In effetti io condivido il generale senso di allarme sull’ambiente; non condivido, però, la crescente disperazione. In giardino, trovo alcuni motivi di speranza.
Prima dei saggi che l’hanno reso famoso, Michael Pollan ha scritto un bel testo sulla propria esperienza di cura di un giardino situato a Cornwall, nel Connecticut: «circa due ettari di terreno collinare e roccioso e difficile da gestire, per coltivare il quale mi sto arrabattando ormai da sette anni». La regione dove Pollan e la moglie decisero di stabilirsi all’epoca è «un patchwork due fattorie abbandonate rapidamente reclamate dalla foresta secondaria» nel quale dovranno affrontare «infestanti che dettano legge, qualche miliardo di esemplari di ogni specie d’insetto descritta nella mia guida, gelate letali a giugno e settembre, e sassi inconcepibilmente pesanti e numerosi».
Le epiche battaglie contro questi nemici sono fra le descrizioni più interessanti (e spesso più divertenti) del saggio, ma a rendere Una seconda natura molto più che una lettura piacevole per chiunque ami i giardini sono due temi ricorrenti che percorrono tutto il volume. Il primo è il ricordo di un giardino del passato, luogo incantato dell’infanzia, il secondo è costituito dalle domande che guidano l’apprendistato di Pollan: qual è ruolo del giardiniere – e, più in generale, degli umani – nei confronti della natura? Quali sono i confini, se ci sono, fra natura e cultura?
Il volume consta di dodici capitoli, ne citerò solo alcuni per ragioni di spazio, ma tutti meritano la lettura e offrono spunti di riflessione.
Il primo capitolo, Due giardini, rievoca il giardino e l’orto curatissimi del nonno materno che, giunto dalla Russia nei primi anni del Novecento, aveva fatto fortuna prima nel ramo ortofrutticolo e poi come immobiliarista:
nella sua mente il contadino del Vecchio Mondo e l’immobiliarista coesistevano fianco a fianco […] Il nonno riusciva a essere sereno passando la mattina a coltivare con amore la terra e il pomeriggio a depredarla.
Oltre che una rivisitazione dell’infanzia di Pollan e del suo primo piccolo orto, però, Due giardini è un testo sociologico sul ceto medio americano degli anni Cinquanta, al quale apparteneva il padre avvocato:
Negli anni Cinquanta, acquistare una casa con un po’ di terreno a Long Island era esattamente ciò che faceva, agli inizi della carriera, un avvocato […]: faceva parte del modo in cui uno proclamava chi era.
Se vi ha sempre incuriosito il famoso prato che gli statunitensi di classe media dei sobborghi falciavano, ogni sabato, scoprirete cose molto interessanti:.
Le case erano molto arretrate rispetto alla strada e, sul davanti, le ampie distese di manto erboso non cintato confluivano le une nelle altre creando l’impressione di un unico paesaggio simile a un parco […] si suppone che i prati davanti all’ingresso delle singole case contribuiscano a una sorta di spazio visivo comune.
Il prato diffuso, che univa e uniformava l’intero quartiere, non piaceva al padre dell’autore, che lo abbandonava a se stesso in spregio ai vicini e al suocero:
A Long Island, inchiodato nel mezzo di una fila di monofamiliari identiche, il nostro prato diceva “depravazione” e non “prato spontaneo”, benchè proprio questo fosse diventato. Diceva anche, ai vicini, andate a farvi fottere.
Capitolo due, La natura aborre il giardino
Quando si coltiva un orto e/o un giardino senza recinzioni, belle creature come cervi, volpi, porcospini e marmotte possono diventare nemici pronti a saccheggiare le piantine di ortaggi appena messe a dimora il giorno prima! E la vegetazione spontanea, che vive lì da sempre, è probabilmente costituita da infestanti che si infilano tra gli ortaggi rubando loro spazio e luce.
L’epica lotta di Pollan con la marmotta e le erbe invasive fa sorridere chi legge ma, come spiega l’autore, c’è poco da ridere:
Uno dei meriti del giardinaggio è che libera la mente dai sentimenti a buon mercato: sulla natura in generale e sulla fauna in particolare.
La natura è il bosco che avanza e che, se un borgo si svuota, prima o poi se lo riprenderà; d’altra parte, gli umani sanno benissimo trasformare un lembo di bosco in un’autostrada o un parcheggio… Chi lavora in giardino coltiva un compromesso tra i due.
Terzo capitolo, Perché falciare il prato
In nessun luogo del mondo i prati ben curati sono apprezzati come in America. In poco più di un secolo, abbiamo disteso un manto verde su tutto il continente, senza prestare molto attenzione alle condizioni locali o ai costi.
Parliamo (nel 1991) di 130.000 km2 di prato coltivato e di una spesa di 30 miliardi di $ annui.
Ciò che colpisce maggiormente è il costo ambientale: per mantenere così belli i prati occorrono una gran quantità di pesticidi e insetticidi:
I prati, ne sono convinto, sono un sintomo e una metafora del nostro rapporto squilibrato con la terra. Ci insegnano che con l’aiuto della petrolchimica e della tecnologia possiamo piegare la natura alla nostra volontà. I prati alimentano la nostra hybris nei confronti della terra. Qual è l’alternativa? Tasformarli in orti e giardini.
