Un altro modo di vedere la globalizzazione
Trent’anni fa, alle ore 1.23 del 26 aprile 1986, la popolazione del pianeta si è definitavamente inoltrata nell’età post nucleare. La promessa di un’energia pacifica e inesauribile, a disposizione di tutti, si è rivelata una beffa feroce. Guasti e incidenti precedenti potevano essere ritenuti casi infausti e non ripetibili, Chernobyl ha messo fine a queste illusioni. In questi trent’anni il mondo non è stato denuclearizzato, e i conti con la fissione, bomba o centrale, non sono mai stati fatti. E quasi trent’anni dopo questa catastrofe, Svetlana Aleksievich – autrice fra l’altro di Una preghiera per Chernobyl – è stata insignita del premio Nobel per la letteratura. Questo lungo articolo vuole ricordare la sua inchiesta e quanto ancora gli umani non hanno imparato.
Viviamo tutti nei dintorni di Chernobyl
Robert P. Gale e Thomas Hauser, La nube
Il reattore
L’elemento principale di un reattore nucleare è il nocciolo, nel quale avviene la fissione del combustibile. Prima di essere utilizzato l’uranio viene arricchito e convertito in pastiglie del diametro di un centimetro e poco più lunghe, rivestite di ceramica e contenute in tubi anticorrosione con un diametro di circa dodici mm e lunghi quattro metri. I tubi vengono poi infilati nel reattore come sigarette sistemate in una scatola cilindrica. La reazione a catena produce calore, se la velocità di scissione è troppo elevata non è più possibile controllare la quantità di calore prodotto e il nocciolo si surriscalda; per evitarlo si utilizzano barre di controllo di acciaio inossidabile riempite di polvere di boro, o grafite, o cadmio, che assorbono i neutroni in eccesso. Più barre vengono inserite fra i tubi di combustibile più lenta è la reazione, più ne vengono ritirate e maggiore è la velocità. Inserendole tutte, il reattore smette di funzionare. Tuttavia le barre assorbono neutroni, non calore, quindi – per evitare la fusione del nocciolo (meltdown) – è necessario che le barre di combustibile restino immerse in acqua mantenuta in circolazione grazie a un sistema di pompe.
I problemi più concreti e quotidiani legati all’attività di un reattore a fissione riguardano l’eliminazione sicura delle scorie e il rischio di fughe radioattive: un reattore di medie dimensioni contiene una quantità di materiale radioattivo mille volte superiore a quello liberato su Hiroshima. Così i reattori vengono alloggiati in contenitori di sicurezza a pressione in acciaio inossidabile a loro volta immersi in strutture di contenimento in cemento armato.
Ma l’eventualità più catastrofica è la possibilità di un meltdown definitivo; il nocciolo potrebbe fondere, ad esempio, se venisse a mancare l’energia per azionare le pompe dell’acqua di raffreddamento e se tutti i numerosi impianti di raffreddamento ausiliari facessero cilecca. Allora, l’acqua già presente nel nocciolo evaporerebbe, lasciandolo allo scoperto; le barre di combustibile fonderebbero e così pure le pastiglie di uranio, fino alla fusione definitiva del sistema; alla fine il nocciolo raggiungerebbe i tremila gradi centigradi, continuando a sprofondare attraverso i rivestimenti esterni (da questa immagine del nocciolo che sprofonda nella struttura del pianeta, strato dopo strato, sino a uscire dalla parte opposta – e dunque per gli Stati Uniti dalla Cina – deriva il termine «sindrome cinese» del film omonimo). In realtà, dopo varie esplosioni, il nocciolo entrerebbe in quiescenza a circa 20 metri di profondità.
Il meltdown
la fusione del nocciolo sarebbe un evento di proporzioni terrificanti, con decine di migliaia di morti e almeno centomila feriti gravi. Semplificando al massimo, le lesioni da radiazioni possono essere di due tipi: quelle secondarie a una esposizione considerevole, alla quale seguono danni gravi al sistema nervoso, agli elementi del sangue, al midollo osseo e all’apparato gastrointestinale e la morte di milioni di cellule, con decorso spesso mortale. Il secondo tipo di lesioni, secondario a una esposizione ridotta o moderata, segue un decorso a lungo termine, con deposito delle particelle radioattive in vari organi: stronzio 90 nelle ossa, iodio 131 nella tiroide, cesio 137 in tutte le cellule: degradandosi ogni particella radioattiva danneggerà, soprattutto a livello del corredo genomico, le cellule vicine, sia quelle somatiche (con il rischio di sviluppare tumori), sia quelle riproduttive, cosicché i danni diventeranno ereditari, colpendo anche la discendenza.
