Uscito a puntate sulla rivista «Magyar Nemzet» nel 1969, «Epepe» di Ferenc Karinthy è apparso per la prima volta in volume nel 1970 ed è stato tradotto in francese nel 1999 e in italiano nel 2015.
Premessa – che è anche parte della spiegazione per la quale questo strano libro è uscito – Ferenc Karinthy, è stato giornalista, drammaturgo, romanziere e… traduttore – tra l’altro dall’italiano (in particolare di Goldoni) – mestiere che ci aiuta a cominciare a comprendere il senso di una parole apparentemente assurda come: «Epepe».
Per provare a intuire qual è il tema del romanzo è però bene fare un passo indietro. Uno degli incubi più comuni che persegue l’umanità è la sensazione onirica di non riuscire a comprendere nemmeno una parola del o dei nostri interlocutori o, all’inverso, rendersi conto che chi ci ascolta non riesce a comprendere ciò che andiamo dicendo, nonostante la nostra fretta, l’urgenza o la disperazione. Mi è capitato un paio di volte di incappare in questo genere di incubi – che mi ricordi – ma quanto basta per non augurare a nessuno la sensazione di gelido terrore dalla quale è impossibile liberarsi. L’unico modo per uscire da un simile tipo di sogno è svegliarsi, anche solo parzialmente, in modo da poter aggiungere un personaggio che che ci possa dare una mano.
Al protagonista di «Epepe», Budai, noto linguista, capita di addormentarsi in aereo durante un lungo viaggio che deve condurlo ad Helsinki, a un convegno internazionale. Al risveglio si affretta a scendere ma ben presto si rende conto di non essere sceso in Finlandia ma… Lui è il primo a non riuscire a capire dove sia sceso. Nessuno sembra comprenderlo, nonostante che parli e comprenda decine di lingue.
Riesce a trovare una stanza in un hotel anche se il custode non riconosce né parla nessuna delle lingue conosciute dal protagonista. Rimasto solo nella sua stanza al povero Budai non resta che tentare di capire in quale strano angolo del mondo sia finito e come poter riprendere il suo viaggio.
In qualche modo riesce a cenare, tenta vanamente di capire i titoli dei giornali, si sforza senza successo di separare una parola dall’altra nelle frasi che ode, abborda i passanti rivolgendosi loro con tutte le lingue conosciute ma i risultati sono destinati a una serie umiliante e/o sorprendente di fiaschi. Nel caos che poco per volta sembra trascinarlo via c’è un solo particolare che in apparenza non quadra: la ragazza addetta all’ascensore, che normalmente trasporta gli ospiti da un piano all’altro, che pare essere l’unica creatura che si è resa conto che Bundai esiste. Scambiano qualche parola, quanto basta al protagonista per ipotizzare che la ragazza si chiama “Epepe”, o forse “Bebe” o “Tetete” e tra loro nasce una strano rapporto: un misto di desiderio sessuale nato dalle reciproche solitudini, un’evidente curiosità e un morboso senso di mistero che le parole non possono in alcun modo spiegare.
Lo strano “paese” dove Budai si aggira con sempre minori speranze di essere compreso – la gente ha l’abitudine di rispondere ai suoi tentativi di dialogo parlando troppo forte o troppo veloce o scuotendo il capo o facendo scena muta, senza voler riconoscere o voler dare un nome agli oggetti – è evidentemente una rappresentazione tragicomica dell’Ungheria degli anni ‘60, un luogo caotico, violento e incomprensibile anche per chi vi vive ogni giorno, un paese che aveva vissuto in una manciata d’anni il passaggio dal regime fascista e antisemita di Horthy alla versione più repressiva del comunismo sovietico.
Dopo innumerevoli e vani tentativi di comunicare, Budai riesce a trovare fortunosamente un modo per abbandonare il paese e ritornare verso la propria patria, in un finale affrettato ma comunque narrativamente efficace.
Karinthy, di famiglia ebraica, sfuggì alle persecuzioni delle Croce Frecciate, successivamente si iscrisse al partito comunista di Imre Nagy, che abbandonò poco prima della rivolta fallita del 1956 e sopravvisse lavorando come drammaturgo e tecnico di scena per il Teatro Nazionale di Budapest. Morì nel 1972, e «Epepe», una tragicomica commedia kafkiana, rimane il suo libro più famoso.
«…Penso, e mi pare assolutamente certo, che a Perec sarebbe piaciuto da matti questo “Epepe”» scrive Carrère nella sua prefazione.
Ferenc Kerenthy, Epepe, Adelphi 2015 (ed. or. 1970), pp. 217, € 18,00, trad. dal francese di Laura Sgarioto, prefazione di Emmanuelle Carrère.
Idem Gli Adelphi € 13,00
Idem in e-book: € 9,99
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