Prima della guerra, Moor era una cittadina termale mitteleuropea dall’atmosfera elegante e retrò, sempre affollata di turisti; durante la guerra, però, la cava di pietra che sorge sulla sponda cieca del lago è stata trasformata in un lager nel quale sono morti oltre diecimila prigionieri. «Quelli di Moor», che sapevano ma hanno finto di non sapere, hanno perduto la guerra e la storia e i vincitori li hanno lasciati indietro senza poterli dimenticare. Così li catechizzano con rappresentazioni rituali degli orrori che hanno voluto ignorare, li rieducano con concorsi a quiz vinti da chi risponde correttamente alla domanda Perché?, li isolano come appestati rimuovendo i binari della ferrovia che finiva alla cava, li tagliano fuori dal mondo e, ancora dopo venticinque anni, mantengono intorno al paese un cordone sanitario. E quelli di Moor – che pagano per tutti: vinti e vincitori – vivono ancora della cava e dei loro campi di rape, odiano tutti e sognano l’America, le opportunità di altre vite, le case con gli elettrodomestici, le vie illuminate, il cinema, che spiano talvolta sullo schermo dell’unico televisore del paese.
In questo mondo senza futuro scivolano sottili differenze rispetto al nostro: il Giappone si arrende solo dopo venticinque anni, piegato da un’esplosione a fungo che gli antichi alleati possono seguire quasi in diretta, il presidente americano è un rudere senile, un simbolo della vittoria che non può morire.
Ransmayr non è nuovo a simili contaminazioni tra reale e immaginario: ne Il mondo estremo – romanzo del 1988 – descriveva un Impero Romano all’apice della potenza eppure già terminale, ricorrendo ad anacronismi come il cinema e la televisione e a ritorsioni tipiche del fascismo moderno contro i cittadini dissidenti.

Christoph Ransmayr
Il morbo Kitahara è un tentativo generoso, anche se non sempre riuscito, di esplorare il tema inafferrabile della colpa, del ricordo mai rielaborato che impedisce il cambiamento. La parte più suggestiva del libro è la prima metà, nella quale viene delineato un universo postbellico che affonda nell’entropia, nel quale tutto è logoro e insostituibile e mancano anche i pezzi di ricambio più semplici, le manifestazioni rieducative organizzate dall’esercito d’occupazione costituiscono le uniche occasioni mondane e il clima soffocante della piccola provincia si somma all’angoscia di chi è stato bandito e dimenticato. Dei tre personaggi principali due – Ambras, un ex internato nel lager che ora dirige la cava di pietra, e Bering, sua giovane guardia del corpo – sono coerenti e legati da un rapporto inevitabile, il terzo, Lily, pare aggiunto soprattutto per consentire a Bering di provare gelosia e struggimenti. Un finale accelerato toglie affilatezza alla prima parte del libro, privandola della credibilità profonda che hanno gli incubi.
Lo stile di Ransmayr è, come in altre opere, letterario e molto consapevole, talvolta compiaciuto; invece di «asciugare» le pagine l’autore le innaffia generosamente immagini, un limite, questo, che ne Il mondo estremo si rivelava solo a tratti ma qui risulta più ingombrante; ne è un sintomo l’uso – francamente fastidioso – dei corsivi, anche quattro o cinque per pagina, per richiamare l’attenzione su parole-chiave che forse dovrebbero essere suggerite, non strepitate all’orecchio del lettore. Peccato.
Dopo queste critiche e messe in guardia, consiglio ugualmente la lettura del romanzo. Moor è un universo concentrazionario inconsueto e pieno di echi e l’argomento è talmente grande che merita il rischio di una delusione. Con tutti i suoi difetti, Il morbo Kitahara è una lettura difficile che va portata a termine, perché i temi della colpa e dell’impossibilità di dimenticare gli orrori subiti e perpetrati sono sempre terribilmente attuali:dalla Seconda guerra mondiale gli orrori che spaccano società un tempo coese e restano nella mente dei sopravvissuti – perdenti e vincitori – come un distesa di macerie sulla quale niente può più crescere ed essere coltivato si sono moltiplicati a dismisura.
Christoph Ransmayr, Il morbo Kitahara, Feltrinelli, UE, 2017, pp. 320, Trad. S. Fanesi Ferretti
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