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    TerraNova

    La svastica e la Casa Bianca

    • di Massimo Citi
    • Novembre 21, 2012 a 1:14 pm


    Mio cugino fin verso i dodici – tredici anni è stato un collezionista di francobolli. Uno di quei collezionisti silenziosi e tenaci capaci di perseguitare un lontano parente o un conoscente casuale soltanto perché il malcapitato era in possesso di un francobollo (a suo giudizio) molto raro.

    La sua collezione era ricca e disordinata, nonostante gli sforzi per domarla, e vantava, tra gli altri, alcuni piccoli francobolli verdastri, grigio spento e rosso ruggine deturpati da scritte o fregi allora per me di ardua decodifica. Scritte come ad esempio R.S.I. Francobolli italiani e francesi, coloniali e d’occupazione, stampati nel corso dell’ultima guerra, dell’immediato dopoguerra o di qualche episodio semidimenticato e peregrino della storia italiana.
    In qualità di cugino più piccolo di ben quattro anni avevo il semplice diritto di guardare ma non toccare, di contemplare i francobolli in silenzio ma senza tentare di estrarli dalle bustine o dalle taschine degli album. Quei francobolli scialbi e deturpati, nella mia infantile ingenuità, pensavo valessero poco, e comunque molto meno di quanto valevano i francobolli coloratissimi della Repubblica di San Marino o quelli a losanga o triangolo isoscele di qualche sperduta nazione africana.
    Naturalmente mi sbagliavo.
    Ma i francobolli del cugino mi sono venuti subito in mente quando ho visto la copertina del libro di Roth. Un francobollo degli U.S.Postage da 1 cent sovrastampato con la svastica nazista. Una copertina, ho subito pensato, che sarebbe stata perfetta per The Man in the High Castle di Philip K. Dick, se solo qualcuno ci avesse pensato.
    I francobolli sono un elemento tangibile della realtà politica, un trascurabile oggetto quotidiano che contrassegna indelebilmente gli eventi politici di grande rilievo. Un francobollo americano sovrastampato con la svastica nazista riesce a creare – ammettiamolo – una sensazione di disagio non facile da dissipare.

    Philip Roth

    Philip Roth non è un autore di sf né di fantastico. Le sue narrazioni (tra le più note: Il lamento di Portnoy, Pastorale americana, Zuckerman scatenato) vertono sul rapporto, complesso e conflittuale, tra la cultura tradizionale ebraica e la società americana. Al centro dei suoi romanzi personaggi problematizzati, vessati da contraddizioni insanabili, in preda a nevrosi sessuali impossibili da normalizzare. In genere intellettuali, talvolta scrittori, tutti saldamente incapsulati – volenti o nolenti – entro famiglie solidali e onnipresenti, affettuosamente ricattatorie e impossibili da rimuovere.

    La tragedia, la frattura insanabile, nei romanzi di Philip Roth, è spesso «tragedia di un uomo ridicolo», rigetto dell’eredità ideologica e morale della famiglia, infedeltà e tradimento verso la cultura ebraica della quale la famiglia è interprete.
    Ne Il complotto contro l’America la cultura ebraica delle famiglie americane si presenta irrimediabilmente sdoppiata. A una cultura «perdente», quella democratica e roosveltiana della famiglia Roth, si contrappone una cultura ebraica «vincente», ambigua e compromessa con il potere, incarnata dal rabbino Bengelsdorf, sostenitore del nuovo presidente americano eletto nel 1940: Charles A. Lindbergh.

    Ogni mattina, a scuola, giuravo fedeltà alla bandiera della nostra patria. Ne cantavo le meraviglie con i miei compagni durante i programmi collettivi. Ne osservavo con entusiasmo le feste nazionali, e senza ripensamenti sul mio feeling per i fuochi artificiali del Quattro Luglio o il tacchino del Ringraziamento o le due partite del Decoration Day. La nostra patria era l’America.
    Poi i repubblicani nominarono Lindbergh e tutto cambiò.

    Protagonista e io narrante del romanzo un bambino di sette anni, Philip Roth, appassionato collezionista di francobolli.
    Philip è testimone, curioso e incerto più che spaventato, del crescere dell’intolleranza antisemita in un’America rimasta neutrale mentre la Germania nazista dilaga in Europa. Gli Stati Uniti guidati da Charles Lindbergh firmano un trattato di non aggressione con le potenze dell’Asse (il trattato d’Islanda), organizzano soggiorni in campagna per i giovani di famiglia ebraica per «rieducarli» e «favorire l’integrazione» – soggiorni che ricordano sinistramente la Kraft durch Freude nazista –, fanno pressione sulle aziende perché impongano ai datori di lavoro il trasferimento del personale di origine ebraica allo scopo di smembrare le comunità giudee dell’Est americano. Philip prende coscienza poco a poco di far parte di un gruppo umano ritenuto pericoloso per l’America.

    I tre gruppi più importanti che hanno spinto questo paese verso la guerra sono gli inglesi, gli ebrei e l’amministrazione Roosvelt. […] Gli ebrei, per ragioni comprensibili dal loro punto di vista ma inaccettabili dal nostro, per ragioni che non sono americane, vogliono trascinarci nella guerra. (Discorso di Charles Lindbergh, «Chi sono i propagandisti della guerra?», tenuto l’11 settembre 1941 alla manifestazione di Des Moines dell’America First Comitee).

