di Piero Fabbri
Fino a non molto tempo un brutto spot pubblicitario veniva regolarmente passato in televisione: vi si vedeva un pescatore che, seduto ad una tavola apparecchiata, si rivolgeva ad un tonno vivo e presente sulla scena, pur se a disagio come un pesce fuor d’acqua. Masticando con gusto e un po’ d’arroganza, l’uomo mostrava al tonno il boccone infilato sui rebbi della forchetta dicendogli: «È tua suocera». Al povero genero pinnato e branchiato, nuovamente predestinato dalla crudeltà dei proverbi, non restava che rimanersene muto come un pesce .
Se ci siamo permessi di definire brutto quello spot non è solo perché tale ci pare da molti punti di vista, ma anche perché, dopo aver letto la sua ultima fatica, siamo abbastanza certi che anche Douglas R. Hofstadter la penserebbe come noi, se vedesse il videoclip. A prescindere da ogni criterio narrativo e da qualsiasi velleità comica, quello che il pescatore fa non è altro che uno sberleffo crudele; una cattiveria gratuita e, proprio per questo, brutta. Si potrebbe obiettare che nel mondo reale i pescatori uccidono davvero i pesci; e per farlo hanno bisogno di ridurre al minimo la solidarietà con le loro prede. Questo è ben comprensibile: non si può pretendere una sorta di vegetariana pietas da parte chi, facendo un rispettabile e onesto lavoro, deve in qualche modo rendere meccanica e normale l’uccisione di esseri viventi. Ma, pur concedendo questa legittima difesa ai veri pescatori, resta il fatto che la dinamica dello spot amplifica la crudeltà del gesto del pescatore virtuale. Lo spot rappresenta il tonno come un essere in grado di intendere le parole e di cogliere il loro significato; gioca sullo sconforto del tonno nel venire a sapere d’essere parente della pietanza dell’uomo; in una parola, attribuisce al pesce una coscienza maggiore di quella che realmente ha. Ma un grado maggiore di coscienza significa anche una maggiore capacità di soffrire, e maggiore sofferenza implica maggiore crudeltà. Questo è ciò che rende lo spot brutto, a prescindere dall’empatia che si possa avere o meno col tonno o con sua suocera .
I diversi possibili livelli di coscienza sono uno dei primi argomenti che DRH affronta in Anelli nell’io. Questo è il titolo italiano (dotato di struttura ricorsiva grazie alla ripetizione del gruppo «nelli»), del suo «I am a strange loop», uscito un anno fa in lingua originale. Già nella prefazione, partendo dai ricordi della sua capacità di identificarsi coi personaggi dei racconti di Roald Dahl e giungendo fino alla definizione di una metrica del grado di coscienza, Hofstadter mette subito in evidenza quale sia l’obiettivo del libro: l’analisi del concetto di coscienza. Ma ciò che più colpisce chi ha conosciuto Hofstadter attraverso il suo libro più famoso, Gödel Escher Bach – un’Eterna Ghirlanda Brillante, è lo scoprire dalle prime righe di questo suo nuovo lavoro che, a parere dell’Autore, quella celebre opera è stata sostanzialmente fraintesa.
Kurt Gödel |
Nonostante il premio Pulitzer ottenuto e la subitanea elezione a cult-book indiscutibile da parte di migliaia di lettori e fan, secondo Hofstadter il senso vero di GEB sembrerebbe non essere stato colto. Il libro, pubblicato nel 1979, fu preso a modello da tutta una generazione di giovani affascinati dall’intelligenza artificiale, dalla tecnologia; anche le opere di personalità eminentemente artistiche come M.C. Escher e J.S. Bach incantavano perché lette tramite una chiave di interpretazione sostanzialmente scientifica; ma l’Autore, più che dagli aspetti tecnologici e strutturali, è sempre stato affascinato dai misteriosi meccanismi della cognizione. Era dunque in quest’ottica che dovevano essere letti gli incanti di quelli che lui chiama strani anelli: cioè quelle strutture che riescono a ripiegarsi su loro stesse autosostenendosi, che sono ben riconoscibili in molte opere grafiche di Escher, nelle composizioni a più voci di Bach e, soprattutto, nei teoremi di Gödel. In questo senso la stranularità era già il cuore del libro del 1979; ma invece è stata in genere letta solo come una curiosa coincidenza che legava i tre protagonisti del titolo, e non come l’elemento centrale e portante di tutta la filosofia hofstadteriana.
