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    TerraNova

    Fatherland di Robert Harris

    • di Massimo Citi
    • Dicembre 5, 2018 a 7:49 pm

    Non ho idee di quanti di coloro che mi leggono avessero l’abitudine, nelle scuole medie o alle superiori, di chiedere al malcapitato insegnante di Italiano o di Storia e Filosofia: «Ma se nel 1917 gli austriaci fossero arrivati a Milano?» A parte l’ovvia considerazione che il caso citato avrebbe suscitato la felicità degli eventuali austriacanti tuttora in giro – leghisti vecchio stile compresi –, questo tipo di domande, che il recensore amava molto porre, erano generalmente molto mal accolte dal docente che si limitava a bofonchiare frasi ovvie come: «La storia non si fa con i se».

    Ecco, questo libro parte esattamente dal presupposto che uno dei quei fatidici «se» sia divenuto realtà ovvero Storia con la «S» maiuscola. Come si evince già dal titolo – tratto dal tedesco Vaterland (Patria), di pronuncia praticamente identica – l’ipotesi di partenza è che la Germania abbia vinto la 2ª Guerra Mondiale e che un Hitler settantacinquenne si accinga ad incontrare nel 1964 Joseph Kennedy, rieletto al termine del primo mandato, nel corso di un processo di distensione che vede il riavvicinamento delle due maggiori potenze nucleari mondiali. Inevitabile che la mente corra subito ad altri due libri che hanno fatto dello stesso tema ucronico il centro della propria narrazione. Il primo è La svastica sul sole (tit. orig.: The Man in the High Castle) di Philip K. Dick (qui la recensione a suo tempo pubblicata) e Il complotto contro l’America (tit. orig.: The Plot against America) di Philip Roth (qui la recensione). Due libri che hanno trattato – inevitabile ammetterlo – in modo nettamente più drammatico lo sviluppo alternativo della storia.

    Se è certo che la storia non si fa con i «se», la politica solo di essi si nutre e il primo rischio che corre il libro di Harris è quello di riassumere in forma narrativa una tesi cara a molti storici «revisionisti»e sposata dall’estrema destra, una tesi sostenuta da qualche personaggio almeno dignitoso come Ernest Nolte fino a pagliacci in camicia bruna come David Irving, cioé la sostanziale identità di ogni genocidio, cosa che evidentemente accomuna impropriamente lo Stalinismo al Nazismo e tutti e due allo sterminio dei popoli amerindi avvenuto nel XIX secolo. Il libro riesce a evitare con eleganza il rischio, soffermandosi assai poco sulle forme statuali del Nazionalsocialismo vittorioso, limitandosi a sottolineare alcuni aspetti già molto evidenti quantomeno leggendo Storia del Terzo Reich di Shirer, ovvero la concorrenza tra le diverse strutture civili e militari, gli intrighi, i personalismi, le inefficienze, la corruzione commista e giustificata con il fanatismo, senza dedicare, se non poche e frettolose righe alla sistemazione post-bellica dell’Europa, lasciando nel vago modi e motivi della distensione in atto.

    Una volta dato questo quadro, la vicenda si snoda secondo gli stilemi della spy-story, animata da un personaggio maschile non eccessivamente originale ma ben delineato, un ex-sommergibilista divenuto Sturmbahnführer (tenente) della Kri(minal) Po(lizei). Un individuo deluso, scettico e assai poco accessibile alla propaganda del regime, angustiato da una situazione familiare ingrata e turbato da vaghi sospetti e dubbi angosciosi sulle famiglie ebraiche «partite per l’Est».

    Con lo svilupparsi della vicenda, tuttavia, la sensazione di irrealtà diviene più forte, non tanto per il tipo di mondo descritto, ma per l’apparentemente incrollabile fiducia dell’autore nella democrazia americana. Senza voler raccontare troppo della trama, è verosimile che un processo di distensione qual è quello descritto nel romanzo possa essere compromesso dalla scoperta degli stermini nei KZ (Konzentration Läger)? È credibile che l’azione di pochi individui onesti possa incrinare profondamente l’ordinamento di un mondo dotato di un equilibrio ormai definito e basato sulla prospettiva di un interscambio crescente?

    L’America secondo P.K.Dick

    L’uso, in questo contesto, dei documenti che comprovano lo sterminio rischia di risultare irritante, al di là delle buone intenzioni dell’autore. Il loro affacciarsi nella narrazione determina un riflesso condizionato di orrore che, proprio perché condizionato, finisce per apparentarsi maggiormente ai titoli da scatola dei rotocalchi che a un tentativo di capire e spiegare uno dei fenomeni centrali del secolo passato. In ogni caso lo Sterminio degli Ebrei (e dei comunisti, degli zingari, degli omosessuali) fu avviato dal dicembre 1941, ovvero quando la Wehrmacht fu fermata alle porte di Mosca, lasciando intuire per la prima volta un possibile finale diverso alla guerra. Lo sterminio di tutti coloro che erano nemici del Reich nacque probabilmente come delirante reazione a una guerra che non andava più secondo i piani di Hitler. Ma se la guerra fosse andata «bene» per i tedeschi, quale sarebbe stato lo sviluppo dell’Olocausto?

    Certamente l’autore non avrebbe potuto cimentarsi nella definizione dell’ideologia imperante in un mondo che abbia visto la Germania Nazista vincere o perlomeno non perdere la guerra, pena la caduta di tensione e di ritmo della narrazione, ma inevitabilmente viene alla mente il confronto con La svastica sul sole nel quale l’incubo di un’ideologia e di un regime è talmente totalizzante da determinare interamente i comportamenti personali e privati ed è delineato con lucidità tale da compromettere la convinzione del lettore di vivere in questo mondo. Confronto ingrato, si dirà, tra un discreto artigiano e un genio atipico, ma introdotto solo per stabilire il limite fondamentale di Fatherland: la mancanza di potenza evocativa e l’incapacità di convincere.

    Nonostante la convinzione comune la Storia non ama le semplici ripetizioni e solo un occhio molto superficiale può trovare punti di contatto reali tra l’attuale mondo e quello dei primi anni ‘30, ovvero un mondo appena uscito da una guerra che provocò la morte di dieci milioni di persone e oltre ventun milioni di feriti. In tempi di cambiamento può essere di conforto esorcizzare gli incubi o ricorrere al passato per giudicare il futuro, in sostanza l’operazione attuata in questo libro. Leggerlo è senz’altro divertente, ma solo avendo ben presente che il futuro, qualunque esso sia, sarà inevitabilmente molto diverso dal passato e i poveri mezzi di un’analisi storica affrettata e incompleta proiettata sui giorni a venire non ci saranno d’aiuto a vivere – o a sopravvivere.

    Robert Harris, Fatherland, Mondadori Nuovi Bestseller, 20172, pp. 350, € 12,00, trad. Roberta Rambelli

    Idem, e-book, € 7,99

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