Due libri accomunati dal fatto di essere stati scritti da donne, di portare con gran disinvoltura la propria età (duecento anni il primo, una quarantina il secondo) e dall’autobiografismo. Per il resto autrici e opere non potrebbero essere più diverse, anche se, per una volta, non si può negare che entrambe abbiano una voce e una scrittura intensamente femminili.
I diari di Grasmere (qui nella bella traduzione di Marina Rullo) furono redatti da Dorothy Wordsworth (1771-1855) tra il 14 maggio 1800 e il 16 gennaio 1803 a Dove Cottage, nella valle di Grasmere, in quel Lake District indissolubilmente legato al nome di William Wordswoth e Samuel T. Coleridge che vi composero le Lyrical Ballads, monumento della poesia romantica inglese. Come i molti altri che scrisse non erano destinati alla pubblicazione, avvenuta solo dopo la sua morte. Neanche erano sfoghi del cuore, ma piuttosto una sorta di cronaca di vita quotidiana, in cui la figura centrale è l’amatissimo fratello William, maggiore di lei di un anno.
La morte prematura dei genitori aveva separato Dorothy dai fratelli, tutti maschi, e Dove Cottage rappresenta la casa d’elezione in cui dal 1799 si era riunita a William in serena libertà. La sua vita non è oziosa. Cuoce pane, torte, sformati, cuce panciotti, raccoglie nei boschi fiori e muschio da trapiantare in giardino. Osserva con amorosa attenzione William che spesso è sofferente, depresso, esausto, non dorme, non mangia, ma compone le sue opere immortali a prezzo di un doloroso esaurimento. Lei cerca di alleviarne le pene, ricopia le poesie, lo sostiene in tutto. Entrambi scrivono e ricevono decine di lettere. Celebrano il culto della natura in lunghe passeggiate anche notturne, con qualsiasi tempo. Per Dorothy è un incantesimo continuo. Registra in primavera ogni fiore che sboccia, ogni albero che rinverdisce, ogni cambiamento di luce sui laghi, riconosce ogni uccello che canta nei boschi. Malgrado la salute delicata ha un’energia inesauribile: sta malissimo, trascorre la giornata a letto, ma al tramonto rinasce per scalare una collina, la pioggia non la ferma mai, rischia la vita sotto la neve. Attorno ai fratelli si agita una folla di personaggi. Prima di tutto Coleridge, l’amico fraterno, malato e tormentato ma sempre in movimento, a piedi, in un vorticoso scambio di visite con i Wordsworth. Poi le carissime Mary e Sara Hutchinson, i Simpson la cui frequentazione è quasi quotidiana, e altre decine di persone che capitano a prendere il tè o si raggiungono con lunghe e felici camminate su sentieri fangosi. Dove si fanno incontri continui. La maestria di scrittura di Dorothy non è mai tanto evidente come nella descrizione dei mendicanti, dei vagabondi, dei soldati, delle donne che incontra per strada o che vengono a bussare alla sua porta. Osservatrice acutissima, coglie i particolari apparentemente insignificanti che raccontano la miseria, la fierezza, la fatica di gente in continuo movimento per sopravvivere. Non a caso il fratello utilizza questi resoconti come argomento per le sue poesie. L’ultima parte del diario è dedicata al lungo viaggio dei due fratelli fino a Londra e a Calais per incontrare una ragazza francese, Annette, da cui William aveva avuto una figlia illegittima, che si conclude con il matrimonio di William con Mary. A Dove Cottage tornano in tre.
William Wordswoth
Dorothy si pone come uno specchio, fedelissimo e preciso, di ciò che la circonda, ma proprio come uno specchio riflette e non lascia penetrare lo sguardo al di là della sua superficie. Sappiamo che cosa vede, ma non che cosa pensa. Le note biografiche ci dicono che nel 1829 una grave malattia ebbe ripercussioni sulla sua salute mentale. Viene da pensare che fosse inevitabile, vista la sua autonegazione di fronte all’amore incondizionato per il fratello. Non ci saranno stati sogni, speranze, desideri, ribellioni, gelosie di Dorothy? I diari non rivelano niente. Appena una notazione il 31 maggio 1803:
Oggi mi si è spezzato un dente. Presto non ne avrò più uno. Passerà. Sarò amata lo stesso. Non chiedo altro.