Purtroppo, mentre il tempo di dimezzamento (cioè quello necessario perché la quantità di radiazione si riduca alla metà) dello iodio 131 è di 8 giorni, quello dello stronzio 90 è di 28 anni, quello del cesio 137 di 33 e quello del plutonio di 24.000: come dire che metà di tutti gli atomi di plutonio liberati a Chernobyl dureranno circa sino al 26.000, un quarto di esse sino al 50.000…
Chernobyl era una città antica, fondata circa tre secoli prima che Colombo «scoprisse» l’America. Era capitale amministrativa della Polessia, una ragione a ottanta chilometri a nord di Kiev, la capitale dell’Ucraina, una regione di acquitrini, laghi e foreste che si estende per ottocento chilometri, sino all’interno della Bielorussia e a ovest sino al confine con la Polonia. Chernobyl sorgeva su una piccola elevazione presso il Pripyat, che qui affluisce nel Dnieper Per ottocento anni la sua gente è vissuta coltivando segale e patate e allevando bestiame. Negli anni sessanta dello scorso secolo, Chernobyl era diventata un centro regionale, con un ospedale, un istituto tecnico, la scuola agricola, il conservatorio, piccole imprese industriali, fabbriche alimentari, e un cantiere navale per riparare le navi che navigano i due fiumi. La centrale venne costruita a venti chilometri a nord di Chernobyl vicino al confine bielorusso, e la prima unità fu inaugurata il 26 settembre 1977: immetteva nella città di Kiev mille megawatt, facendo risparmiare tre milioni e mezzo di tonnellate di carbone l’anno. Dopo l’incidente delle ore 1.23 del 26 aprile 1986 è diventata, come altre 178 città e centri evacuati, un luogo deserto, svuotato (almeno apparentemente) di vita, sullo sfondo di una foresta silenziosa.
L’incidente
All’1.24 di sabato 26 aprile 1986, durante una fase di spegnimento per manutenzione del reattore 4 e mentre era in corso un test sperimentale sui sistemi di emergenza, due esplosioni ne distrussero il contenitore di cemento da 1000 tonnellate. Frammenti del nocciolo, materiale e vapore radioattivo vennero disseminati attorno alla centrale contaminando aria e suolo per più di 100 chilometri. La nube radioattiva contaminò un’area immensamente più ampia. I morti direttamente coinvolti nell’esplosione e nei primi soccorsi furono trenta, 8000 persone e circa 20 milioni di contaminati nell’ex URSS.
Quel giorno due comunità di tecnici erano presenti contemporaneamente, gli operatori della centrale, maggiormente interessati «alla tenuta complessiva dell’impianto e alle condizioni di marcia normali» e quelli venuti da Mosca che «erano orientati a “sforzare” il sistema il più possibile per eseguire il test». Le indagini successive sottolinearono i gravi errori di valutazione di entrambi i gruppi: i tecnici locali avrebbero sottovalutato irreparabilmente l’impatto del test sulla sicurezza dell’impianto, nonostante la disattivazione del sistema di emergenza di raffreddamento del nocciolo; gli operatori di Mosca, invece, non sarebbero stati in possesso delle conoscenze e dell’esperienza relative a un impianto con le caratteristiche di quello di Chernobyl. Durante le fasi cruciali dell’esperimento vennero più volte violate le procedure e norme di sicurezza.
Riassumiamo gli avvenimenti:
25/4
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Ore 13.00: il test inizia con la progressiva riduzione di potenza del reattore 4.
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Ore 14.00: viene scollegato il sistema di refrigerazione del nocciolo senza comunicazione e autorizzazione all’ente di sicurezza della centrale —> violazione delle norme di sicurezza.
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Ore 23.00: il controllore autorizza l’ulteriore diminuzione di potenza (nonostante che il tipo di reattore in uso a Chernobyl a bassa potenza diventi instabile) —> conflitto con le caratteristiche di costruzione del reattore.
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Ore 23,10: viene escluso il sistema di regolazione automatico per la discesa di potenza.
26/4
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Ore 0.28 gli operatori riescono a riportare il sistema al 7% della potenza massima e decidono di continuare il test invece di riportare l’impianto al normale funzionamento. —> È l’inizio del disastro.
