Può darsi che la domanda sia priva di senso. Non per Roald Dahl, comunque, che se la pone e vi risponde a modo suo, nell’introduzione a Il libro delle storie di fantasmi (Salani, 2013, riedizione dell’originale inglese del 1983), che raccoglie «quattordici capolavori della paura scelti da un grande maestro dell’imprevisto».
Proprio nell’introduzione Dahl racconta la genesi dell’antologia, nata alla fine degli anni cinquanta come raccolta di sceneggiature: «24 strepitose storie di fantasmi» da scegliere e sceneggiare per la TV. Spettri, fantasmi, apparizioni… la letteratura anglosassone ha prodotto centinaia di racconti di genere tra la metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento e quasi tutti gli autori più famosi ne hanno scritta almeno una: da Dickens a Hawthorne, da Scott a Maugham a Twain, e alcuni autori sono maestri del genere: Henry James, Walter De la Mare… Dahl accolse l’incarico a cuor leggero.
Troppo, riconosce, perché le prime cinquanta storie lette, nonostante le grandi firme, erano bruttissime. Trovate finalmente storie adeguatamente «spettrali», Dahl si rese conto che erano tutte scritte da donne. Ah, era sulla soglia di una grande scoperta: le donne sono maestre del genere in virtù di una qualche maggiore sensibilità. Purtroppo si trattava di pure coincidenze, in seguito lesse molte storie quasi perfette scritte da uomini e fu costretto a mandare in soffitta (ma non del tutto) l’ipotesi della «femminilità» dei racconti di fantasmi. Nonostante questo primo insuccesso, Dahl non si dà per vinto e continua l’introduzione sostenendo: «non ho dubbi sulle superiorità delle donne nell’ambito […] della letteratura per ragazzi». «Escluso il qui presente!», verrebbe voglia di aggiungere, ma Dahl è modesto e di sé non parla proprio.
Sì, Roald Dahl è stato veramente carino a scrivere così. Peccato che abbia poi dichiarato «Eppure questo non accade per quel che riguarda la musica, o la pittura, o la scultura. Non si conosce una sola compositrice di levatura eccezionale, e lo stesso si può dire per le pittrici o le scultrici». Ma perché fermarsi? «Non mi viene in mente una sola donna autrice di opere teatrali. E quanto ai racconti… no, anche in questo campo si riscontra una certa penuria. Mi riferisco, naturalmente, ai buoni racconti».
Ma tutto questo che cosa c’entra con i racconti di fantasmi?
Niente. Non c’entra niente. Le ultime righe di pagina 9, le pagine 10, 11, 12 e le prime righe di pagina 13 non c’entrano niente. Leggetele prima, dopo, o non leggetele affatto. Non leggetele prima dei racconti che seguono.
Tornando all’antologia, il progetto di sceneggiatura non andò in porto, a Dahl restarono un certo numero di buoni racconti e ne fece un’antologia di buon livello, godetevela in santa pace, consapevoli che «i buoni racconti di fantasmi […] non sono affatto facili da scrivere» e che «È un fatto bizzarro, ma, nelle migliori storie di fantasmi, il fantasma non c’è». Due osservazioni semplici ma molto vere, perché le vere storie di fantasmi si reggono su una costruzione raffinatissima, su una scelta accorta di tempi, su un meccanismo perfetto, e non sulla sorpresa, sull’effettaccio. Le storie migliori (e quelle scelte da Dahl in gran parte lo sono) sono quelle dove non accade nulla, ma l’autore riesce a farci credere che potrebbe accadere di tutto.
Venendo ai singoli racconti, non sono interessata ad affrontare questioni probabilmente prive di risposta come il «genere» sessuale di un «genere» letterario. Posso però notare che effettivamente nei racconti scritti da donne c’è un’attenzione maggiore ai moti dell’animo, alla quotidianità, al rimpianto. Ma non è sempre vero: La cuccetta superiore di Marion Carwford è un racconto di fantasmi «maschile»: avventuroso, dove il fantasma è visto dall’esterno e ispira inquietudine e timore, ma non certo identificazione, rimpianto, rimorso. E, al contrario Compagne di giochi di A.M. Burrage (maschio) riesce a dipingere con gentile ironia una caratteristica ritenuta «maschile» come l’eccessiva razionalità (uno storico della scienza forse lo chiamerebbe approccio riduzionista) e ad approdare a un rapporto rasserenante con presenze inspiegabili (o con la propria coscienza). L’ultimo rintocco di Robert Aickman, poi, è un’esplorazione conturbante del connubio sensualità e morte, di desideri impossibili da confessare, di pensieri che è meglio non rivelare all’amato/a ma che taciuti, notte dopo notte, scavano un solco incolmabile.
Tornando a dare alle donne ciò che loro spetta, Il telefono di Mary Treadgold è un racconto struggente, un’evocazione efficace e discreta di tutto ciò che due coniugi innamorati non riusciranno mai a dirsi, Più tardi di Edith Warton (già pubblicato in altre antologie) è un classico di grande tensione etica che fa realmente paura, e Harry di Rosemary Timperley è (anche) una sconsolata metafora sull’inafferrabilità dei figli.
Sul fronte maschile Sulla strada di Brighton di Richard Middleton è una piccola meraviglia, forse più parente del grottesco che del gotico, ma è uno dei pochi racconti di spettri anglosassoni con forte valenza politica (mentre, ad esempio, gli zombie della tradizione orale non anglosassone sono una grande metafora dello sfruttamento). Comunque mi tengo sul vago, non vorrei cadere anch’io in suddivisioni perentorie basate su « non mi viene in mente».
Leggete queste storie, senza fretta di trovare i fantasmi, perché, come spiega Edith Warton:
«Vale a dire che un fantasma c’è… ma nessuno capisce che è un fantasma?»; «Be’… soltanto più tardi»; «Soltanto più tardi?»; «Soltanto molto, molto più tardi».
Roald Dahl (cur.), Il libro delle storie di fantasmi, Salani, 2013, pp. 272, € 12,90, trad. vari
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