    Charles Lindbergh

    L’amministrazione Lindbergh chiama alle proprie dipendenze il rabbino Bengelsdorf, un esponente di quegli ebrei «lungimiranti» e contrari all’intervento americano in Europa che Lindbergh aveva citato nel discorso di Des Moines – discorso avvenuto oltre che nella realtà controfattuale del romanzo di Roth, anche nella realtà fattuale del xxsecolo – riportato integralmente in calce al romanzo.

    La politica neutralista e antisemita del governo americano crea resistenze, polemiche, proteste. La destra repubblicana e American First («L’America per prima») urlano al complotto antiamericano. Il governo preme per l’epurazione dei guerrafondai dai mezzi di comunicazione. La democrazia americana è sempre meno «democrazia» e sempre più «americana» (non vi ricorda nulla?). Gli esponenti più in vista dell’opposizione subiscono minacce, perdono il lavoro, vengono isolati e perseguitati.
    Philip, sempre più allarmato, vede la situazione familiare degradarsi. Il cugino ritorna dall’Europa, dov’era andato a combattere per difendere la democrazia, mutilato e sconvolto. Ben presto «epurato» in quanto ebreo ed ex combattente al fianco dei nemici dell’America abbandonerà la famiglia. Il padre di Philip sarà costretto ad accettare un lavoro pesante e malpagato pur di non essere costretto a emigrare nel Middle West. Il fratello maggiore, Sandy, perfettamente «rieducato» diverrà la maledizione della famiglia, il difensore di un modello di vita e di politica insopportabile per i Roth.
    L’omicidio di un candidato interventista alle elezioni presidenziali farà poi precipitare una situazione divenuta incandescente e nel 1942 gli Stati Uniti vivranno nuovamente giorni caotici e feroci di guerra civile.

    Il semplice segreto della potenza narrativa (e politica) del romanzo di Roth è nella scelta del protagonista, un bambino sveglio e vivace ma che non riesce a comprendere appieno le dimensioni della tragedia storica che gradualmente sta obbligando la sua famiglia a una vita da perseguitati. I Roth scoprono che il governo li ritiene ebrei primache americani, portatori di una pericolosa «doppia identità». Un percorso che per milioni di ebrei europei fu l’anticamera del campo di sterminio. Ma la «questione ebraica» resta una locuzione incomprensibile per il piccolo Philip, che non si è mai soffermato sulla propria identità etnica.
    La definizione della categoria «ebrei» è un incantesimo maligno e inarrestabile, un metaconcetto che crea una frattura nella società civile e con il quale anche chi è ostile all’amministrazione Lindbergh deve fare i conti. Difendere «gli ebrei» come categoria è infatti riconoscere implicitamente questa frattura, non riuscire a ritornare al punto di partenza, quando gli «ebrei» non erano ancora altro rispetto al complesso della società americana e non ancora definiti come portatori di un interesse separato.
    Ciò che riesce difficile comprendere per chi è nato anni dopo la fine della seconda guerra mondiale – il diffondersi dell’intolleranza, la nascita del sospetto e della paura, la complicità, la delazione, i piccoli e grandi compromessi, i tradimenti – nel romanzo di Roth viene gradualmente e pazientemente ricostruito, come nell’esperimento in vitro di un olocausto possibile.


    L’America non è mai stata immune dall’intolleranza, dal fanatismo, dal pericolo di una democrazia che si automutila nel nome degli «interessi nazionali». American First è stata sciolta all’indomani del bombardamento di Pearl Harbour, ma il suo messaggio di fanatismo e intolleranza è ben vivo e presente. L’isterica paura della diversità rivive oggi – grottesca e maniacale – nelle parole d’ordine della destra americana più retriva e brutale, nei libri di Ann Coulter, l’Oriana Fallaci della nuova destra statunitense, che riabilita il senatore McCarthy e accusa i democratici di tradimento.

    A distanza di trent’anni da The Man in the High Castle di Philip K. Dick, riappare il fantasma letterario del fascismo americano, rappresentato con paziente scrupolo, disegnando personaggi e organizzazioni politiche – reali e «possibili» – di una galassia politica americana tanto simpatizzante per il nazismo da risultare quasi indistinguibile da esso.

    Il nostro presidente non ama gli ebrei e più che probabilmente è un fanatico antisemita […] Il nostro presidente è un ammiratore di Adolf Hitler e più che probabilmente è lui stesso un nazista…

    fa dire Philip Roth a Fiorello La Guardia, storico sindaco di New York, nella parte più rovente e congestionata del romanzo, quando il personaggio di Philip viene temporaneamente abbandonato per seguire il drammatico racconto del precipitare della situazione.
    Si tratta di letteratura, è ovvio, di fantasie basate su pochi fatti reali. Ma pur sempre «qualcosa» che mette i brividi.
    Se volete riconciliarvi con gli Stati Uniti, la loro storia e i loro autori non perdetevi questo libro di Roth. Eccessivo, partigiano, a tratti quasi imbarazzante nella sua animosità è il ritratto di un’altra America che sembrava gradualmente destinata a scomparire alla nostra vista, eclissata dall’aggressività imperiale delle amministrazioni Bush e dai Tea Party di Sarah Palin e Mitt Romney.

    Philip Roth, Il complotto contro l’America, Einaudi 2005, ed. or. 2004, pp. 410, € 18,50, trad. Vincenzo Mantovani

    Idem, Einaudi e-book, pp. 416, € 6,99 

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