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    TerraNova

    Embassytown di China Mieville

    • di Massimo Citi
    • Febbraio 19, 2017 a 6:50 pm

    In un momento particolare, quando non si è ancora spenta l’eco di «Arrival», il film tratto da Storia della tua vita di Ted Chiang, una vicenda profondamente connessa al tema della comunicazione linguistica, mi è sembrato opportuno aggiungere altra carne al fuoco, ripescando la recensione uscita su Fronte & Retro al romanzo Embassytown, un testo interamente incentrato sul problema linguistico del rapporto tra umani e alieni. È evidente che il problema della lingua – anche più di soli dieci anni fa – sta diventando uno dei temi principali del rapporto tra esseri umani.

    …

    Già, dopo aver lungamente promesso di parlarne eccomi qui a presentare Embassytown di China Mieville, uscito nel 2011 in Gran Bretagna e tradotto in italiano nel 2016. Un libro decisamente cospicuo – 440 pagine – che ho letto, riletto, sogguardato, studiato, meditato a lungo, passando praticamente senza soluzioni di continuità a considerarlo un giorno un fiasco galattico sia pure scritto da un indiscutibile genio a pensare il giorno successivo che si trattava di un grande libro, grandissimo libro.

    C’è voluto tempo per arrivare a una conclusione – ovviamente del tutto personale e opinabilissima – per decidere il valore per me del libro – e soprattutto per avanzare qualche ipotesi sul significato più profondo del testo.

    Protagonista di Embassytown è Avice Benner Cho, che conosciamo bambina all’inizio del romanzo e che vediamo ritornare alla città della sua infanzia come donna immergente – ovvero dedita a lunghi viaggi spaziali – dopo ben quattro matrimoni. Embassytown è la sola città umana su un pianeta, Arieka, popolato da una specie mooooolto particolare di alieni, gli Ariekei, anche detti Ospiti. Gli Ariekei sono creature decisamente particolari, tanto per usare un eufemismo. Tutto sommato poco descritti nel corso del libro, anche se qualcuno con più pazienza di me è riuscito a farne uno schizzo.

    Oltre a un aspetto non esattamente antropomorfo, gli Ariekei hanno una particolarità: la lingua. La lingua degli “Ospiti” è modulata da due apparati di fonazione che producono rispettivamente l‘inciso e l’eco e per loro chi parla con una sola voce è automaticamente escluso dal computo delle creature dotate di intelligenza e in grado di esprimersi. La lingua degli Ariekei, inoltre, è una lingua assolutamente reale, nel senso che qualsiasi oggetto o elemento di un loro discorso hanno la caratteristica di essere assolutamente reali, ovvero visibili e afferrabili. Questo determina l’impossibilità per un Ospite di mentire, cioé elaborare una «bugia», ovvero un insieme di dati non immediatamente verificabili. Ovviamente gli umani in quanto specie non possono essere calcolati come creature senzienti, fatta eccezione per gli «ambasciatori», cloni appositamente creati:

    Gli Ambasciatori erano stati creati e allevati per esistere come dei singoli dalle menti unificate. Disponevano tutti dello stesso codice genetico, il codice che educava i loro cervelli, così che gli ospiti potessero comprenderli. Se tirati su nel modo corretto, abituati a pensare a se stessi come due metà simbiotiche, e collegati a dovere, questi potevano parlare la Lingua in modo abbastanza buono da farsi intendere dagli Ariekei.


    Ma esiste anche un altro modo per essere presi in considerazione dagli Ariekei: diventare parti di un discorso, ovvero similitudini, parti del discorso ai quali gli alieni sono obbligati a fare riferimento per articolare una proposizione: «La ragazza che mangiò ciò che le venne offerto» è la similitudine che Avice Benner Cho è chiamata a rappresentare – o meglio a incarnare – nei discorsi degli Ariekei.
    In sostanza per gli alieni significante e significato costituiscono una coppia inscindibile e inevitabilmente ancorata alla realtà. Ma questo significa che per gli Ospiti il linguaggio è una forma di prigione priva di uscite. L’impossibilità di immaginare forme inesistenti di reale, ovvero l’identità assoluta di significante e significato si rivelano catastrofici per gli Ariekei. Quando a comunicare con loro appare per la prima volta un ambasciatore proveniente da Bremen – il pianeta dal quale Embassytown dipende – e non dalla comunità umana su Arieka, il delicato equilibrio sul quale si fonda la convivenza tra umani e Ariekei si spezza. L’ambasciatore EzRa, infatti, riuscirà a creare dipendenza negli alieni con la propria voce, un elemento mai verificatosi prima e che getterà nel caos la fino a quel punto ordinata società Ariekei.


    Ez era l’inciso e Ra l’eco. […] Le due voci insieme ben assortite. Dissero agli ospiti che era un onore fare la loro conoscenza: «suhail | shurasuhail». Davvero un bel saluto. In qull’istante ogni cosa cambiò. Le due metà simbiotiche di EzRa si guardarono a vicenda e si sorrisero. […] Troppo impegnati a sentirli parlare e a mettere alla prova le loro abilità non ci accogemmo del cambiamento. Nessuno fece caso alle reazioni degli Ospiti.


