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    Interzona

    G. Trivero – La camera verde

    • di Silvia Treves
    • Aprile 12, 2006 a 10:31 am

    Gianluca Trivero
    La camera verde
    Ombre corte
    € 12,50

    Giardino e grande schermo (e prima ancora teatro), sono metafore reciproche, entrambi «messinscena, luogo di sogni, sentimenti e illusioni, ma anche spazio di reificazione del fantastico, di realizzazione pratica del sogno». Spazi dove la realtà diviene spettacolo, racconto.
    Dal Giardino dell’Eden al giardino rinascimentale, al giardino «pittoresco» all’inglese, l’armonia del «verde» coltivato presuppone un progetto e un creatore, è manifestazione artistica, progetto del mondo, spazio racchiuso nel quale tentare un’impossibile addomesticamento della Natura. Anche il cinema non ha resistito al suo fascino, ambientandovi non soltanto l’interazione paesaggio/personaggio, ma anche il nostro oscillare psicologico e culturale tra coppie di opposti: naturale/artificiale, finito/infinito, amore/morte, ordine/disordine, antitesi che Trivero, non a caso, ha scelto come titoli dei capitoli del saggio.
    Nel primo, dedicato al binomio naturale/artificiale, Trivero contrappone alla selva, priva di progetto e di regole, quindi «libera» e «irragionevole», il giardino settecentesco, all’italiana, luogo sociale per eccellenza, essenza dell’artificiosità imposta alla natura, simbolo della ragione che tiene a bada l’inconscio. Le pellicole che esplorano questa contrapposizione sono numerosissime, da Barry Lindon di Kubrick, a Vatel di Joffé, dal magnifico e ambiguo Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir a Ritratto di signora della Campion. Dello spazio addomesticato del giardino, il labirinto è la sublimazione: trionfo della crescita controllata, dell’abilità del giardiniere/architetto, contemporaneamente simbolo del caos e di un ordine segreto imposto alle forme della natura, icona utilizzata consapevolmente dal cinema in decine di pellicole, da Shining di Kubrick a Orlando di Sally Potter. Estremamente stimolanti le pagine che l’autore dedica alla valenza simbolica del giardino labirinto di Lucy nel Dracula di Bram Stoker di Coppola: luogo lussureggiante con terrazze in discesa – le superiori trionfanti di ordine e simmetria le inferiori sempre più selvagge e preda del caos – nel quale Lucy e il Conte si abbandonano a un amplesso straniante.
    Il secondo capitolo è dedicato all’antitesi finito/infinito; il giardino è da sempre un simbolo del paradiso, «nelle regioni sabbiose e torride che generarono l’agricoltura e contemporaneamente idearono – dai sumeri agli israeliti – l’iconografia millenaria di un luogo verdeggiante e ubertoso all’origine di tutta la Vita è circoscritta al giardino». Nello spazio chiuso del giardino la natura è protettiva, materna come un corpo femminile, conquistare il diritto di accedervi, allora, significa evolversi, cambiare. Il giardino come prova iniziatica è un altro tema caro a molte pellicole, da Il giardino segreto, il romanzo di Francis Compton Burnett più volte portato sullo schermo, a Il giardino di mezzanotte di Carroll. Il giardino/paradiso è metafora del sogno nel secondo episodio del fascinoso Sogni di Kurosawa. Non a caso, però, nel primo episodio, il rito segreto del matrimonio delle volpi al quale gli umani non devono assistere, si svolge nel bosco, spazio interamente «naturale» e trasgressivo.
    Per la contrapposizione archetipica amore/morte, Trivero ricorda film memorabili come I misteri del giardino di Compton House di Greenaway, Camera con vista di Ivory e pellicole minori come L’amante di lady Chatterley di Just Jaeckin. Due esplorazioni sono particolarmente interessanti: quella di Le relazioni pericolose di Stephen Frears, amara rappresentazione, sullo sfondo di giardini classicheggianti, di un mondo giunto alla fine, nel quale l’intrigo e l’inganno sono il succedaneo di un reale inammissibile che già preme alle porte e che tra breve lo travolgerà; quella di Improvvisamente l’estate scorsa, personalissima traduzione di Mankiewicz del testo teatrale di Tennessee Williams, con due grandi attrici, Katharine Hepburn ed Elizabeth Taylor.
    Il saggio si chiude suggestivamente sul binomio ordine/disordine. Se nel giardino si «organizza in cifre esatte la comunicazione tra uomo e natura», tramite e fautore di questa comunicazione è inevitabilmente il giardiniere: da Edward mani di forbici a Il tagliaerbe, da Improvvisamente un uomo nella notte a Oltre il giardino, il giardiniere con il proprio lavoro nutre, forma (e conforma), custodisce e difende la tradizione e il valore della vita, Curiosamente questa figura curevole e protettiva, quasi «femminile», nel cinema è quasi sempre maschile, con valenze di creatore e tramite fra privato (la casa) e la sfera pubblica.
    Se il giardino rappresenta l’ordine e l’equilibrio, è impossibile resistere alla tentazione di seminarvi il caos, con effetti esilaranti, come Groucho ne La guerra lampo dei Fratelli Marx o Peter Sellers in Hollywood Party o, in 1941, allarme a Hollywood, il sergente Dan Ackroyd, vanamente contrastato da un patetico «giardiniere» che vuol difendere le sue zagare. E che, ovviamente, è di sesso femminile.
    La camera verde non è una storia del cinema, ed è solo in parte un saggio sul cinema; è invece una passeggiata tortuosa e apparentemente svagata nell’immaginario cinematografico, un percorso documentato che ci parla di noi, degli altri, dell’Altro. È il libro adatto a un cinefilo o a chi, come me, venera i giardini e ama svisceratamente alcuni film. Con mia grande soddisfazione, Trivero non ha dimenticato nessuno dei miei cult movie, a cominciare dall’ipnotico L’anno scorso a Marienbad visto (comprendendolo senza capire) da ragazzina in Tv, molti anni dopo l’uscita: l’ora era molto tarda, ma i grandi, anche loro risucchiati dal film, si erano dimenticati di spedirmi a letto…

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