Il terzo capitolo è anche una riflessione sull’odio americano per le recinzioni. Ecco le considerazione di Frank J. Scott in proposito, riportate da Pollan:
«Non è cristiano», dichiarò, «servirsi di una siepe per nascondere alla vista degli altri le bellezze della natura che abbiamo avuto la buona sorte di creare o di assicurarci». Il prato di ciascuno, sosteneva Scott, doveva contribuire al paesaggio di tutti […] Scott cercava di elevare un lotto di terreno erboso senza pretese a istituzione democratica; chi dissentiva da i loro progetti era marchiato come «egoista», «ostile ai vicini», «non cristiano» e «non democratico».
Un po’ inquietante, vero?
Il capitolo quinto, Nel giardino delle rose, è un’altra rivelazione. Offre spunti di grande interesse, eccone un assaggio:
Le rose sono state così a lungo «coltivate», incrociate e reincrociate affinché rispecchiassero i nostri ideali che ormai è impossibile saparare la loro natura dalla nostra cultura […] In una certa misura , lo stesso vale per tutte le piante ibride, ma nessun’altra ha ricevuto un’attenzione così prolungata da parte dell’ibridatore […] la rosa è stata così pesantemente gravata di «pregiudizi, tradizioni e inganni» – gravata di storia umana –, che ormai non vi è più un fondo solido da scandagliare.
Fin dal titolo, il sesto capitolo, Le erbacce siamo noi, solleva un problema significativo: il giardiniere “democratico” può andare incontro ai problemi illustrati in precedenza e ad altri anche peggiori, soprattutto se vuole offrire ospitalità alle infestanti più graziose, perché
Erano diverse dalle varietà coltivate non soltanto per una questione di stima umana. No, sembravano davvero appartenere a un diverso ordine dell’essere, più versatile, meglio attrezzato, più rapido e capace: semplicemente più abile nell’essere una pianta.
Le prodezze della bardana, del verbasco, della salsola, del kudzu, della calistegia e della striga fanno tremare i giardinieri e si guadagnano l’ammirazione restia dei botanici. La domanda che Pollan si pone, però, è se la classificazione di infestante sia un effetto dello sguardo umano – e quindi della cultura – oppure sia una caratteristica oggettiva di alcune piante aggressive che riescono a sopraffare le piante coltivate. La risposta sarà sorprendente.
Uno dei capitoli che mi ha insegnato di più sulle pratiche di giardinaggio è il settimo: Pollice verde.
I tipi di fallimento più comuni derivano anch’essi dalla natura ma sono più sensibili ai nostri sforzi; io li suddivido in fallimenti per eccesso e per difetto di intervento umano.
In buona sostanza, il giardiniere può essere riluttante a intervenire, troppo ottimista, poco pratico a proteggere le piante di cui dovrebbe essere responsabile, oppure può pretendere troppo da loro: se vuole «piantare un hamamelis in una zona dal clima troppo rigido sta spingendo troppo…»
Forse anche voi, come me, appartenete al gruppo dei coccolatori, quelli che trattano le piantine come fragili neonati … Il “pollice verde”, invece, lavora energicamente: schiaffa le radici in profondità e pressa la terra su di loro, elimina la maggior parte delle foglie e spunta i rametti. Non è un brutalone, semplicemente sa che le sue creaturine stressate perderanno un sacco d’acqua dalle foglie e che se le radici non vengono pressate nel terreno non riusciranno ad assorbirne altra. Provate, funziona davvero.
Capitolo nono: Piantare un albero
Piantare un albero è frutto di motivazioni complesse, che si intrecciano e si riallacciano a esperienze passate, necessità presenti e speranze per il futuro:
A me sembra che piantare un albero sia sempre un’impresa utopistica, una scommessa su un futuro a cui il giardiniere non si aspetta necessariamente di assistere.
Per chiarire il concetto cita Russel Page: «Piantare alberi significa dare corpo e vita al proprio sogno di un mondo migliore»
Tuttavia sognare non basta:
Probabilmente anche un bambino avrebbe riconosciuto l’estate da “effetto serra” del 1988, talmente calda e siccitosa che gli alberi apposero l’anello di crescita più sottile di tutto il secolo.
Le osservazioni successive, lette dopo trent’anni, rivelano la nostra presuntuosa e avida cecità:
Usando strumenti per l’analisi dei gas […] gli esseri umani hanno realmente osservato il respiro delle Terra, che segue un ritmo annuale: ogni estate, mentre le foreste inspirano, nell’atmosfera dell’emisfero settentrionale la quantità di anidride carbonica diminuisce; e a ogni inverno, quando la fotosintesi segna il passo e il mondo civilizzato aumenta il consumo di combustibili fossili, i livelli di anidride carbonica tornano ad aumentare – ogni anno un po’ più alti.
Nel dodicesimo capitolo, Il garden tour, l’autore tira le fila dei sette anni dedicati alla piccola proprietà da Pollan e dalla moglie Judith, alla quale è dedicato il libro. Potremmo reintitolarlo “Cosa c’è sotto il prato?”, quello steso ovunque dal precedente proprietario, che l’aveva venduta dopo soli quattro anni. Forse ciò che ho maggiormente apprezzato di questo capitolo è il riferimento al genius loci di ogni giardino, grande o piccolo che sia, quel quid che ne riassume la natura e la storia, rendendolo unico ai nostri occhi. Proviamo a cercarlo, questo genio del luogo, anche in uno spicchio di terreno, una terrazza, un balcone.
Michael Pollan, Una seconda natura – Educazione di un giardiniere,Adelphi 2016, la collana dei casi, ed.or. 1991, € 22,00, trad. Isabella C. Blum
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