di Massimo Citi
Che cosa ci fa un ex militare giapponese in uno sperduto paesino del Veneto?
Junichiro Kojiki arrivò in una fumosa mattina del novembre 1945. Comparve sul ponte dell’Acquascura avvolto da un pastrano militare e da un alone di remota sciagura. […] Era solo uno dei tanti relitti portati dalla piena della guerra, un ex soldato giapponese capitato lassù chissà come e perché…
Kojiki è un sopravvissuto che a Hiroshima ha perso ogni legame familiare e non ha più nessun motivo per ritornare in patria. E nemmeno per vivere.
Si è trovato in Italia alla caduta della Repubblica Sociale in qualità di addetto culturale per la realizzazione di un «grande film sui valori eterni dell’amicizia, del coraggio, del sacrificio estremo» e dopo non poche vicissitudini e una persistente sensazione di irrealtà (al campo prigionieri di San Rossone è l’unico giapponese), viene inutilmente liberato. Kojiki non ritorna in patria e inizia una traversata a piedi dell’Italia che lo condurrà a Borgo Sant’Aquila.
Il paese finisce per abituarsi a lui e lo accoglie chiamandolo «il cinese». Kojiki, pur vivendo appartato, riesce a procurarsi una casa e un lavoro. Intorno a lui le piccole storie di un paese che si risveglia dalla guerra e comincia a inseguire qualche vago sogno di sviluppo.
«Il cinese» diventa amico di un gruppo di giovani del paese, attirati e spaventati insieme dalla sua estraneità. Fonda una scuola di kendo, la scherma giapponese, e i giovani divengono suoi allievi. Imparano l’autodisciplina, la costanza, l’attenzione, il silenzio. Anche Riccio, il Franti del villaggio, criminale senza passato né futuro.
L’arrivo al paese di Grappo Quieto, «onorevole» senza scrupoli, spezza il quieto equilibrio di Borgo Sant’Aquila. Con lui arriva lo sviluppo, la speculazione, l’inquinamento, l’incidente.
Inevitabile il confronto finale tra il mite Kojiki, dimenticato testimone di una cultura millenaria, e l’Onorevole, complice degli «americani» che avevano impiantato nel paese una fabbrica estremamente pericolosa.
Nessun vincitore e molti vinti. E una storia che rotola senza molte speranze fino ai nostri giorni, con la brutta favola di un Nord-est ricco e povero insieme, dove la ricchezza e lo sviluppo non attenuano l’infelicità.
Pietro Spirito racconta con apparente, calcolata, divertita naturalezza e il suo Speravamo di più è una modesta storia, un episodio possibile di un passato dimenticato, consegnato alla cronaca dei disastri innaturali che segnano il glorioso boom italiano. C’è nostalgia, in Spirito, ma una nostalgia carica d’ira, che non rinuncia e non si rassegna. Kojiki, una delle tante vittime di una tecnologia incontrollabile, mostra lo stesso silenzioso stupore dei sopravvissuti del Vajont, di Bophal, di Cernobyl. Custode di un ricordo che può essere salvezza.
È un manifesto, questa Via dei Lupi di Carlo Grande, un appello all’insurrezione, al riscatto, alla ribellione. Anche, più modestamente, alla polemica, all’insofferenza, al pernacchio e al motteggio di Signori, Capi, Dirigenti, Capataz, Manager e Grossipersonaggi e delle loro corti e coorti di lacchè, lustrascarpe, signorsì, lecchini, astrologi e cartomanti. Leggerlo, a parte altre considerazioni più serie, è stato un piacere persino un po’ adolescenziale, sebbene il romanzo abbia volutamente tinte cupe e al protagonista non ne vada – letteralmente – dritta una che sia una. Un romanzo che si distacca decisamente dal panorama della letteratura italiana contemporanea.
Ma, naturalmente, dietro la lettura «adolescenziale» c’è stata anche una lettura più «matura».
Ovviamente il primo riferimento a venire in mente è Jack London. Uno (un altro?) che raccontava nitidamente e che narrava di lupi e uomini. Il lupo come modello: feroce, ma nemmeno un centesimo di quanto lo siano gli uomini, e intelligente, leale, curioso, fedele. Leggere La via dei lupi durante la guerra all’Iraq (pericolosa e preoccupante, nonostante la grancassa della propaganda degli «alleati», parola volutamente rubata a tutta un’altra storia di Liberazione) mi ha suscitato non poche riflessioni. Un romanzo e una storia che raccomandano rettitudine, misura, temperanza, onestà intellettuale: tutte virtù o, meglio, attitudini che in questo momento non «pagano» e forse non hanno mai pagato.
