Sette chiese di Milos Urban, sottotitolo «romanzo gotico praghese» l’ho (non senza fatica) a suo tempo letto, facendo all’epoca attenzione a non macchiarlo, gualcirlo o smarrirlo essendo di proprietà della libreria. Non senza fatica, ho scritto, perché Sette chiese è un libro lentissimo – a volte ipnotico, in altre occasioni decisamente soporifero – nel raccontare la vicenda del suo protagonista «dal nome impronunciabile» e poliziotto fallito, del cavaliere Matyas Gmünd e del suo impresentabile amico-servo Prunslik e di Rozeta, creatura cupamente attraente. Un romanzo non soltanto lento ma anche talvolta incomprensibile senza avere sotto mano una carta – sia storica che contemporanea – di Praga. In particolare delle chiese e dei conventi. Inutile ripetere che, nonostante i riferimenti suggeriti, il buon Urban è sicuramente meglio informato di Dan Brown sull’architettura praghese ma meno dotato da un punto di vista narrativo e che la sua Praga, rispetto a quella di Umberto Eco, è interessante come una guida touring.
Importante osservare che «gotico» nel contesto di questo romanzo ha un significato poco narrativo e molto architettonico, laddove «gotico» si oppone a «barocco». In senso proprio, dal momento che la serie di omicidi – superbamente raccontati, lo ammetto – nascono da motivi, per l’appunto, architettonici. Difetto fondamentale del romanzo, comunque dotato di una suo cupo e ossessivo fascino, è l’essere stato tradotto. Lo so, sembra un controsenso, ma per un italiano leggere un romanzo tanto profondamente basato sulla storia di Praga e della repubblica Ceca è un’operazione sinceramente povera di senso. Se qualcuno conosce – bene e profondamente – la storia della capitale della Repubblica Ceca probabilmente si divertirà una sacco leggendo della sacrosanta vendetta condotta contro barocchi e comunisti, altrimenti meglio lasciar perdere.
Milos Urban, Sette chiese, Fanucci TIF 2009, pp. 384, € 12,90, trad. Letizia Kostner
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