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Ore 1.00: si continua il test nonostante il reattore funzioni ormai con circa 6-8 barre di controllo invece delle almeno 30 previste. —> violazione delle procedure di sicurezza.
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Ore 1.03: vengono azionate, oltre alle 6 già in funzione, altre 2 pompe di circolazione dell’acqua. —> sovraccarico della portata d’acqua ben oltre le norme previste.
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Ore 1.10: il sistema di spegnimento del reattore viene disattivato per impedirne lo spegnimento e quindi il blocco del test. Per mantenere stabile la potenza in diminuzione del reattore vengono estratte alcune delle già scarsissime barre. —> violazione delle procedure di sicurezza.
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Ore 1.22’30”: il computer avvisa che è necessario spegnere il reattore, ma i tecnici ignorano l’avvertimento e cominciano l’esperimento. —> violazione delle procedure di sicurezza.
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Ore 1.23’04”: nel nocciolo la produzione di vapore aumenta, la potenza cresce rapidamente a causa del calo di acqua.
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Ore 1.23’16”: gli operatori si rendono conto del pericolo e il caposquadra ordina il rapido spegnimento del reattore ma le barre si bloccano. La situazione è ormai irreversibile.
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Ore 1.24’00”: la prima esplosione di vapore.
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Ore 1.24’03”: la seconda esplosione, probabilmente di idrogeno, scoperchia il nocciolo e fa crollare l’edificio.
Accorsero i pompieri da Pripyat. Gli altri tre reattori continuarono a funzionare nonostante il rischio di altre esplosioni e furono spenti soltanto dopo molte ore. Continuarono a funzionare anche gli impianti di ventilazione, favorendo la contaminazione che – in caso di spegnimento tempestivo – sarebbe stata più contenuta. I tre reattori superstiti furono chiusi definitivamente nel 1992.
Oltre alle violazioni involontarie e volontarie delle norme e delle procedure di sicurezza e all’ignoranza dei tecnici, anche alcune caratteristiche specifiche del tipo di impianto furono determinanti per il verificarsi dell’incidente:
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La tendenza del reattore all’instabilità e ai salti di potenza.
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Un sistema di arresto rapido poco efficace.
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La mancanza di un vero contenitore resistente alla pressione
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La necessità, per gli operatori, di effettuare «a tutti i costi» e con risultati soddisfacenti il test – già rifiutato dalle équipe di altri impianti nucleari russi perché ritenuto troppo pericoloso.
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La scelta di effettuare il test proprio nell’impianto di Chernobyl, che in passato aveva già mostrato disfunzioni
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La segretezza che, in URSS, circondava tutto ciò che riguardava l’energia nucleare non consentì ai tecnici di venire a conoscenza che si erano già verificati alcuni incidenti a reattori simili a quello di Chernobyl (a Leningrado – uno gravissimo nel 1975 – e a Bieloyarsk) e di imparare quindi da questi «errori».
Un disastro organizzativo
La natura «organizzativa» del disastro di Chernobyl ha evidenziato alcuni limiti propri delle grandi organizzazioni, che sono sistemi troppo complessi e vasti e, al contempo, troppo rigidi per essere gestiti in condizioni di sicurezza e prevenzione del potenziale catastrofico. Per motivi di ordine economico, politico e sociale, le organizzazioni (private e pubbliche) tendono non soltanto a nascondere gli errori, soprattutto se di grande portata, ma anche a ignorare o sottovalutare i segnali di pericolo, le richieste, le proteste, i rapporti che li hanno preceduti. La nostra società tende anche ad attribuire la «colpa» di un disastro a qualcuno piuttosto che a considerare l’errore o il cattivo risultato come il prodotto di una situazione specifica. Questo tipo di valutazione fa apparire l’errore come eccezionale, eliminabile semplicemente eliminando (e punendo) il «colpevole», e non come frutto di pratiche consolidate all’interno di contesti poco efficienti.
Ho tratto tutte le citazioni e gran parte delle informazioni precedenti dal saggio Da Chernobyl a Linate, incidenti tecnologici o errori organizzativi? (il Mulino 2002) di Maurizio Catino (altre fonti sono indicate in bibliografia). L’autore sottolinea la necessità di una nuova «etica» dell’errore che consideri ogni errore di gestione non più come esperienze conoscitive negativa, non evento eccezionale da nascondere ma «fonte di apprendimento». Analizzando in maniera innovativa numerosi incidenti organizzativi di vasta portata all’estero e in Italia, Catino dimostra come l’analisi degli incidenti nelle organizzazioni dovrebbe partire non dalla ricerca dei «colpevoli» ma dallo studio delle dinamiche organizzative più ampie e delle responsabilità gestionali.
