A volte, frugando negli archivi della rivista si trovano piccoli tesori, recensioni che hanno se non altro il grosso merito di dimostrare che certi problemi non sono stati messi sul tavolo l’altro ieri. Sono anni, molti anni, che se ne parla, che persone di preparazione differenti, che svolgono attività diverse, che hanno persino orientamenti politici e visioni del mondo differenti, hanno cominciato a preoccuparsene. Eppure quella che abbiamo ormai imparato a definire “la politica” – quasi fosse una forza autodiretta ed estranea a noi – non li ha presi in sufficiente considerazione. E adesso, spinti sotto il tappeto del salotto buono, hanno finito col puzzare. Non possiamo più ignorarli. Ma abbiamo perso il treno per affrontarli in maniera certo non indolore ma almeno dignitosa e civile (S.T.).
Secondo un sindacalista inglese, un Mcjob è un lavoro: «che non qualifica, che non paga, che stressa, che esaurisce e che è precario».
Consumare uno spuntino veloce senza pretese e senza sorprese, fare la spesa, dedicare qualche ora allo shopping, possibilmente in un unico spazio al coperto, invece di correre affannati da un negozio all’altro zigzagando fra le auto. Dove soddisfare queste semplici necessità? Ma in uno dei tanti centri commerciali sorti negli ultimi anni, spesso alla periferia delle nostre città; sono luoghi ideali se cercate «prodotti» medi: scaffali e corridoi che traboccano di merci di qualità accettabile, riunite in grande quantità e sufficiente varietà, bar, gelaterie, un paio di sale gioco, qualche volta persino uno «spazio bambini» e diversi fast food. Ma chi le manda avanti queste cattedrali votate al consumo rapido e continuo? Chi carica e scarica merci negli ipermercati, chi vi batte lo scontrino, chi vi riempie il cono gelato, chi cucina il vostro cheeseburger e vi frigge le patatine?
Qui in Italia non avvertiamo ancora le profonde modificazioni del territorio urbano e suburbano e della realtà lavorativa provocate dal dilagare dei grandi centri commerciali. e della grande ristorazione in franchising. Negli States, invece, ai quali i nostri imprenditori continuano a gaurdare invidiosi e fiduciosi, le grandi catene commerciali sono realtà consolidate che da molto tempo penalizzano pesantemenete le fasce di lavoratori più basse, meno specializzate e meno sindacalizzate, esasperando la qualità della loro vita sino a provocare la ribellione.
Alla luce delle tendenze (anzi, dei trend!) in atto anche in Italia e delle ultime parole d’ordine del nostro capitalismo assistito, leggere i due libri che voglio presentarvi non è stata affatto una perdita di tempo.
Cominciamo da ChainWorkers. Lavorare nelle cattedrali del consumo (DeriveApprodi, 2001) a cura di Chaincrew, il breve saggio dal quale ho tratto la citazione iniziale e le seguenti (quando non diversamente specificato). Secondo gli autori, che gestiscono anche un sito al quale vi rimando, McDonald’s (MD) si è comprato tutti i Burghy italiani prima del 1998; gli Spizzico e gli Autogrill (come anche i GS e gli Euromercato) appartengono invece a Edizione Holding (gruppo Benetton). Quanto ai supermercati e ipermercati, la loro diffusione capillare è in atto da alcuni decenni: nella sola Milano troviamo attualmente «26 Esselunga, 14 Upim, 14 Standa, 14 GS, 13 Unes, 13 SMA, 12 PAM, 7 Oviesse, 7 Coop».
Mentre tentiamo di tenerci al passo leggendo saggi come No Logo, siamo giunti anche noi alle brand, invenzione degli anni ottanta, che comprende il prodotto ma non si esaurisce in esso: per dirlo con le parole di Shelly Lazarus, presidente e amministratore delegato di «Ogilvy & Mather», uno dei maggiori network del mondo «un brand non è solo pubblicità, ma un’esperienza totale. Che comprende la sensazione tattile, il packaging, il sito dell’azienda, il modo in cui gli operatori rispondono al numero verde, il nostro lavoro è gestire questa globalità»1. La brand è soprattutto uno stile, una disposizione mentale, un luogo della mente, prevalentemente metropolitano, con atmosfera da centro commerciale o da videoclip, non di rado «alternativo» e «trasgressivo» (pensate alle pubblicità di scarpe da ginnastica, jeans, birre e superalcoolici, auto…).
