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Dot–obsession di Yayoi Kusama |
Nella nostra vita di lettori giungono momenti in cui sembra che i libri si chiamino l’un l’altro, si facciano eco, si cerchino. E ci capitano fra le mani centinaia e centinaia di pagine che ruotano intorno a un medesimo tema – ossessione, angoscia, paura o speranza che sia – proprio quello che abita i nostri pensieri, che sussurra nella nostra mente e non ci lascia andare. Pagine che sembrano indirizzate a noi, per dirci qualcosa che ancora non abbiamo capito o che pian piano, faticosamente, stiamo cominciando a comprendere. Negli ultimi mesi ne ho incontrati tre: mentre li leggevo avrei voluto avere sempre una matita in mano per segnare tutte le frasi che mi risuonavano dentro e che non volevo dimenticare. Ma non è così che leggiamo i libri, le parole devono scendere in profondità, non essere imparate a memoria. Così le citazioni che ho scelto sono poche, forse nemmeno le più rivelatrici. Ma ciò che ho letto non andrà perduto.
La mia vita è stata un’unica giornata. A sera chiuderò l’uscio e andrò a dormire.
Marina Jarre Il silenzio di Mosca
Questo libro è costruito intorno a tre lunghe «conversazioni» epistolari; non è un testo allegro, pervaso com’è dalla consapevolezza dei limiti della memoria, dell’impossibilità di riafferrare completamente il passato, di rimodellarlo, forse, per fare meglio di quando lo abbiamo vissuto. E soprattutto dalla percezione che il tempo personale giunge alla fine. Che presto o tardi finirà, finiremo. È una lettura triste, eppure in qualche misura rasserenante, perché colloca la nostra umanità al proprio posto nel ciclo del tutto. Ma forse può rasserenare soltanto chi, come me, condivide simili stati d’animo.
La prima conversazione, avuta con Pavel, suo maestro di russo e vicino di casa, induce l’autrice a occuparsi di un episodio ormai inghiottito dal tempo, la marcia, attraverso Mosca dei prigionieri tedeschi di Stalingrado, fatti sfilare in mezzo a una folla che non può evitare di identificarli non soltanto come il nemico (battuto) ma come la fonte di infinite sofferenze, della profanazione della Grande Madre. L’autrice trova in rete altre rievocazioni del medesimo episodio, fatte da testimoni diversissimi – soldati, semplici moscoviti, il poeta Evtusënko, qualche prigioniero tedesco – che di volta in volta sottolineano emozioni e dettagli differenti, talvolta contrastanti, rendendo così impossibile ricostruire in maniera oggettiva quel momento, ma restituendogli tutta la contraddittoria complessità del reale. I prigionieri, piegati, sono protagonisti di un’esibizione di miserie (panni sporchi, ferite, fagotti, debolezza, diarrea) che alcuni testimoni russi condannano per la cruda inutilità, tanto che, tra le maledizioni di alcuni spettatori e lo stupore di altri, che non riescono a capacitarsi di aver tanto temuto quel nemico, c’è posto per la compassione di alcune donne che offrono loro del cibo.
La seconda conversazione nasce da uno scambio di lettere fra Marina Jarre e Patrizia Zappa Mulas, autrice a attrice di teatro. A lasciarci, qui, sono gli animali amati che per molti di noi sono veri compagni di vita. Il testo fluisce zigzagando tra frammenti di ricordi, l’infanzia a Torre Pellice, un grande amore di gioventù, il rapporto non sempre facile con i figli… la rievocazione della propria generazione:
Eravamo così orgogliosi e irragionevoli. Ero intemperante, spesso intempestiva nell’affermare le mie opinioni […] eravamo repressi, casti, ignoranti, immersi in molto immaginare. Una follia, però, ce la portavamo pur dentro. Una follia che spinse analfabeti in politica, quali erano i miei coetanei, disarmati nel pensiero della dittatura, verso una disubbidienza non appresa dai genitori.
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Marina Jarre |
Altri tempi, quelli della generazione di mio padre, di mia madre. E oggi ci sarebbe bisogno, di quell’orgoglio, di quell’intemperanza. Soprattutto di quel rigore.
