adesso un pezzo su Bob Dylan, non molto lungo ma che mi ha lasciato decisamente soddisfatto. Il giornalismo musicale è un mondo interessante, probabilmente meno innocente e spensierato di come appare guardando Almost Famous ma comunque interessante… E difatti, e qui ti do una notizia in anteprima, un vero scoop!, il mio prossimo romanzo avrà come protagonista proprio un giornalista rock…
Nota: questo articolo è tratto da LN 20, del dicembre 2001. Nel frattempo l’autore è diventato molto più noto al pubblico italiano e i libri tradotti sono decisamente aumentati. Anche nelle nostre pagine abbiamo presentato altri due libri dello stesso autore, qui e qui. Per avere un quadro generale dei volumi pubblicati vi consigliamo comunque un giro su OPAC SBN, catalogo del servizio bibliografico nazionale.