    La conseguenza ultima sarà una sanguinosa guerra civile che determinerà una profonda modificazione della lingua (e della psicologia) degli Ariekei. Questo, in breve e senza spoiler (spero), il tema del romanzo di Mieville. In sostanza il tema del linguaggio e della sua importanza fondamentale nella costruzione di qualsiasi società, anche e soprattutto di una civiltà profondamente aliena. Diciamo che Mieville vuole approfondire un tema, quello linguistico, che è stato raramente toccato dalla fantascienza. Ci riesce? Non completamente, a mio parere, ma abbastanza da aver scritto un libro che merita leggere. E ricordare. E che può far nascere domande scomode anche a distanza di tempo.

    Un passo indietro, ora.

    La lingua degli Ariekei è una lingua funzionale, adatta a una società avanzata, basata su una biotecnologia raffinata? Di primo acchito verrebbe da dire «No». Sorgono subito alla mente una quantità di difficoltà connesse, per esempio, alla possibilità di progettare qualcosa che non esiste ancora o l’impossibilità di fantasticare su forme sociali o materiali che non siano date. La sensazione più immediata è quella di una società fortemente ritualizzata e sostanzialmente immobile. Ma Mieville ha in mente altro, evidentemente. Dal confronto tra gli Ariekei e gli umani nasce un contrasto violento che obbliga gli alieni a ripensare il proprio linguaggio, a inventare le bugie, a supporre, proporre, discutere, azzuffarsi. E la dipendenza dal linguaggio di EzRa, un clone schizoide inviato da Bremen – un puro caso? – provoca la sostanziale metamorfosi del modo di concepire la realtà e in definitiva di vivere degli Ariekei.

    Si tratta della consueta violenza umana condotta contro una specie aliena come abbiamo visto accadere migliaia di volte? Probabilmente sì: tutti sappiamo come Mieville vede e giudica il mondo, ma si tratta di un confronto condotto con raffinatezza, intelligenza, estro e fantasia, una quantità impressionante di fantasia, a essere sinceri, nella quale non è difficile perdersi. Il problema del linguaggio, in realtà, non riguarda soltanto gli Ariekei ma tocca anche gli umani e il loro modo di comunicare tra loro e con gli altri. Mieville si chiede se possa esistere un linguaggio del tutto privo di ambiguità e di menzogne e prova a immaginare un popolo in questo senso «privo di peccato». La conseguenza fatale non può che essere, a suo parere, un drammatico scacco del quale la peculiarità del linguaggio umano finisce per essere oggettivamente colpevole della «caduta» degli Ariekei.
    Alcune peculiarità tutt’altro che secondarie del libro: il testo è organizzato fino alla fine della terza parte, (pag. 209) in modo temporalmente ineguale, con capitoli denominati «Ricordo recente» e «Ricordo datato», cui seguono i capitoli che vanno da 9 a 31, organizzati in sezioni. Lettura non troppo agevole, ovviamente. Il punto di vista è quello di Avice Benner Cho, in realtà più voce narrante che protagonista in senso proprio. Intorno ad Embassytown esiste un universo complesso e ricco di peculiarità come l’Immer, l’universo primigenio che permette comunicazioni in tempi ragionevoli all’interno dell’Universo e dove le costanti fisiche del nostro universo sono radicalmente mutate. Solo alcuni tra gli umani – tra cui Avice – possono affrontare l’Immer. Altro particolare non secondario: la situazione politica tra Bremen e Embassytown non è affatto una situazione piana e priva di tensione.

    China Mieville

    Merita leggere la breve prefazione di Carlo Pagetti, posta in apertura del libro, quanto alla traduzione di Federico Pio Gentile non corre sempre come dovrebbe – ma qui, non disponendo dell’edizione originale, non posso avanzare critiche precise –, anche se è probabile che l’inevitabile fretta imposta dall’editore abbia contribuito a rendere meno comprensibili taluni passaggi del testo.

    Embassytown è il primo testo definibile come di sf in senso proprio di China Mieville, normalmente catalogato come autore Weird [*]. Un autore sicuramente ricco di inventiva e di fantasia che, in questo caso, ha voluto giocare il suo romanzo su un livello non comune. Il risultato è una scommessa non sempre pienamente riuscita, dove il lettore è chiamato a un cimento non facile, obbligato com’è a procedere con calma e attenzione, cercando di non perdere qualcuno dei tanti riferimenti inseriti da Mieville.

    Ma al di là di lungaggini, incomprensioni, equivoci e tentativi non riusciti, Embassytown merita la lettura? Sì, sicuramente, perché è un libro maledettamente interessante, al limite della magia, dotato di un ritmo infernale nelle ultime trecento pagine, capace di mettere in discussione il linguaggio e, tramite quello, il comune modo di ragionare e di giudicare e infine perché, pur non essendo priopriamente un autore di sf, Mieville ha creato un tipo di alieni che è impossibile dimenticare. Leggetelo: merita.

    [*] Qui la recensione di Perdido Street Station apparsa su LN-LibriNuovi.

    China Mieville, Embassytown, Fanucci 2016, pp. 440, € 16,90, trad. Federico Pio Gentile

    Idem, e-book, € 4,99

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