Anelli nell’Io è quindi, in un certo senso, un sequel: Hofstadter ricomincia da capo a sviluppare il tema non colto, quasi trent’anni dopo. E ricomincia raccontando di come fin da piccolo fosse affascinato dai meccanismi che usavano principi di feedback (lo sciacquone, che apre un rubinetto per riempire la sua vaschetta d’acqua, ma è lo stesso livello dell’acqua a fermare l’erogazione della stessa; il termostato , che funziona in modo del tutto analogo, eccetera) o da situazioni in qualche modo autoreferenti e ricorsive, come ripiegare i quattro lembi d’una scatola di cartone in modo che ognuno di essi sia sostenuto e ne sostenga un altro, formando così una sorta di circolo sorretto da sé stesso.
Più esplicitamente di Gödel Escher Bach, che lasciava la cosa solo accennata, Anelli nell’Io cerca di mostrare fin dalle prime pagine che, laddove riesce a formarsi, lo strano anello cambia radicalmente la natura degli elementi che lo compongono, cambiando di conseguenza anche sé stesso. Questo processo sembra talmente correlato al principio di causa ed effetto che Hofstadter mette presto in guardia il lettore, per evitare che sia tentato di cadere nell’interpretazione teleologica: non è mai una causa, un progetto, una volontà esterna a creare gli anelli. Pur preavvertiti, è comunque inevitabile subire la sensazione che uno strano anello equivalga quantomeno ad un passaggio ad un livello superiore di evoluzione; o al livello superiore di coscienza, almeno quando di coscienza è legittimo parlare.
Per giungere alla dimostrazione di tutto ciò, Hofstadter predispone un viaggio lungo cinquecento pagine, che va dalla descrizione di quegli strani oggetti che sono gli epifenomeni, cioè quei fenomeni solo virtuali (come il muro dei 30 Km per un maratoneta, ad esempio; o la sensazione che si avverte della presenza di una pallina quando si tengono in mano un centinaio di buste da lettera, etc.) che però stupiscono proprio per la persistente sensazione di realtà che danno nonostante la loro evidente inesistenza. Divaga poi alla ricerca dei concetti multilivello, come aveva già fatto ampiamente in GEB; e non dimentica la voglia di giocare: in una nota a piè di pagina del capitolo X infila un annidamento di ben cinque livelli di parentesi. Ritorna poi nuovamente all’autoreferenza, raccontando come la guida del matematico sia la ricerca di pattern, di trame, (ma esiste davvero la trama, o è solo un epifenomeno?); svicola nei ricordi d’infanzia e d’adolescenza, lanciandosi in paragoni arditi per la maggior parte degli studenti liceali (come quando dichiara che la dimostrazione dell’infinità dei numeri primi di Euclide rimane nei suoi ricordi come un piacere maiuscolo e ineffabile, al pari del gusto della cioccolata e della musica). L’accenno all’adolescenza non è casuale: perché è nelle letture di quel periodo che si ritrova il primo motore di tutta la passione di Hofstadter; di tutto il suo rincorrere, attraverso Gödel Escher Bach prima e Anelli nell’Io poi, l’essenza ultima della coscienza. La sua attrazione verso il feedback, gli anelli e le situazioni autoreferenziali divampa quando scopre il paradosso di Russell che mina tutto l’edificio che il logico Frege stava costruendo per fondare la matematica su basi logiche. Non fu il paradosso in sé stesso a disturbare Hofstadter: al contrario, fu proprio il mancato completamento dell’azione di demolizione che il paradosso prometteva. Dopo aver messo a nudo la debolezza del sistema, Russell e Whitehead, anziché portare alle logiche definitive conseguenze le implicazioni del paradosso, cominciano a costruire tutto l’edificio dei loro Principia Mathematica limitandosi ad evitare di caderci dentro. Per il giovane Douglas, questo è probabilmente il massimo crimine contro la conoscenza mai perpetrato: se si scoprono delle fondamenta pericolanti occorre puntare il dito e urlare forte, e, se nessuno è disposto ad ascoltare, picconare il guasto fino a far crollare l’edificio in modo che poi ne possa sorgere uno più stabile. Questo è proprio quello che fece Kurt Gödel ai fondamenti della matematica; questo è quello che Doug voleva fosse fatto. Così, quando incontra un libro leggero e sconvolgente come quello di Nagel e Newman (La prova di Gödel, Bollati Boringhieri) che gli mostra la logica della dirompente azione gödeliana, il suo destino è segnato per la vita.