Consigliato, oltre ai cultori di poesia, a chi non cerca trame ricche di colpi di scena ma sa lasciarsi andare all’immaginazione. Davanti ai suoi occhi rinascerà il mondo esotico, lontanissimo, dell’Inghilterra di due secoli fa. A me questa lettura ha lasciato un senso di privazione, di nostalgia per qualcosa che non ho mai conosciuto.
Davvero singolare questo secondo romanzo di Goliarda Sapienza (1924-1996), uscito per la prima volta nel 1969. L’autrice, siciliana trapiantata giovanissima a Roma, cresciuta in ambiente antifascista, partigiana, attrice e poi scrittrice, ricevette un’educazione molto rigida dalla madre, figura storica della sinistra, sindacalista, poi sprofondata nella follia. In seguito a un oscuro episodio interpretato come un tentativo di suicidio dai suoi amici, Goliarda, che soffriva di depressione e insonnia, fu ricoverata in una clinica dove subì una decina di elettroshock.
Questo l’antefatto. Il romanzo (ma la definizione è insieme imprecisa e riduttiva) all’inizio appare come un vagabondaggio tra i ricordi mitici dell’infanzia e alcune tappe della giovinezza. A mano a mano che ci si addentra nella lettura, si delinea sempre più chiaro il vero filo della narrazione: la storia di un’analisi, in un serrato confronto tra paziente e analista. Goliarda dapprima è reticente, confusa, non ha il senso del tempo, non riconosce se stessa né il terapeuta. Deve superare l’effetto nefasto degli elettroshock. Gradualmente ricupera immaginazione e parole, sogni, ricordi. Si effonde in meravigliosi slanci di un lirismo materico, denso di colori, odori, nomi di fiori e piante, in cui la Sicilia della sua infanzia rinasce in tutta la sua nostalgica bellezza. E in parallelo si innamora di un amore carnale, felice e disperato del suo interlocutore. Il quale, per parte sua, è sempre pronto a fornire le sue spiegazioni, tanto esaurienti quanto abissalmente inadeguate alla ricchezza del mondo interiore della paziente. Per lui quell’amore meraviglioso è tranfert, ogni reazione ha la sua causa perfettamente comprensibile, nella vita di Goliarda non c’è storia né incontri con individui, tutto si riconduce alla figura incombente della madre. La contrapposizione continua delle parole sublimi di lei con quelle razionali di lui ha una forza dirompente. Goliarda lotta con le parole ma ama senza condizioni colui che le pronuncia. Finché di colpo, senza spiegazioni, quello che nella fantasia della donna è un amante generoso si ritrae, la rifiuta, sparisce, la umilia rinnegandola. E lei in extremis riesce a reagire e riappropriarsi di se stessa:
se morirò svenata dalle ferite aperte di un amore perduto non più richiuse […] non lo dite forte ma pensate dentro di voi: è morta perché ha vissuto.
La prefazione di Angelo Pellegrino, sia pure con comprensibile delicatezza, spiega le circostanze di questa «analisi selvaggia», praticata in tempi in cui in Italia la psicoanalisi era ancora poco diffusa.
Affollato di personaggi appena abbozzati ma vivissimi, meravigliosamente intessuto di immagini preziose e concrete, sapiente e insieme sanguinante come carne viva, questo libro è consigliato a chi non soffre di vertigini, sa lasciarsi andare nel profondo e riesce a vibrare delle emozioni altrui.
Dorothy Wordsworth
I diari di Grasmere
Sellerio 2003, pp. 284, € 9,00
Trad. Marina Rullo
Goliarda Sapienza
Il filo di mezzogiorno
La Tartaruga 2003, pp. 186, € 16,50
Qui un intervento di Giovanna Previdenti su Goliarda Sapienza
Qui un’intervista di Enzo Biagi a Goliarda Sapienza:
da LN LibriNuovi 27, autunno 2003