Leo Perutz (Praga 1882 – Bad Ischl 1957) è uno dei grandi autori mitteleuropei del Primo Novecento. I suoi romanzi sono brevi e possono sembrare soprattutto romanzi storici, accuratamente ambientati in luoghi e periodi «interessanti», come la Spagna delle campagne napoleoniche, la Boemia alle soglie della guerra dei Trent’anni, La Russia travolta dalla Rivoluzione d’Ottobre. In realtà le avventure vissute dai personaggi subiscono svolte inaspettate e quasi metafisiche che proiettano la sua narrativa in una dimensione «altra»; le storie che l’autore ci narra contengono – per usare le parole di Alan Piper – «un elemento di fantastico con un intreccio drammatico che mostra interpretazioni degli eventi confuse e contraddittorie».
L’influenza di autori come E. T. A. Hoffmann, Arthur Schnitzler e Victor Hugo è sottile ma tangibile e le sorprese per il lettore sono garantite. Un esempio fra tanti: nel romanzo La neve di San Pietro – edito nel 1933 mentre il nazismo saliva al potere e ambientato in quello che allora era il presente – l’autore narrava di una sostanza allucinogena utilizzata da un barone legittimista e fanatico per indurre un rinnovato fervore religioso negli abitanti di un borgo sperduto; tuttora di difficile collocazione (fantascienza, fantasy, noir?) il romanzo, non solo adombra gli effetti dell’LSD con almeno una decade di anticipo ma trascina il lettore in una vicenda onirica e tortuosa ma anche profondamente politica.
Pubblicato per la prima volta nel 1953, Di notte sotto il ponte di pietra descrive chiaramente una serie di eventi che portarono alla sconfitta della Boemia da parte dell’Austria nella battaglia della Montagna Bianca nel 16° secolo. Ma la cornice storica, per quanto suggestiva, è soltanto uno dei pregi del libro: considerato il capolavoro di Perutz, il testo è una collezione di quattordici brevi storie intrecciate da un gioco quasi magico di contrappunti e analogie, permeate di tradizione yiddish ma anche dello spirito affabulatorio e senza tempo delle Mille e una notte. L’opera si svolge a Praga all’epoca di Rodolfo II, poco prima dell’inizio della Guerra dei Trent’anni, ed è ricca sia di personaggi storici, sia di figure provenienti dalle leggende ebraiche, sia di caratteri reali sui quali però la fantasia ha lavorato a lungo: Rodolfo II, Rabbi Loew, Mordechai Meisl e la sua bellissima moglie Esther, il giovane futuro arciduca Albrecht Wallenstein, Johannes Kepler, astronomo e riverito astrologo di corte, il valletto di camera dell’imperatore Philippe Lang, l’alchimista Jacobus van Delle e il suo amico Brouza il folle. Su tutte le vicende domina il rapporto indissolubile e ambiguo tra il corrotto Rodolfo II e Meisl, portatore di un talento finanziario che gli dona una ricchezza senza fine; legati fin da ragazzi dal viaggio fortunoso di una moneta da un tallero, i due non possono sopravvivere uno senza l’altro: Rodolfo II ha bisogno del denaro di Meisl per finanziare le proprie stravaganti collezioni artistiche e Meisl, il signore della città ebraica, può prosperare soltanto sotto la protezione di Rodolfo.
La Praga del racconto è ispirata dalla città nella quale Perutz visse da bambino, prima che la famiglia si trasferisse a Vienna, sua patria culturale:
…verso l’inizio del secolo, quando avevo quindici anni e frequentavo il liceo, vidi la città ebraica di Praga per l’ultima volta […] Ed essa resta nel mio ricordo tale e quale la vidi allora: vecchie case pigiate le une sulle altre, case all’ultimo grado di disfacimento con sporgenze e aggiunte che incombevano sulle stradine strette, vicoli tortuosi nei cui dedali mi capitava di perdermi senza speranza, se non ci facevo attenzione. Passaggi oscuri, cortili bui, brecce nei muri, volte simili a caverne, dove i rigattieri vendevano le loro merci, pozzi e cisterne nelle quali l’acqua era infetta a causa della malattia praghese, il tifo – e nelle nicchie più piccole, a tutti gli incroci, una bettola dove si ritrovava la malavita praghese. Sì, io conoscevo bene la vecchia città ebraica…
Praga è città doppia (il tema del doppio torna insinuante in tante opere dell’autore), quella del Castello che svetta arrogante, con la sua vita di corte corrotta e autoreferenziale, e quella della città ebraica, dove Rabbi Loew, dotato di poteri che gli vengono da Dio e dalla conoscenza della Cabala, mantiene a caro prezzo l’equilibrio del mondo senza dimenticare l’umanità di ognuno. Realtà quotidiana, simboli universali e il senso sempre presente del Destino si intrecciano fra le storie: l’amore vissuto solo in sogno da Esther e Rodolfo, i bimbi fantasma richiamati dal profumo del «purè di mele aromatico, il dolce cibo della Pasqua», due cani che dialogano fra loro di fronte all’ebreo Berl, sapiente e sfortunato che, per un errore insinuatosi in una formula magica, riesce improvvisamente a comprenderli, le vicende amorose di un giovane e ancora provinciale Wallenstein, i faticosi impegni da astrologo del grande Kepler… le vicende dei grandi e di tanti personaggi minuti, vengono narrati da Perutz con un linguaggio dove la poesia si mescola a un sottile umorismo mitteleuropeo. La saggezza del rabbino – che per salvare il suo popolo è costretto prima a favorire e poi a condannare l’amore tra due mortali – non è nulla rispetto al sapere e alla potenza di un Angelo. Eppure neanche l’Angelo, che conosce «i sentieri del mondo superiore ma a cui erano diventate estranee le vie del cuore umano», riesce a dimenticare la bellezza e l’amore.
I racconti del libro, come tutti i romanzi di Perutz, vivono di dicotomie e di mescolanze: i morti e i vivi, il sogno e la realtà, la ricchezza e la miseria, la bellezza che non si può acquistare e le follie compiute per comprare la bellezza. Tutte le storie sono avvincenti, indimenticabile La sarabanda, una dimostrazione di umana meschinità alla quale Rabbi Loew mette fine trascinando il lettore in una dimensione magica e insieme terribilmente storica:
Su questo muro, con la sua forza magica, dalla luce lunare e dalla muffa, dalla fuliggine e dalla pioggia, dal muschio e dalla malta, fece sorgere un’immagine. Era un «Ecce homo». Ma non era il Salvatore […] No, era un Ecce homo di tipo diverso.

Leo Perutz
Profondamente mitteleuropeo per cultura e amicizie, Leo Perutz amò talmente la lingua tedesca da non rinnegarla mai, nemmeno quando divenne la lingua del nemico nazista; convinto che la Repubblica parlamentare di Weimar, colta e democratica, fosse una via di salvezza per l’Europa, dovette fuggire dall’Austria quando il suo sogno di una riunione tra Vienna e il polo culturale tedesco si trasformò nell’incubo dell’Anschluss. È difficile per il lettore dimenticare la potenza imperiosa e la pietà del rabbino e l’immagine di Umanità violata creata su quel muro. Davvero meritevole di lettura la postfazione di Marino Freschi.
Leo Perutz, Di notte sotto il ponte di pietra, edizioni e/o, «Gli intramontabili» 1988 e 2017, € 16,00, trad. B. Talamo
Idem e-book, € 9,99
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