Theodore Sturgeon (1918-73), americano, è un autore scomodo perché osa affrontare temi ritenuti tabù anche dai grandi nomi del mainstream. I personaggi dei suoi romanzi e racconti non sono buoni, spesso nemmeno simpatici, certamente mai tranquillizzanti. Sono individui che possiedono talenti più grandi di loro ma mancano di abilità considerate basilari dalla società, che sanno «aggiustare» le persone ma sono disposti a «romperle» pur di non essere abbandonati, adolescenti stravaganti che, forzati a crescere e a normalizzarsi, intuiscono improvvisamente il senso e la mancanza di senso della vita, bambini egoisti nascosti nel corpo di un adulto. Sono i nostri vicini di casa. Sono noi.
Individui come George Smith, il soldato rimpatriato di corsa durante una guerra non precisata (potrebbe essere quella di Corea) per disturbi gravi del comportamento e aggressione a un superiore. Lo strano caso del soldato Smith viene segnalato al giovane Philip Outerbridge, ufficiale di fresca nomina e psichiatra talentoso, dal suo superiore, un colonnello di buon senso convinto che l’esercito abbia già abbastanza gente da guarire nel corpo e nella testa per occuparsi anche dei soldati avventati. Dispostissimo a dimetterlo, Phil cerca di farsi spiegare da George perché abbia mollato un cazzotto al suo maggiore e si trova di fronte un muro. Forse ciò che Smith rifiuta di raccontare in prima persona sarebbe disposto a scriverlo in terza? Sì, George è disposto. La storia della sua vita – narrata con obiettività e una vivacità di espressione insospettata in quel goffo ragazzone di provincia – è davvero illuminante: il povero George, figlio di immigrati ungheresi che parlavano a malapena l’inglese, è stato vessato da un padre ignorante e violento e poco protetto da una madre vittima del marito e malaticcia, morta letteralmente di stenti; il ragazzo ha vissuto serenamente soltanto nel riformatorio dov’è stato spedito per furto e dove ha studiato, rispettato le regole e svolto con soddisfazione i compiti assegnati. La storia del soldato Smith è triste ma «normale», simile a quella di tantissimi altri ragazzi che, come lui, hanno trascorso l’infanzia in credito con il mondo, infelici, privi di affetto e di opportunità, trovando pace soltanto in strutture «rigide». Ragazzi che, incapaci di vivere nel mondo dei civili, cercano nell’esercito regole da seguire, adulti autorevoli e compiti precisi da svolgere.
Sì, Phil conosce bene questi casi umani. George potrebbe essere uno di loro. Se non fosse per piccoli particolari oscuri della sua storia tanto ben raccontata come la sua abitudine di rifugiarsi nei boschi, il suo modo per sfuggire alle rabbie del padre ubriaco. Nei boschi George «caccia» conigli, marmotte, scoiattoli, tassi… Le moffette no, perché sono schifose, e nemmeno i felini perché hanno tutti lo stesso sapore di «piscio di gatto». Anche le anatre vanno bene, gli altri uccelli invece no, sono tutti piume e poco altro. E i rettili: «non ci crederete ma i serpenti hanno un buon sapore, magari sanno un po’ di pesce ma non c’è niente di male nel pesce, l’unica cosa è che non è caldo». Eh sì, il pesce è un animale a sangue freddo.
Il vero problema, secondo Phil, è che per George la caccia non è un hobby, ma un bisogno, qualcosa che deve assolutamente fare, soprattutto quando è sottosopra, nervoso, nei guai. Come quando Anna, la sua ragazza, l’unica ragazza con cui sia mai stato, resta incinta.
Ma c’è qualcosa di male nel cacciare? No, ovviamente – Phil se ne rende conto benissimo. Però nella storia di George qualcosa non quadra. O forse è Phil che non quadra: troppo da fare, troppe teste da aggiustare, troppa gente che muore o che vede altri morire. Insomma: troppo lavoro e troppo poco tempo. Però la vicenda di Smith è davvero affascinante, e George, a suo modo, troppo un bravo figlio sfortunato per non essere aiutato. Se soltanto fosse disposto a rispondere a qualche domandina in più su ciò che fa quando va a caccia…
George è soltanto uno degli svitati di cui Theodore Sturgeon si prende cura, immaginandoli, seguendoli nel loro evolvere, raccontandoceli con delicatezza e senza giudicare, non obbligandoli a diventare «normali» per piacerci. Come tanti altri «figli» dell’autore, George non è né buono né rassicurante, a conoscerlo bene. Però, sempre a conoscerlo bene, è una persona capace di violenze e slanci, di diventare migliore – o peggiore – a seconda di come gli altri si comportano con lui. Il soldato Smith reagisce come una di quelle pianticelle ficcate al buio da un bambino dispettoso, sforzandosi di allungare rametti bianchi e sottili verso il sole che filtra da un buco nel muro. «Proviamo a dare a questo verde rachitico la luce che gli serve e stiamo a vedere che cosa succede», dice Sturgeon in questa come in molte altre sue opere. Certo, per farlo occorre sfondare la parete, creare un po’ di trambusto nel nostro bel condominio rispettabile ma, come diceva la nonna, non si fanno le frittate senza rompere le uova. Forse, così le nostre strade si riempiranno di creature strane e pericolose. Ma siamo noi, quelle creature: i personaggi di Sturgeon, per singolari che possano essere, per matti che possano sembrare, sono semplicemente, dannatamente umani, accidenti a loro.
Theodor Sturgeon, Qualche goccia del tuo sangue, Mondadori Oscar Horror, 1990, pp. 152, trad. R. Buccianti.
Theodore Sturgeon, Qualche goccia del tuo sangue, Urania Mondadori Horror 2005, pp. 160, trad. Rosalba Buccianti
Theodor Sturgeon, Un po’ del tuo sangue, Giano 2006, pp. 174, € 14,00 (disp. usato c/o IBS), trad. N. Gobetti
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