Ci sono riflessioni preziose disseminate fra le pagine, sui meccanismi insondabili dell’esperienza e del ricordo: «No, nella nostra vita non ci sono “ultime occasioni”. Ogni cosa avviene per la prima volta»; sulla differenza profonda tra l’amore difficile di un genitore verso i figli e quello sereno, deresponsabilizzato, di un nonno verso i nipoti:
Li ho amati tutti senza complicanza alcuna. Non sono responsabile di loro eventuali fallimenti che non mi umiliano; se li vedo felici per un successo sono felice per loro, mi addolora un loro dolore, ma so che da me non potrà venire loro alcuna consolazione.
La terza conversazione, per me la più struggente, poggia sullo scambio di lettere fra l’autrice e Gino Moretti, tenente del genio durante la campagna di Russia, nel 1942, poi tornato in Italia e, stabilitosi negli Stati Uniti con la famiglia, come ingegnere e professore al Politecnico. Dallo scambio attuale il testo scivola verso lo scambio di lettere tra Gino, in Unione Sovietica e l’amata moglie Anita, a Torino. Amici da sempre l’autrice e il marito e Gino e Anita continuano a scriversi, a tenersi in contatto, mentre gli anni diventano decenni, i figli crescono, nascono i nipoti… la maturità sfuma nella vecchiaia, il dolore di perdere una figlia, di vedere la compagna di una vita ammalarsi, la sua mente offuscarsi… Ci sono grandi angosce affrontate con i piccoli gesti di tutti i giorni per sopravvivere: un po’ di spesa, preparare da mangiare, pulire l’appartamento. Incombenze ineludibili che, ben lungi dallo sminuire la vita, i sentimenti, il dolore, le paure, li allontanano soltanto un po’ permettendoci di contemplarle tutte, le fanno a misura nostra.
Stanotte Anita mi si era teneramente avvicinata e mi è venuto di pensare quanto sarebbe bello morire in un momento così, senza dottori, chirurgi, ambulanze, infermieri, tubi e siringhe. Chiudere la vita come si è chiuso un libro che si è veramente goduto.
E il ricordo dell’amica, malata di Alzheìmer, smarrita tra frammenti di pensiero ma ancora capace di camminare e di uscire a contemplare il paesaggio:
Sul prato davanti alla casa, aveva alzato ambo le braccia con un gesto di meraviglia e sorridente di gioia mi aveva indicato la cerchia delle montagne, coperte di neve, che si allargava tutt’intorno
Il silenzio di Mosca è un libro così, privo di un centro di gravità, prezioso, più che per le storie raccontate, per i sentimenti, le emozioni di cui sono intessute, fittamente annodate alla vita dell’autrice e al suo presente. Anche la vita è così, mi pare, una trama fitta della quale non riusciamo a ricordare i punti, attraversata da colori tenui, ombre e poche luci sfolgoranti e, forse, dalla fortuna di trovare qualche compagno di strada. Finirà tutto. Bisogna sperare di riuscire a chiudere la porta e ad andare a dormire in piena lucidità? Non lo so. La fine spaventa sempre. Ma questo libro aiuta.
Romanzo in forma drammatica, è il sottotitolo. Sunset Limited, infatti, è un dramma recitato in un interno e scritto in forma teatrale. La scena rappresenta una stanza di un caseggiato popolare di New York: quartiere povero, appartamento povero, chiavistelli ovunque perché a causa dei vicini poco raccomandabili. Due persone dialogano sedute al tavolo di cucina e di loro sappiamo soltanto l’essenziale. Bianco uno, nero l’altro. Il primo professore e ateo, il secondo ex galeotto, convertito, ma «fedele» a Dio è forse la definizione più adeguata.
La loro conoscenza è recentissima: poco prima il nero ha agguantato il bianco mentre si lanciava sotto le ruote del Sunset Limited un treno per pendolari; se l’è portato a casa e sta cercando di salvarlo. Di convincerlo a desistere, innanzitutto, e poi di aiutarlo a trovare un motivo per non ripetere il gesto.
