Had you fought like a man, you need not have been hang’d like a dog. [Se tu avessi saputo combattere come un uomo, oggi non saresti ridotto ad essere strozzato come un cane]. (Anne Bonny a John Rackam 1720)
Penso che sia piuttosto malinconico essere relegate qui, giorno dopo giorno, con tre bambini cui badare. Vorrei proprio sapere se a te piacerebbe. (Myra Weeks, moglie di un comandante di baleniera, 1842)
Mai da quando siamo partiti ho visto nulla di simile o sono stata testimone di uno spettacolo tanto sublime. (Mary Brewster, a bordo della baleniera Tiger, 1846)
Come facevano i marinai nei secoli scorsi a vivere senza compagnia femminile per mesi e mesi? Quella suggerita dalla canzone di Dalla e De Gregori è una delle tante possibilità; altre poggiano sulla più o meno meritata fama di donnaioli impenitenti dei marinai che, pur facendo a meno delle donne in mare, si sarebbero rifatti ampiamente in ogni porto visitato. Gli aneddoti, i consigli delle nonne e le antiche ballate non lasciano dubbi in proposito:
Quando sono a terra, vanno a zonzo come più gli piace; Su e giù nelle città costiere fanno la corte a giovani e vecchie; Sono ingannatori; non credete alle lusinghe dei marinai.
Dice un’antica ballata di Greenwich.
David Cordingly nel suo libro Women Sailors and Sailor’s Women suggerisce una risposta meno scontata: non ne facevano a meno, punto e basta. Molti, sapendo sulle tradizioni marinare settecentesche e ottocentesche poco più di quanto raccontano i film hollywoodiani, sono convinti che i veri marinai fossero come il Mel Gibson di Bounty o il Walter Matthau di Pirati di Polansky e che le uniche donne a bordo fossero belle tahitiane in visita occasionale o nobili pulzelle rapite da corsari senza scrupoli; ma le cose non stavano esattamente così. Se di corsare belle e decise come la giovane che, nel finale di La maledizione della prima luna, consegna la Perla Nera a Johnny Depp se ne ricordano giusto un paio, la presenza di donne a bordo di mercantili, vascelli corsari, baleniere e navi da guerra non era troppo rara.
Lo documenta con abbondanza di materiali il saggio di Cordingly, a suo tempo pubblicato da Piemme con il titolo Donne corsare (trad. Franca Genta Bonelli). Il titolo italiano è francamente una scelta sciagurata, volutamente fuorviante rispetto all’originale (Donne marinaio e donne dei marinai) che enuncia chiaramente i due argomenti indagati dall’autore: le donne che prestarono servizio sulle navi e le donne – madri, mogli, sorelle, figlie, amanti, prostitute – che aspettavano ritorno dei marinai in porto. Chi cercasse notizie sulle poche donne pirata tanto famose da essere ricordate troverà un solo capitolo, il quinto, dedicato (e soltanto in parte) a Mary Read e Anne Bonny, corsare belle e temerarie che tennero in scacco la marina inglese rivelandosi più toste degli uomini con cui navigavano e riuscendo perfino a scampare la forca. Ma delle due signore si parla in numerosi testi e siti internet, basta cercare. L’interesse del saggio di Cordingly, sta altrove, nella documentazione puntuale ed esaustiva sulla scelta di molte donne di vivere, nei secoli xxviii e xix, in un mondo di soli uomini rinunciando alla famiglia, alla compagnia delle loro congeneri e alla maternità.
Giovani, spesso giovanissime, le donne salivano a bordo essenzialmente per due ragioni: sfuggire agli stenti o ad altre situazioni insostenibili (matrimoni infelici, prostituzione, arresto) e restare vicine ai loro compagni. Soltanto come mogli di ufficiali o, più raramente, di sottufficiali potevano dichiarare la loro identità; allora, purché fossero meno di quattro o cinque per nave, la Marina o gli armatori le tolleravano e le nutrivano in cambio di servizi di lavanderia, sartoria, infermeria. Tutte le altre donne salivano a bordo di nascosto e fornendo generalità maschili, aiutate dalla loro somiglianza con giovani mozzi imberbi e dagli abiti tipici dei marinai (casacche larghe, pantaloni informi, talvolta rozze gonne). La diversa fisiologia, ovviamente, creava loro numerose complicazioni nell’uso dei servizi igienici e durante il ciclo mestruale ed è davvero miracoloso come molte siano riuscite a nascondere la loro vera identità per mesi e spesso per anni, dormendo insieme agli altri marinai in stive affollate e prive della minima privacy, come fece Hannah Snell che, attorno al 1740, prestò servizio per quattro anni e mezzo come fante di marina su una nave da guerra inglese. Ma ci riuscirono, e a «tradirle» furono di solito incidenti gravi come cadute dall’alberatura o, sulle navi da guerra, ferite riportate in battaglia; alcune riuscirono a nascondere la loro femminilità persino ai medici, rifiutando cure troppo «intime», e si rivelarono soltanto al termine del servizio, ai compagni per godersi le loro facce sbigottite e alle autorità per fare domanda di pensione.
