Un feuilleton? Una macabra e oscura storia di suicidio, incesto e passioni insaziabili? Una storia per donne? C’è qualcosa di antico in Chiedi perdono, un pervasivo senso del peccato, un sentore di presagio e di imminente sciagura che accompagna il lettore in ognuna delle stanze del libro.
Il testo si apre con una citazione da Cime Tempestose, ed è difficile credere a una semplice dichiarazione d’amore per l’opera di Emily Brontë, tanto più che la frase posta da Mac Donald in apertura costituisce una delle chiavi più efficaci per cogliere a posteriori il senso dell’intera vicenda.
James, il protagonista, è un solitario, un individualista. Ma non un individualista caparbio e sognatore come è tipico della vicina letteratura statunitense: James semplicemente non coglie e non riesce a immaginare gli umori e i sentimenti degli altri; questa sua cecità empatica ne fa un curioso mostro, un individuo che pianifica l’aiuto e l’affetto degli altri, che cerca di prevedere completamente il comportamento e i desideri di chi gli è caro per non dover annaspare ciecamente alla ricerca di segnali che comunque è condannato a non cogliere.
Diciottenne, si innamora di una ragazzetta di tredici anni che da poco ha cominciato a vestirsi da donna, Materia Mahmoud, figlia di ricchi immigrati libanesi. Siamo nella Nuova Scozia all’inizio del secolo, dove i poveracci (e quindi anche i neri) parlano gaelico come gli immigrati irlandesi e – se sono fortunati – lavorano nelle miniere di carbone, mentre i membri rispettabili della comunità parlano inglese. James fa l’accordatore di pianoforti e parla inglese, ma questo non basta alla famiglia di Materia per prenderlo in considerazione come possibile marito. I due ragazzi fuggono e si sposano segretamente, ma la famiglia di lei non accetta il fatto compiuto e rompe ogni rapporto con la figlia e il genero.
Il matrimonio di James e Materia si guasta rapidamente. Lei è troppo giovane per essere una buona moglie e, mentre James si assume anche la sua parte di lavoro in casa, la giovanissima sposa si balocca in un’infanzia artificiosamente prolungata, dai contorni via via più allucinati. Nasce la prima figlia, Kathleen, bella, intelligente, vivace, dotata di una splendida voce e di un talento naturale per la musica e James scopre finalmente di avere uno scopo nella vita. Unico nel suo villaggio accetta di fare il crumiro durante uno sciopero di minatori pur di arrotondare le sue magre entrate. Tutti lo detestano ma lui ha in mente una sola cosa: mandare Kathleen da un maestro di musica negli Stati Uniti. Nascono altre due bambine – Frances e Mercedes – e James parte per la guerra, la prima guerra mondiale.
Qualche tempo dopo il suo ritorno lo scopo è finalmente raggiunto: Kathleen è a New York a studiare con profitto presso uno dei migliori maestri di musica in circolazione, e James, che ha trovato con Materia un equilibrio basato su un calcolato oblìo, assapora finalmente un po’ di quiete, quando giunge una lettera…
Siamo intorno a pagina centocinquanta e il romanzo sembra aver già esaurito le possibili sorprese. Il lettore attende ora con maggiore o minore interesse che Mac Donald racconti le avventure di Kathleen e delle sue sorelline, secondo la ben collaudata tradizione del romanzo anglosassone “al femminile”, sia pur innestato di temi sociali, bellici e psicologici più adatti alla sensibilità di un lettore della fine del XX secolo.
Ovviamente non è affatto così. Dal momento dell’arrivo della lettera nelle mani di James qualunque organizzazione canonica del romanzo salta irreparabilmente. Ogni legame con il romanzo sentimentale e familiare di stampo ottocentesco si rivela ingannevole, quasi un artificio malignamente predisposto dall’abilità dell’autrice. Qualsiasi apparenza di normalità si volge nel suo opposto, ogni pretesa di rispettabilità, decoro, senno e morigeratezza si capovolge nei toni cupi e beffardi dell’ossessione, della lascivia, di un peccato che è innanzitutto odio per se stessi. Nel chiuso della famiglia la follia mette saldissime radici, fornendo una spiegazione ai destini assorti e aridi dei suoi membri.
Ma è un tipo di follia che non ha nulla di divertente e bizzarro. Consuma giorno dopo giorno chi ne è colpito, ne irrigidisce i gesti e i pensieri fino a quando diventa impossibile scorgere possibili vie d’uscita o anche solo riconoscere quanto si è stati differenti un tempo.
Mac Donald scrive di donne e delle loro vite paralizzate di fronte alla semplice e falsa logica binaria moralità/immoralità, ne racconta – talvolta con grottesca crudeltà, più spesso con sinistra esaltata soddisfazione – gli errori ripetuti, l’incapacità di comprendere, di uscire dai percorsi già segnati.
I toni cupi, freddi come il vento dell’Atlantico, che il romanzo esibisce risulteranno probabilmente disturbanti per non pochi lettori, e già ora i pareri in proposito appaiono nettamente contrapposti. Ma più profondamente dell’apparenza di romanzo rosa-nero si avverte la presenza di un possibile terreno comune tra l’autore e il lettore, un substrato che verrebbe da definire semplicemente “umano”, che rende vicini e comprensibili i personaggi di Chiedi perdono, una verosimiglianza che crea l’inattesa necessità di interessarci alla loro sorte, come se in essa vi fosse un riflesso della nostra. Esattamente il motivo per il quale, a pensarci bene, si legge e si continua a farlo.
Ann-Marie Mac Donald, Chiedi perdono, Adelphi 1999 [ed. orig. 1996] – pp. 589 € 18,00, trad. Giovanna Granato
Idem Gli Adelphi, 2002, € 14,00
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