È per questo che Anelli nell’Io, in rigoroso stile hofstadteriano, si prende ripetutamente gioco della coppia Russell & Whitehead, rei di non aver avuto il necessario coraggio distruttore; è per questo che, al tempo stesso, edifica altari d’adorazione verso il grande logico di Brno. La cosa che più esalta DRH, comunque, sembra essere non tanto il rivoluzionario contenuto del Teorema di Gödel, quanto il modo in cui questo teorema giunga ad essere formulato e dimostrato. I Teoremi di Incompletezza sono dirompenti: una delle loro conseguenze è che non esistono solo enunciati veri e enunciati falsi, ma anche tutta una classe di enunciati indecidibili, ovvero tali da non poter essere dimostrati né veri né falsi. Questa conclusione non sconvolge più di tanto il giovane Hofstadter che legge il libro di Nagel e Newman: quello che lo sconvolge è che siano le stesse proposizioni oggetto della logica formale a essere usate, in maniera opportunamente autoreferenziale, per disinnescare proprio la teoria che proprio quelle proposizioni voleva regolamentare una volta per tutte. Nel Teorema le proposizioni si avvolgono su sé stesse, formano uno strano anello e diventano non più oggetto, ma agenti della dimostrazione. La cosa è talmente sorprendente che resterà la chiave di volta di tutta la vita scientifica di Hofstadter, che non cesserà più di ricercare bellezza, conoscenza e verità in questa sorta di ineffabile magia data dalla stranularità. È infatti evidente e per lui quasi inevitabile il passaggio logico successivo: così come le stringhe di Gödel cambiano natura trasformandosi da oggetti a soggetti, così la coscienza altro non è che uno strano anello che si forma nel momento in cui una mente riesce a considerare sé stessa, chiudendo il cerchio, anzi lo strano anello, dell’autocoscienza.
Douglas Hofstadter |
Il guaio di questo ritratto di Anelli nell’Io non è tanto che potrebbe essere sbagliato, quanto che potrebbe dare l’impressione che il libro sia serioso e fin troppo filosofico. Anche se in GEB riusciva a mantenere costantemente un tono più giocoso, lo stile narrativo hofstadteriano non è cambiato. Ci sono meno dialoghi, forse anche meno giochi e rompicapi nascosti nel testo, ma né gli uni né gli altri sono del tutto assenti. Soprattutto, quel che continua a sorprendere è la capacità (non sappiamo se propria di DRH o della letteratura scientifica d’oltreoceano), di parlare di filosofia sulla propria pelle. Se dovessimo leggere un libro di un moderno filosofo europeo che si accinge a spiegare la sua visione del mondo, ci aspetteremmo di affrontare un testo molto tecnico, denso di riferimenti, traboccante citazioni e, soprattutto, rigorosamente e attentamente impersonale. Douglas Hofstadter invece ha un approccio diretto, quasi galileianamente sperimentale, nel portare avanti le sue tesi: se deve parlare di emozioni, che sono certo un elemento importante dell’autocoscienza, non esita a raccontare le sue, analizzandole. Potrebbe a prima vista sembrare indice di egocentrismo, ma è facile rendersi conto che è solo scientismo. Quali altre emozioni ci è dato conoscere, se non le sole nostre? Come poter parlare con cognizione sperimentale di causa delle emozioni altrui? Leggere Anelli nell’Io diventa allora inevitabilmente un leggere di lui, e questo accende curiosità anche importune, come accade nei confronti del protagonista di un romanzo. Così, anche se di fatto ci si ritrova a leggere un libro difficile (un testo che sostiene che la coscienza è un formidabile prodotto dell’evoluzione che ha moltiplicato in maniera sconvolgente le nostre chance di sopravvivenza; un libro che afferma che la coscienza è terreno complesso per l’indagine, perché è quasi impossibile immaginarla separata da noi stessi; delle pagine che conducono a considerare l’oceano di simboli (e di simboli di simboli), di allucinazioni (e di allucinazioni di allucinazioni) che costruiamo quotidianamente; un opera che giunge ad ipotizzare una sorta di comunità umana retta da un «io» dislocato su più cervelli, superando e amplificando forse la stessa idea di «meme» di Richard Dawkins), la sensazione finale non è quella di aver imparato qualcosa sulla scienza della cognizione, ma solo di aver fatto una lunga chiacchierata con l’Autore.