Si apprezza la scelta di un Piemonte Medioevale che non ha nulla di oleografico e il costante contrappunto di piccoli e grandi arbitri alla vita quotidiana del protagonista e non solo, a ricordare che, al di là di cavalli, livree, armature e questioni d’onore il potere era e restava opprimente e iniquo.
François è un intelligente anacronismo, in questa situazione. Uomo curiosamente «moderno» deriva in realtà la sua visione del mondo da una concezione laica, quasi pagana dell’universo e non fa mai ricorso a categorie politiche collettive, come «la Libertà» o «la Democrazia», com’è tipico dei cattivi romanzi storici.
Curioso che certe categorie del paganesimo classico (tolleranza, amore e rispetto per la natura, vivo senso della propria dignità come della propria fragilità) siano così di attualità, di questi tempi. Come sono d’attualità l’intolleranza e l’arbitrio…
Rosa Matteucci è l’autrice di Lourdes, uno dei romanzi più intelligentemente e impietosamente crudeli dello scorso decennio. E Libera la Karenina che è in te, suo secondo romanzo, giunto a distanza di quattro anni, promette già dal titolo altrettanta lucida perfidia.
«La donna» – così, anonimamente, è presentata la protagonista – raggiunge all’Asmara il suo amico, «il ragazzo che aspettava qualcosa». Tra i due, in patria, non vi erano legami né promesse, soltanto gusti comuni e un certo affiatamento. Il «ragazzo», insegnante di una scuola italiana in un’Eritrea attraversata da una guerra infinita, si sente sperduto e il legame non troppo solido né urgente con «la donna» si arricchisce di echi e promesse dovuti alla distanza.
L’arrivo di lei si incaricherà di distruggere crudelmente il sogno del «ragazzo che aspettava qualcosa». Nel Corno d’Africa «la donna» incontrerà «il soldato», uomo semplice ma appassionato, e nascerà tra loro un legame tormentato e fatale.
A raccontarla così, è una storia di sentimento e sofferenza, ambientata nella romantica cornice dell’Africa Orientale, cronaca di un amore contrastato, con la presenza obbligata di una Lei, un Lui e un Rivale.
Questo se si dimentica che a scriverlo è stata Rosa Matteucci… «La donna» è un’illusa, una pasticciona, un’idiota a piede libero che non si accorge di nulla e insegue «il soldato» con la cieca dedizione di un cane abbandonato, «il soldato» un individuo infantile dalle emozioni rudimentali ma leale fino al masochismo nei confronti dell’amico, «il ragazzo che aspettava qualcosa». Quest’ultimo, infine, è un tipo meschino, irascibile, ipocrita e vendicativo, la cui unica consolazione per il rifiuto della donna è compiacersi delle umiliazioni che le infligge il soldato.
In quanto all’Africa, si rivela incomprensibile e soprattutto inospitale, aliena, scomoda, violenta e troppo carica di odori e sapori per il grigiore intellettuale dei protagonisti.
L’elemento comico di Matteucci nasce da un’eccellente scelta dei tempi della narrazione, da un gusto dissacrante fino alla ferocia – lo stesso che segnava l’ottimo Lourdes – e dalla precisione iperreale delle descrizioni, apparentemente svilite a evocare incontri sgraditi, momenti di confusione mentale, abbagli, errori e piccole cose estratte da una quotidianità prosaica, con un irresistibile effetto di grottesco e straniamento.
Le pagine di Matteucci fanno sorridere con pena, o soffrire con un sorriso. Si assiste, nostro malgrado divertiti, alla gioiosa autopsia delle illusioni e dei confusi sogni e desideri di una generazione molto «intellettuale» ma molto «delusa» da un mondo ostile e indifferente.
Il referto finale parla di «insondabile stupidità».
Pietro Spirito
Speravamo di più
Guanda 2003, pp. 202, € 13,50
Carlo Grande
La via dei lupi
Ponte alle Grazie 2002
Tea 2006, pp. 224, € 7,50
Rosa Matteucci
Libera la Karenina che è in te
Adelphi, 2003, pp. 165, € 14,00