È in realtà un finto diario Il re di Atlantide di Vincent de Swarte (Adelphi – pp. 127). La vicenda è narrata da Geoffroy, il solitario e solipsistico guardiano di un faro situato nell’estuario della Gironda, ma il vero protagonista potrebbe essere lui, anzi esso, Cordouan,
Quando minaccia di piovere lo si vede perfettamente. Si riescono quasi a distinguere i mascheroni a forma di scimmia, i delfini e le foglie di acanto delle aperture. E quando c’è bel tempo fluttua sull’orizzonte come un miraggio di nebbia.
Il re dei fari. Ci vuole fegato per vivere a Cordouan, soprattutto d’inverno: soli per sei mesi, da ottobre ad aprile, compreso Natale. Ma la solitudine non spaventa Geoffroy, un tipo affidabile: «perché sono spericolato e non mi ammalo mai, e perchè ho un fisico alla Jean Valjean». Ed è anche un buon diavolo, forse: «Parlo poco, sono poco socievole, però sono gentile, davvero. La sento dentro di me questa gentilezza, calda e intatta, grande e spontanea».
C’è un’unica cosa che gli fa davvero paura: la gente, la fatica di comunicare, le strane abitudini della persone comuni:
Prego Dio che in questi sei mesi non venga nessuno, ma proprio nessuno, (…) neanche il rifornimento, mi accontenterò dei pesci e dei granchi fino ad aprile, al diavolo la verdura e la frutta fresca e al diavolo il dolce di Natale.
Tra Geoffroy e Corduan è subito amore della forma più sublime: la voglia di essere l’altro, di appartenergli e di dargli tutto. L’uomo sente di trasformarsi, di diventare faro, il faro gli regala ricordi sepolti, passioni dimenticate, come quella della tassidermia. Perché Geoffroy è un imbalsamatore geniale, sa imbalsamare di tutto, dai granchi ai pesciolini, a creature molto più grosse. Anzi, è così che ha imparato, da due artisti pazzi, che come soggetti preferivano le persone.
Corduan striscia dentro Geoffroy giorno per giorno, «ciascuna delle sue pietre bianche mi sbianca dentro» e l’uomo non vive più secondo il tempo e i bisogni umani. Gli estranei sono un disturbo, un pericolo da cui nascondersi, una tentazione troppo forte. L’unica a stabilire un vero rapporto con Geoffory è Lise, l’ingegnere dell’ Ispettorato. «una bella donna sui quarant’anni, rossa, molto rossa» e strana, molto strana, affamata di vita, di sesso, senza timore e senza pudore. È lei che sottrae Geoffroy al potere scabro di Corduan, è lei che accelera il suo scivolare dentro se stesso e fuori dal mondo.
L’autore si cimenta, con molta abilità e discreto successo, in un’impresa quasi impossibile: rendere una vita vissuta a pelo d’acqua, senza scorgere il proprio io e senza sollevare gli occhi sul mondo. Geoffroy è acutissimo ma non sa essere profondo, si guarda vivere, si racconta in un diario sconnesso, che comincia col perdere i giorni, poi le stagioni, poi ogni connotazione temporale, ma non riesce mai a toccarsi. Il suo pensiero circolare, il suo orizzonte ha un raggio brevissimo. Nonostante il talento e la padronanza linguistica, l’asciuttezza dello stile, de Swarte riesce nel suo intento solo a metà. Il lettore si appassiona, legge fino in fondo, vede il faro meraviglioso e stregato. Ma continua a mantenere le distanze, ammira e non soffre. Geoffroy diventa pazzo sotto i suoi occhi in maniera troppo repentina e troppo elegante. Lo scarto è troppo brusco e lo lascia indietro. Ad apprezzare il «buon gusto» Adelphi, il suo fiuto. Ma senza, questa volta, sporcarsi le mani.
Vincent de Swarte, Il Re di Atlantide, Adelphi Fabula, 2000 [ed.or. 1998], pp. 128, € 12,00, trad. dal francese di Giorgio Pinotti
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