In condizioni normali, le donne accettate sulle navi accudivano gli uomini esattamente come avrebbero fatto a casa, con la piccola differenza che i «loro cari» erano molto più numerosi, decine o anche centinaia, sulle navi più grandi… Ma quanto durava, in mare, la «normalità»? Tempeste, lunghe bonacce, epidemie, perdita della rotta, morte o incapacità dei domandanti di svolgere i loro compiti, combattimenti… Ce n’era per tutti i gusti e, durante le emergenze chiunque a bordo poteva essere chiamato a compiti che mai si sarebbe sognato di affrontare. Fa piacere poter dire che, in quei casi tutt’altro che rari, loro, le donne, furono davvero all’altezza; valgano per tutti due esempi: Mary Patten, moglie diciannovenne del comandante del Neptune’s Car – un clipper modernissimo per l’epoca – che, quando il marito si ammalò gravemente al largo di capo Horn, riuscì a ricondurre la nave a pieno carico e il suo equipaggio a San Francisco in condizioni meteorologiche molto difficili; Lady Cochrane – imbarcata sulla nave del marito, comandante della flotta cilena durante la lotta del Cile per l’indipendenza dalla Spagna – che in pieno combattimento navale non esitò a dare il proprio contributo:
Durante il conflitto Lady Cochrane rimase sul ponte. Vedendo che un cannoniere esitava a fare fuoco con il suo cannone […] prese la mano del cannoniere e, spostando la miccia, fece fuoco…
La vita in mare, comunque, era una faccenda complicata anche in condizioni di pace e con il vento in poppa. Ne sapevano qualcosa le mogli dei comandanti di baleniere, alle quali – in considerazione delle lunghissime assenze dei mariti – veniva concesso il privilegio (si fa per dire) di accompagnarli a bordo, talvolta anche con la prole. Per mesi non vedevano la famiglia e non potevano godere della compagnia di altre donne, le settimane e i mesi trascorrevano monotoni, le tempeste duravano giorni e giorni e, per usanza consolidata, il loro «regno» era limitato a un quartierino di tre stanze a poppa. Per svagarsi le signore potevano cucire (e ovviamente rammendare i panni dei marinai), curare le indisposizioni dell’equipaggio e sedere sul ponte guardando l’orizzonte. Poco, forse, eppure – a leggere le due citazioni iniziali – pare che il viaggio valesse davvero la pena: sempre meglio che stare a casa… e poi, vuoi mettere il paesaggio!
E le donne che rimanevano in porto? Nemmeno per loro la vita correva via piatta. Lo dimostrano il primo capitolo, dedicato alle donne dei porti (imperdibili le descrizioni d’epoca, piena di doppi sensi «nautici», delle specialità amatorie delle prostitute) e il capitolo tredicesimo, dedicato alle donne dei fari. Mogli o figlie degli addetti ai fari, parteciparono o salvarono da sole decine di uomini dispersi in mare e spesso «ereditarono» il faro alla morte del congiunto. La loro era una vita dura, scandita da sveglie obbligate durante la notte per rabboccare l’olio delle grandi lampade e dalla cura continua delle lenti e degli ingranaggi. Indovinate com’era il loro stipendio a parità di impegno e di esiti? Esatto: minore di quello percepito dai colleghi maschi. Incredibile, vero?
Eh sì, discriminazioni e pregiudizi sono duri a morire. Per esempio, che cosa disse, nel marzo 1869, un marinaio in procinto di annegare durante un naufragio al largo del faro di Lime Rock vedendo avvicinarsi la barca della guardiana del faro Ida Lewis: «È solo una ragazza!». Invece di spingerlo sotto come si sarebbe meritato, Ida lo afferrò per i capelli mentre già stava sparendo sotto le onde e lo trascinò nella barca.
Avvincente come un romanzo, ricco di informazioni sulla vita in mare e nei porti e fornito di ampia bibliografia, il saggio di Cordingly ha il solo difetto di una certa dispersività; a essere davvero pedanti, concede un po’ troppo spazio a «eroi» del calibro di Orazio Nelson, raccontandone la vita con l’intento/pretesto di parlare delle loro compagne. Comunque lo fa in maniera vivace e senza fronzoli, cancellando finalmente l’immagine patinata da colossal cinematografico di Orazio e di Emma Hamilton per raccontarci di un signore secco e precocemente ingrigito, logorato dal mare e dalle responsabilità e di una ex bella donna, ingrassata ma con un viso ancora stupendo, piena di grinta e vitalissima, che si piacquero a prima vista, si scelsero per sempre e riuscirono a restare vicini al marito di lei, Lord Hamilton sino alla sua morte.
David Cordingly, Donne Corsare, Piemme 2004, pp. 397, trad. Franca Genta Bonelli, disp. esclusivamente come usato
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