«Sempre meno brand controllano la vita di sempre più persone», sostengono gli autori del saggio, «precarizzando il lavoro al Nord e schiavizzando il lavoro del Sud»; dominano media ed eventi culturali (ad esempio sponsorizzando i concerti), producono musica e film, vendono stili di vita, non più (soltanto) merci: «“la Nike ritiene che il suo concorrente futuro sarà Disney, non Reebok” (portavoce della Nike Inc)».
Ma le brand non esisterebbero senza le grandi catene commerciali che, per la verità, non sono un’invenzione recente: Rinascente e Harrod’s risalgono agli anni venti e trenta dello scorso secolo, e allora si rivolgevano alle classi medio-alte, non alla massa di consumatori delle fasce medio-basse. La svolta avvenne negli anni cinquanta: il primo nuovo esemplare italiano, nato nel 1958 a Milano, era di proprietà della famiglia che controlla Esselunga. Il modello, però, trionfa negli anni ottanta e novanta, quelli del neoliberismo: il più grande centro commerciale degli States conta ora 400 negozi di catena, 12.000 lavoratori, 3.540 milioni di consumatori annui e, sotto l’enorme cupola di vetro, ospita anche un parco di 10 ettari. In Europa come negli States, questi mostri di vetro e cemento sorgono in periferia, lungo autostrade o superstrade, strategicamente accanto a ipermercati e fast-food. I principali frequentatori, oltre alle «allegre famiglie»2 in preda a frenesia da shopping, sono i giovani delle periferie: vi si rifugiano tagliando la scuola, trascorrono pomeriggi e serate facendo le vasche e lo struscio, consumano e, sempre più spesso, LAVORANO.
Il consumo è in costante crescita: nel 1970 gli statunitensi spesero 6 miliardi $ soltanto nei fast food, nel 2000 la cifra è salita a 110 miliardi $. A dividersi il mercato sono soprattutto McDonald’s (19%), Burger King e Taco Bell (8%) e Pepsi (5,2%). In Europa la parte del leone è di McDonald’s, attivo in tutti gli Stati dell’UE, che in Italia è cresciuto di quasi 14 volte tra il 1991 e il 2000.
A che cosa si deve questa esplosione? La prima carta vincente per le brand è il franchising che accolla al gestore quasi tutte le grane e il rischio di impresa e il rispetto di rigidi standard di servizio, riservando alla casa madre lo sfruttamento e la promozione dei prodotti. Le altre carte vincenti sono: efficienza, calcolabilità, prevedibilità e controllo.
In ogni McDonald’s, ad esempio, il cliente viene pilotato dall’appetito alla sazietà nel modo più rapido e redditizio, utilizzando persino la sua collaborazione: oltre a pagare il piatto, spesso gli è chiesto di riempirselo, di svuotare i rifiuti nel cestino e impilare i vassoi sulla rastrelliera. Ogni prodotto e ogni fase del lavoro dei chainworkers, (i lavoratori di catena) sono calcolati accuratamente: in tutti i McDonald’s del mondo un medaglione pesa sempre esattamente 1,6 once, (così da ottenerne 10 da ogni libbra di carne), il suo diametro è sempre 3,875 pollici, mentre quello del panino è sempre solo 3,5 pollici (così il medaglione deborda sembrando più grosso), i grassi non devono superare il 19% (in omaggio non alla salute del cliente ma ai profitti aziendali: se la percentuale è maggiore l’hamburger si restringe troppo durante la cottura). Da McDonald’s anche l’ambiente e il servizio sono prevedibili: coloratissimo e dotato di colonna sonora caramellosa ma mai troppo confortevole il primo (altrimenti i clienti sostano troppo tempo ai tavoli), amichevole il secondo: i chainworkers «devono» sorridere, salutare, prendere l’ordinazione, assemblare i piatti e consegnarli al cliente, ritirare i soldi, ringraziare, sorridere e suggerire di tornare. Nelle speranze della brand anche il comportamento del cliente dovrebbe essere prevedibile: ordinare il menù (più proficuo dei piatti singoli), pagare, portare il vassoio al tavolo, mangiare rapidamente, svuotare e posare il vassoio e sgombrare per far posto ad altri consumatori. Ovviamente, la componente umana, che nel caso dei fast food comprende circa tre milioni e mezzo di dipendenti (i peggio pagati degli States) è l’elemento più delicato e le brand cercano di ridurlo al minimo, automatizzando tutti i passaggi possibili (a Colorado Spring