La Rochelle, primi di dicembre. Piove da 20 giorni e non accenna a smettere. Come sempre, alle quattro del pomeriggio il signor Labbé, il cappellaio benestante di Rue du Minage, affida la bottega al commesso e raggiunge i conoscenti, tutti notabili della città, al Café de Colonnes.
Il Signor Labbé, coniugato con Mathilde, l’inferma che da quindici anni non esce dalla propria camera, è un assassino. É lui lo strangolatore, l’autore dei cinque delitti compiuti all’imbrunire di quegli interminabili pomeriggi piovosi. Il lettore lo scopre subito, contemporaneamente a Cachoudas, il piccolo sarto armeno, che nessuno si sognerebbe mai di chiamare signore e che ha la bottega proprio di fronte al negozio del cappellaio. La scoperta casuale crea fra i due, il sarto spaventato e l’assassino impassibile, meticoloso e sicuro di sé, un vincolo indichiarato: c’è la paura di Cachoudas, ma anche la speranza di incassare la taglia, e c’è il bisogno, sempre più imperioso, di Labbé di spiegare almeno ad una persona, all’ometto fino ad allora osservato con curiosità benevola e un po’ sprezzante, le ragioni complesse del proprio crimine. Labbé non è crudele, non ignora i sentimenti degli altri, è capace di gesti amichevoli, di solidarietà. E se non riesce a provare calore umano per molti dei suoi simili è perché la mentalità chiusa e il moralismo della provincia lo hanno plasmato sino a spingerlo sull’orlo di una follia pacata e pericolosa. Ben più di Cachoudas, emarginato dal razzismo tollerante e dal disprezzo per la povertà dei concittadini, Labbé è una vittima, soprattutto di quella parte di se stesso che condivide la visione del mondo feroce della provincia francese, luogo immobile e senza legami con il mondo esterno e i suoi accadimenti, ai quali infatti la narrazione non fa mai riferimento.
Tutta la città, a quell’ora, era così, una scatola su cui improvvisamente ricadeva un coperchio e dentro la quale le persone, non più grandi di formiche, si agitavano a vuoto.
Anche i conoscenti del cappellaio, coetanei che hanno vissuto fianco a fianco senza mai parlarsi davvero, provano il medesimo malessere e lo combattono come possono, giocando a carte, bevendo un bicchiere di troppo o trascorrendo qualche ora con la signorina Berthe, che, come tutti sanno a La Rochelle, sa essere gentile e graziosa con i suoi amici ricchi.
Labbé si è sposato per compiacere la madre e si è ritrovato legato indissolubilmente ad una moglie paralizzata e incattivita. Ma in provincia non ci si lascia, il matrimonio è per sempre e Labbé non è il tipo da concedersi scappatoie, anche se beve al tavolo con gli amici e frequenta Berthe… Labbé è certo che nella sua vita ci sia «una linea continua, che avrebbe potuto tracciare con la penna». «Ho sempre scelto liberamente» pensa e si illude di tenere tutto sotto controllo…
Splendido studio psicologico, il romanzo di Simenon schiude pagina dopo pagina la mente e l’anima di Labbé al lettore che passa dalla curiosità distaccata alla fascinazione, all’angoscia. Labbé è di quei personaggi che non si dimenticano, che incarnano il mondo nel quale vivono. E che restano dentro, acquattati nei ricordi. Deve aver provato la medesima sensazione anche l’autore, dal momento che ha affrontato il rapporto cappellaio-sarto ben tre volte: nel racconto del 1947 Il piccolo sarto e il cappellaio, in un rifacimento del 1948, Beati gli umili e in questo romanzo. Adelphi ha scelto con molta sensibilità di pubblicare tutte e tre le stesure, concedendo ca chi legge il brivido di seguire il personaggio nella sua evoluzione, e lo scrittore mentre esplora, a cerchi sempre più stretti, l’universo del protagonista.
Il progresso della ricerca è particolarmente evidente nella scelta del punto di vista, che nei due racconti è quello di Cachoudas, un espediente narrativo più rassicurante che lascia lo scrittore e i lettori liberi di contemplare l’assassino da lontano, senza nemmeno essere costretti a identificarsi con il sarto. La narrazione, infatti, procede abilmente fino ad uno scioglimento finale forse un po’ troppo rapido ma verosimile e in linea con i polizieschi tradizionali. Il romanzo, invece non lascia scampo, il punto di vista è costantemente quello distorto di Labbé, non c’è modo di prendere le distanze, e il lettore si scopre a compiangere il cappellaio per la mancanza di fantasia e il perbenismo che non gli consentono di trovare soluzioni pietose ed eticamente accettabili alla sua inconsapevole infelicità.
Da leggere assolutamente.
Georges Simenon, I fantasmi del cappellaio, Adelphi 1997, 2012, Ed. orig. 1949, pp. 238 € 10,00, trad. Laura Frausin Guarino
Nel 1982 uscì il film tratto dal romanzo per la regia di Claude Chabrol, interamente disponibile su You Tube.
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