Maurizio Codogno, Francesco Bianchini e Paola Turina sono i tre eroici traduttori che hanno trasformato I Am A Strange Loop in Anelli nell’Io: e l’aggettivo «eroici» è stato rigorosamente soppesato e valutato. Fin dai tempi lontani di Temi Metamagici, la rubrica che prese il posto di Giochi Matematicisu Scientific American e su Le Scienze, il compito dei primi traduttori di DRH si rivelò improbo. Oltre alle normali difficoltà nel tradurre una prosa complessa, Hofstadter tendeva di tanto in tanto dei tranelli ai suoi traduttori, magari solo per vedere come un suo testo scritto senza alcun riferimento al sesso dei personaggi (cosa possibile in inglese) precipitasse in italiano, francese e tedesco, attribuendo un sesso ben definito a questo o a quel protagonista del racconto. Più in generale, è fatica erculea tradurre un testo, talvolta anche un po’ tecnico, di uno scienziato che parla un italiano quasi perfetto (oltre ad un’altra decina di lingue). Hofstadter stesso racconta nella sua prefazione all’edizione italiana (che in sostanza altro non è che un meritatissimo e prolungato ringraziamento ai suoi tre collaboratori italiani) che proprio perché conosce bene l’italiano sa di non conoscerlo abbastanza da poter impunemente rinunciare alla sua squadra di traduttori. E la sua squadra (che, forte dell’equazione traduttore=traditore, il perfido Doug non esita a chiamare col collettivo e singolare nome di Traditrio) ha fatto faville.
Tradurre un libro come Anelli nell’Io significa affrontare una marea di lavoro e di maniacale ricerca del dettaglio. Non si tratta mai soltanto di trovare «il giusto vocabolo», cosa che comunque sarebbe di per sè tutt’altro che facile: è piuttosto quasi sempre una questione di trovare «la parola che meglio riesca a rendere il senso X, ma lasciando aperta la porta al sottosignificato Y, e possibilmente salvi anche la laterale allusione alla citazione Z». Stupisce che spesso, con certosina fatica, i tre riescano davvero a trovare un termine italiano in grado di dare la stessa atmosfera, a più livelli, dell’originale. Qualcosa inevitabilmente si perde; ma qualcos’altro (e questo era tutt’altro che inevitabile, anzi!) ci si guadagna. Solo dei traduttori abili e appassionati riescono ad accorgersi di situazioni in cui la versione tradotta possa conservare e perfino migliorare lo spirito di alcuni passaggi. Quando Hofstadter parla del Dimondo (un posto immaginario in cui le nascite sono quasi senza eccezione gemellari e per «persona singolare» si intende la coppia di gemelli, non i singoli componenti della coppia), si sofferma a raccontare della triste situazione dei rari nati senza gemello; in italiano, questi bimbi un po’ discoli e un po’ sfortunati diventano i «monelli». Un colpo di fortuna linguistico, certo, ma anche una splendida capacità di entrare nel contesto. Altrove, Doug gioca sull’assonanza tra «sky» (cielo) e «guy» (tipo, individuo), per mettere in relazione il cielo con l’Io. Il Traditrio tira fuori dal cilindro un anagramma a frase (CIELO=C’E’ L’IO) in grado di far piangere di felicità Bartezzaghi e di disperazione gli anglofoni.
Ma non basta la conoscenza dell’inglese, e neppure la completa padronanza dell’italiano: ci vuole anche molta intelligenza, e ancor più senso dell’humor. Se è certo propria di Douglas R. Hofstadter l’idea di giocare ancora una volta coi riferimenti falsi in bibliografia (ad esempio: Enrustle, Y. Ted, Prince Hyppia: Math Dramatica, 3 voll. – mettete alla prova la vostra pronuncia inglese, se volete cogliere il senso comico del riferimento), è certo il Traditrio che, in un caso analogo, si permette di introdurre in riferimento una ipotetica «traduzione italiana» edita in Classe (provincia di Ravenna). Quando si coglie il gioco di parole tra la cittadina ravennate e le classi di insiemi, non si può non essere grati alla fatica dei traduttori.
Douglas Hofstadter
Anelli dell’io
Che cosa c’è al cuore della coscienza?
Arnoldo Mondadori 2008, pp. XI+508, € 22,00
Trad. F. Bianchini, M. Codogno, P. Turina
QUI tre lezioni di Douglas Hofstadter
da LN-LibriNuovi n. 48 – Inverno 2008