Com’è immaginabile, il dialogo è uno scontro fra due visioni del mondo ma McCarthy – che il Washington Post Book World ha definito uno di quegli «scrittori che lottano corpo a corpo con gli dèi» – si tiene ben lontano dalle ovvietà. Il nero non è un fanatico e soprattutto non è un’anima bella, anche se mi sentirei di definirlo «una bella anima»; le sue opinioni sul mondo e sulla natura di Dio, anzi sulla natura del mondo di Dio, sono assai eterodosse e farebbero sussultare più di un uomo di Dio. La visione del bianco è molto meno relativista di quanto ci si potrebbe attendere. I due spesso concordano su aspetti particolari del loro contendere, il nero non si sente semplicemente investito dalla missione di salvare un’anima, anche se parte dal presupposto che Dio lo abbia mandato dalle parti della stazione. Il bianco non riesce a scorgere senso in un eventuale futuro, il nero ignora quale sia il progetto di Dio per lui. Il professore è colto, ma l’ex galeotto riserva parecchie sorprese. Il professore considera gli sforzi del suo ospite un’ingerenza indebita ma piano piano giunge ad apprezzarne l’intelligenza, l’ironia e persino la cucina. Il nero, per quanto animato da qualcosa che potremmo definire zelo cristiano è sinceramente curioso e abbastanza onesto nelle proprie argomentazioni. I due duellano in punta di fioretto, rispettosi dell’altro e senza ricorrere a facili trucchetti. Il lettore si lascia assorbire dalla bellezza del dialogo, dalla passione che McCarthy riesce a profondere nei due personaggi, perde interesse all’esito della discussione perché il percorso è ciò che veramente importa e le reazioni finali hanno valore soltanto perché ne sono la conclusione giusta. Giusta, ovviamente, soltanto sul piano letterario, perché i due sono umani, complessi, e non semplici rappresentazioni coerenti del rispettivo pensiero.
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Cormac McCarthy |
Ho cominciato la lettura con la curiosità che provo sempre verso la narrativa che si confronta con temi «assoluti». Probabilmente parte di questa propensione mi viene dall’educazione: ateo convinto (ma molto mistico) e agnostica, i miei genitori scelsero di iscrivermi a una scuola religiosa: il mio apprendistato «strabico» al mondo è tra le cose più preziose che ho. Ma la mia passione per certi temi è anche dovuta a sana curiosità letteraria: gli assoluti sono le uniche cose di cui parlano le buone storie ma riuscire a parlarne in modo lieve, renderli relativi è una sfida così facile da perdere… Leggendo le prime pagine nutrivo la recondita convinzione di stare dalla parte del professore (sono agnostica e, come ebbe a dire Laplace a Napoleone che gli chiedeva di Dio: «non mi serve questa ipotesi, maestà»). Merito di McCarthy avermi sorpreso: Che il nero, per quanto sagace, non fosse convincente, era nel conto; il fatto è che nemmeno il professore mi ha convinto, per quanto la sua visione nichilista sia a suo modo affascinante. Le sue argomentazioni (condotte senza forzature dall’autore), o meglio i suoi sentimenti – perché tutti noi non ci limitiamo a «pensare» il mondo, lo «sentiamo» – mi sono sembrati monchi, aridi, ciò che prova per la gente ormai privo di sfaccettature. Soprattutto verso quegli altri viaggiatori, che il nero definisce felicemente «pendolari terminali» che provano, come il bianco, il desiderio di gettarsi sotto le ruote del Sunset Limited
Nero: Ma torniamo un attimo a quei pendolari. Quegli altri che aspettano il Sunset […] magari sono in un abisso ancora più profondo di quello dove stiamo noi pendolari normali. Più profondo e più buio. Non dico profondo quanto il tuo, ma magari bello profondo anche lui.
[…]
Nero: Secondo me è che i tuoi motivi sono meglio dei loro. Cioè il loro motivo è che non gli piace la vita, ma il tuo dice pure che cos’è che non ti piace, e perché. Tu hai morivi più intelligenti. Più eleganti.