sta sorgendo il primo McDonald’s completamente automatizzato). Il chainworker tipo è giovane, anche se a causa delle politiche neoliberiste l’età media tende ad aumentare: da McDonald’s il 56% ha meno di vent’anni, il 27% tra venti e trenta, il 17% più di trenta. Il lavoratore è assunto di solito part-time, con un «contratto» che non prevede il pagamento degli straordinari e delle indennità di turno; è sottoposto al «lavoro a chiamata» che i sindacati hanno giustamente sempre combattuto: se il ristorante è pieno viene trattenuto oltre l’orario concordato, se è vuoto viene spedito a casa prima del tempo; l’orario settimanale negli States è circa 30 ore settimanali, in Italia sulle venti. La paga di un part-timer è spesso la metà di quella di un full-timer, con una media annuale intorno ai 10.000 $ (sempre che riesca a resistere un anno!). Dove non giunge l’automazione giunge il controllo dei «manager»: uno o dieci dipendenti, sono ex chainworkers ambiziosi che guadagnano da due a due volte e mezzo la paga dei colleghi di un tempo e impongono loro turni massacranti e svariate altre angherie pur di fare carriera. All’occorrenza sono disposti anche a tornare a friggere le patatine e a pulire i tavoli: tutto per il bene dell’azienda!3
Nella grande ristorazione e in molti altri settori, la situazione lavorativa dei chainworker è paradossale:
mentre fino a trent’anni fa il problema dei lavoratori poco qualificati era che l’orario era troppo lungo […] ora il problema per molti è che l’orario è troppo breve. Con le paghe che ci sono oggi, un giorno di lavoro di quattro ore anche il sabato non basta a pagare affitto e bollette per andare a vivere da soli, figuriamoci per tirare su famiglia. […] gente che vorrebbe avere un posto di lavoro a tempo pieno e a tempo indeterminato lo deve prendere a metà tempo o a tempo determinato.
E chissà perché questi giovani di oggi continuano a vivere con mamma e papà… Capito qual è il famoso trend? I pochi che hanno il privilegio di un posto fisso full-time lavoreranno come dannati per non perderlo, e tutti gli altri dovranno sbattersi da un lavoro part-time all’altro, o anche fra due contemporaneamente, concentrati nell’impossibile compito di far quadrare il bilancio.
Ma forse il lavoro faticoso e stressante nei fast food, spacciati per «lavoretti» temporanei adatti ai giovanissimi in cerca di un po’ di soldini da spendere con gli amici, è un’eccezione? Affatto.
Lo dimostra, al termine di un’inchiesta condotta con lo spirito del samurai (o forse del kamikaze), Barbara Ehrenreich, autrice di Una paga da Fame: come (non) si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo (Feltrinelli, 2002), il saggio in cui troverete le citazioni che seguono.
Come faranno a sopravvivere, con paghe da sei o sette dollari l’ora, quei quattro milioni di donne che saranno forzatamente immesse sul mercato del lavoro dalla riforma del welfare? [legge del 1996, N.d.R.]
si chiedono l’autrice e il direttore di «Harper’s», durante una colazione di lavoro in un ristorantino esclusivo. È il 1998 e il risultato della loro piccola discussione è un’inchiesta «vecchio stile», condotta da Barbara nei panni di una cameriera in Florida, di una donna delle pulizie nel Maine e di una commessa in Minnesota. Tre mesi ha tenuto duro Barbara, uno per ogni lavoro, e giocando pulito, ovvero rinunciando a tutte i vantaggi dovuti alla propria posizione economica, cercando di vincere la scommessa di mantenersi soltanto con la paga guadagnata. Un’imprea disperata, come risulta già dalle statistiche: per garantirsi il modesto lusso di un monolocale più servizi (alloggio minimo e squallido, con angolino cottura, angolino letto e microbagno), un lavoratore deve guadagnare almeno 8,89 $ l’ora. Altrimenti semplicemente non ce la fa (nemmeno se rinuncia a mangiare…). Eppure molti lavoratori (e soprattutto molte lavoratrici) sopravvivono guadagnando molto meno. Come fanno? Questo le statistiche non lo dicono, e Barbara intende scoprirlo di persona, senza barare, mangiando esattamente ciò che può permettersi di acquistare, e senza imboscarsi per risparmiare energie (cosa del resto impossibile a causa dei continui controlli).
Come l’autrice del saggio scopre ben presto, non le è possibile diventare soltanto una lavoratrice della fascia più bassa; anche senza trucchi, ha dalla sua vantaggi che le colleghe si sognano: un’auto di seconda mano, buona salute (le compagne, non potendo contare sull’assistenza medica gratuita e tantomeno su costose assicurazioni per la salute, trascurano sistematicamente tutti i disturbi non gravissimi e convivono con mal di schiena, dolori articolari, piccole infezioni cronicizzate, mal di denti ecc.); e il lusso di non avere figli piccoli (a chi affidarli, in mancanza di asili comunali e statali?).
Per un centinaio di pagine gustose e drammatiche, l’autrice ci intrattiene con avventure al limite del surreale: «colloqui di lavoro» a base di questionari a prova di stupido ma ugualmente difficili da superare, nonostante le risposte più ipocrite: perché, ad esempio, Barbara alla domanda «le regole vanno seguite sempre alla lettera» ha risposto «sono d’accordo» e non «sono pienamente d’accordo»? Insomma, «nel presentarsi a un potenziale datore di lavoro l’arruffianamento non è mai troppo». Anche la cultura conferisce vantaggi, come la prontezza di rispondere: «le regole vanno interpretate, occorre usare un certo discernimento, altrimenti tanto varrebbe assumere una macchina invece di un essere umano». «Discernimento, bellissimo». Così, dopo umilianti (ma falsificabilissimi) test tossicologici per accertare se il potenziale dipendente assume droghe, si ottiene il posto. Ma la trafila non è finita: ci sono corsi di addestramento (o forse sarebbe meglio chiamarli «di cooptazione psicologica») durante i quali, per otto ore consecutive, funzionari entusiasti ripetono fino allo sfinimento la «filosofia aziendale»; le divise cretine, pagate dal dipendente, che contraddistinguono la catena e, nel caso delle imprese di pulizia, funzionano più o meno come un tempo la stella gialla, perché le ossessioni igieniste degli americani impediscono loro di trattare alla pari le pulitrici.
Ma la cultura, qualunque cosa sia, non garantisce di tenersi il posto di lavoro faticosamente ottenuto, né di resistere alla fatica di otto-dieci ore in piedi, in un ristorante di mezza tacca, mentre piovono ordinazioni personalizzate da dieci tavoli contemporaneamente: «l’arrosto senza sugo, ma il sugo sul puré, la birra gelata ma la minerale a temperatura ambiente, l’antipasto come secondo, il secondo prima del primo…»
Non basta. Avete mai provato a lavorare per tutto un mese cinque giorni di seguito al ristorante di mezza tacca e tutto il week end in una casa di riposo per anziane ospiti affette da Alhzeimer per riuscire a pagare l’affitto di un terrificante camper dove tutto, ma proprio tutto, è troppo stretto e/o troppo vicino, oppure semplicemente non c’è? Dove per fare la doccia dovete accovacciarvi e per scendere dal letto strisciare fino ai piedi del medesimo perché ai lati non c’è spazio sufficiente per i vostri, di piedi?
Terribile? Oh sì, ma c’è chi sta peggio, chi è costretta a dormire in un furgone in un parcheggio non sorvegliato: d’inverno, con una candela per leggere due pagine prima di dormire, è quasi perfetto, ma d’estate è un forno e dai finestrini aperti possono entrare ogni genere di cose moleste, zanzare, scocciatori, maniaci… In alternativa, se ha un marito che lavora la lavoratrice a 2,43 $ l’ora più mance può sempre dormire in un motel schifido alla modica cifra di 60 $ a notte. Ma perché non affittare un monolocale, allora? Idea grandiosa! Ma come mettere insieme i due mesi di cauzione?