Vite di uomini e di donne, di persone giovani e anziane, di gente che inizia il proprio viaggio o che sa di essere giunta alla fine. Questi i temi dei sette racconti dell’antologia di Peter Cameron, Paura della matematica. C’è il ragazzo che decide di non dire più una parola in casa, ma che scrive lettere a carcerati che mai incontrerà, la giovane donna che deve affrontare un esame di matematica che la terrorizza per essere ammessa a un corso universitario, la seconda moglie di un padre/compagno indeciso a tutto, il giovane disposto a recitare la parte del fidanzato di un’amica per la madre di lei in fin di vita, il giovane gay che divide l’estate con l’amante e con la vecchia nonna… Ad accomunarli è il fatto che anche quando sembrano contemplare immobili la propria vita, stanno di fronte a una possibilità da cogliere, una scelta da compiere, una decisione da prendere. Qualcuno sceglierà di rischiare, di cambiare, qualcuno non vedrà la necessità di farlo, qualcuno, infine non potrà, al momento, fare nulla se non aspettare o sopportare la scelta di un altro…
La vita è proprio questo, in fondo: osservare, interrogarsi, concedersi o rifiutarsi… E tutte queste persone non fanno nulla di eccezionale, nulla di diverso da ciò che ogni giorno facciamo noi. Ma qualunque cosa facciano – o non facciano – è con attenzione e sensibilità, con la scelta misuratissima di ogni parola, che Peter Cameron racconta il loro comportamento e i loro pensieri, lasciando a noi la scelta di intuirne le motivazioni, di scoprirli simili a noi stessi o distanti anni luce. Come in un caleidoscopio questi frammenti di vite si compongono in un disegno, ci restituisce la complessità del nostro essere umani. Ho letto i racconti nell’ordine scelto dall’autore e alla fine ne ho ricavato un’impressione se non di ottimismo almeno di un orizzonte aperto, velato dalla malinconia e dal dubbio, forse, ma possibilista. Di un’immersione affascinante in vite differenti, in situazioni che posso non aver vissuto mai, ma che non mi sono estranee e che, forse, trovandomi nell’occasione avrei percorso esattamente come Cameron ha deciso di raccontarmele.
Imperdibile il primo racconto, che mi ha fornito il motivo di unire Paura della matematica ai due testi precedenti.
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Peter Cameron |
Il mondo del ricordo è l’incontro improbabile tra un padre sfuggente e un figlio abbandonato ai nonni da bambino. C’è pochissimo tempo, ormai, per conoscersi: il padre è in ospedale, malato terminale, e il figlio che lo accompagna nelle ultime ore non è neppure certo che lo abbia riconosciuto, che non l’abbia scambiato per qualcun altro. Non gli serba rancore, è disposto anche a recitare una parte non sua, l’assenza del padre, ormai gli è dietro le spalle. Nelle prime pagine le ore di attesa al capezzale del morente si annunciano una semplice, distaccata buon’azione, qualcosa che si è contenti di fare perché può offrire conforto a qualcuno, un quasi estraneo, senza infliggerci dolore… Poi, però, il padre, – che vive un’altalena di brevi veglie e di sonni indotti dalla morfina, uscendone «con una lucidità quasi estatica, gli occhi scintillanti e posseduti da una voglia feroce di parlare con me», comincia a raccontare al figlio una strana avventura vissuta da ragazzo, una vicenda alla quale annette enorme importanza… Un’estate vissuta in solitudine, sorvegliando i boschi a rischio di incendio, un incontro con la morte di una donna sconosciuta, una strada percorsa di notte in compagnia di un corvo, il desiderio di abbandonarsi, di abbandonare la vita, la conquista di uno sguardo più profondo… È un racconto rarefatto e bellissimo, sospeso sul mondo che intravediamo in fondo ai nostri sogni, narrato da chi è giunto al termine del viaggio, mentre il tempo sembra trattenere il fiato in attesa della fine.
Peter Cameron (Pompton Plains, 29 novembre 1959), scrittore statunitense, laureato in letteratura inglese, ha venduto il suo primo racconto nel 1983. Il suo primo libro, la raccolta di racconti One Way or Another (In un modo o nell’altro, Rizzoli 1987) fu pubblicato nel 1986. Suo anche The City of Your Final Destination (Quella sera dorata, Adelphi 2006) del 2002 e, nel 2007 Someday This Pain Will Be Useful to You (Un giorno questo dolore ti sarà utile, Adelphi 2008).
Nel frattempo, ha lavorato per organizzazioni non profit, in particolare per Lambda Legal Defense and Educational Fund, un’organizzazione legale che difende i diritti civili di gay, lesbiche e persone colpite da AIDS.
Marina Jarre
Il silenzio di Mosca.
Tre conversazioni
Einaudi, 2008,
pp. 193, € 12,50
Cormac McCarthy
Sunset Limited
Einaudi, 2008,
pp. 119, € 10,00
Trad. M. Testa
Peter Cameron
Paura della matematica
Adelphi 2008,
pp. 104, € 15,00
Trad. L. Bianciardi
da LN-LibriNuovi 49 – primavera 2009