E cambiare lavoro, allora? Cambiare per andare dove, di grazia? In un altro ristorante quasi identico e con vista sulla superstrada? Oltre che stressante, cambiare lavoro è rischioso e anche costoso: per compilare le domande si perdono ore di lavoro e soldi di benzina negli spostamenti e altri soldi per i test tossicologici. Ammesso di trovarlo occorre spendere altri soldi per le nuove divise, e tutte le aziende hanno la «prudente» abitudine di accantonare la prima settimana di paga per impedire ai dipendenti di dare forfait dopo i primi giorni di lavoro. La conclusione non può che essere una: a conti fatti (letteralmente) non si (soprav)vive con un solo lavoro e Barbara non è l’unica ad averlo capito:
dopo aver passato in rassegna decine di studi sull’argomento, l’Economic Policy Institute ha calcolato che, per una famiglia composta da un adulto e due minori [una situazione tutt’altro che inconsueta nelle fasce basse di reddito, N.d.R.] il salario minimo di sussistenza dovrebbe aggirarsi in media sui 30.000 dollari all’anno, l’equivalente di una paga oraria di 14 dollari.
Se invece di otto ore siete disposti a lavorarne sedici, sopravviverete felicemente con una paga oraria dimezzata, lavorandone ventiquattro, beh, presto non avrete più problemi di vitto e alloggio…
A lettura ultimata, stupefatti per una condizione di lavoro «ultraflessibile» che domani potrebbe essere sperimentata anche in Italia da molti di noi (nessuno è intoccabile!), si giunge anche alla tardiva comprensione di molti fenomeni «incomprensibili» letti sulle pagine dei settimanali, uno per tutti il motivo per il quale le madri americane dei ghetti e dei quartieri più poveri «abbandonano» i figli tanto tempo davanti alla televisione: fanno due lavori e guadagnano appena quanto basta a tirare avanti la baracca, ecco perché! Dove altro potrebbero lasciarli questi bambini? Ma di bazzecole come l’ultraflessibilità gli psicologi e i sociologi di buone intenzioni che scrivono sui giornali evidentemente non si occupano.
Sono indignata? Sì, sono indignata.
Così vi regalo due tra le tante frasi che andrebbero segnalate:
Quello di cui non ci si rende conto quando si accetta di vendere il proprio tempo un tanto all’ora, è che in realtà si sta vendendo la propria vita (Barbara Ehrenreich).
Da noi i sindacati non proteggono i ChainWorkers: o non hanno capito che siete il futuro del lavoro o se ne fregano perché siete giovani e preferiscono proteggere i vostri genitori a scapito vostro (webzine ChainWorkers, www.chainworkers.org).
Fantastico. E chi la pagherà la pensione ai famosi genitori?
Sono ancora indignata, e concluderò con le parole di Barbara:
Un giorno (non saprei proprio prevedere quando), i poveri che lavorano si stuferanno di ricevere così poco in cambio e pretenderanno di essere pagati per ciò che valgono. Quel giorno, la rabbia esploderà e assisteremo a scioperi e a distruzioni. Ma non sarà la fine del mondo e, dopo, staremo meglio tutti quanti.
Però sarà la fine del mondo as we know, come lo conosciamo, per dirla con i R.E.M. E chissà se noi saremo fra i «tutti quanti» che staranno meglio?
N.B. il libro è stato scritto nei primi mesi del 2001, e nel frattempo sono accadute molte, molte cose…
1 Intervista a Ambra Radaelli, riportata quest’anno su «D», inserto settimanale di «Repubblica».
2 Mio marito, mio figlio e io siamo stati definiti così da un imbarazzante «animatore» durante il tour de force della spesa settimanale in un centro commerciale. Preferisco tacere sulla mia reazione…
3 Per avere un esempio di genialità creativa, leggete con attenzione le nuove pubblicità di McDonalds comparse su molti settimanali: sono brevi narrazioni in prima persona di una studentessa, un giovane manager in carriera e una giovane nera (quest’ultima tutta giocata sul «lavoro in nero») nelle quali McDonald’s non solo ammette, ma rivendica come grandi pregi le accuse mosse dagli autori del saggio.
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