Un altro testo molto recente, Una preghiera per Chernobyl, della giornalista bielorussa Svetlana Aleksievich (edizioni e/o) utilizza un approccio «diverso» al disastro: un’indagine conoscitiva che potremmo superficialmente definire emotiva e non razionale. I termini «indagine conoscitiva» e «irrazionale» sembrano antitetici ma spero di dimostrare che non è così.
Il libro riporta alcune informazioni indispensabili a inquadrare il disastro e soprattutto i suoi effetti in Bielorussia, dove non esistono centrali nucleari (ma altre due, oltre quella di Chernobyl le sono molto prossimi: la piccola Bielorussia, con una popolazione di circa dieci milioni di abitanti ha perduto nel disastro
485 tra cittadine e villaggi. Di questi, 70 sono stati interrati per sempre. […] oggi un bielorusso su cinque vive in zone contaminate. Si tratta di 2,1 milioni di persone, fra cui 700.000 bambini […] nelle regioni […] maggiormente colpite il numero dei decessi è stato superiore del 20 per cento a quello delle nascite.
Il 70 per cento dei radionuclidi rilasciati nel disastro è ricaduto sulla Bielorussia, il 23 per cento del suo territorio è contaminato in maniera altissima. Ma Chernobyl non è soltanto un problema bielorusso: la dispersione delle sostanze volatili fu globale: il 29 aprile vennero registrate in Polonia, Germania, Austria, Romania, il 30 in Svizzera, e Italia settentrionale, l’1 e il 2 maggio in Francia, Belgio, Paesi Bassi, Gran Bretagna, Grecia, il 3 in Israele, Kuwait, Turchia, il 2 maggio vennero registrate in Giappone, il 4 in Cina, il 5 in India, il 6 negli Stati Uniti e in Canada. «Ci volle meno di una settimana perché Chernobyl diventasse un problema del mondo intero». Il resto del saggio, circa 270 pagine, è costituito soltanto di interviste: a parlare sono le persone più disparate, la prima è la moglie di un pompiere di Pripyat, accorso alla centrale nei primi minuti dopo il disastro; il marito non può testimoniare, è sepolto insieme a tutti i suoi compagni in bare di zinco e sarcofagi di piombo e cemento in un cimitero militare dedicato solo a loro: gli eroi non si possono toccare perché «sparano» come piccoli ordigni nucleari, la cerimonia è stata celebrata a passo di carica e tutti hanno preferito dimenticare. Del resto c’erano tanti altri da seppellire, a cominciare dalle prime infermiere che avevano assistito gli eroi senza le dovute precauzioni.
I vecchi contadini della regione credevano di aver già visto di tutto nella loro vita, ai tempi della seconda guerra mondiale. Si illudevano di non dover più abbandonare la loro terra, così il giorno prima dell’evacuazione un vecchio e sua moglie «avevano preso la loro vacca e, senza allontanarsi di molto, si erano nascosti nella foresta. Avevano aspettato là che tutto fosse finito. Come durante la guerra… Quando durante le spedizioni punitive incendiavano i villaggi…». Ma se la prima volta era stata una tragedia, adesso erano una perfida farsa, perché i tedeschi si vedevano, le radiazioni no, e nessuno capiva perché improvvisamente le barbabietole, le patate, i frutti del bosco invece di essere raccolti dovessero venir seppelliti a grande profondità. L’anima russa, qualunque cosa sia, è anche profondamente ironica, e ha sintetizzato la follia della situazione in barzellette fulminati:
«Si possono mangiare le mele di Chernobyl? – chiede un ascoltatore di radio Erevan. Risposta: Certo che si possono mangiare, però i torsoli vanno sotterrati molto in profondità».
Tra le testimonianze più significative quelle dei liquidatori, ossia di tutti coloro, soprattutto militari, che – più o meno volontariamente – lavorarono a sgombrare le macerie e a costruire il sarcofago del reattore, a sfollare i contadini, a impedire loro di raccogliere le patate, bere il latte delle loro mucche, portarsi via i pochi beni di famiglia o il gatto (i cani vennero abbattuti facilmente dai cacciatori incaricati, ma i gatti diedero filo da torcere…), a tener lontano i saccheggiatori. Quest’ultimo compito si rivelò virtualmente impossibile: gli sciacalli rientravano nei villaggi per svuotarli passando attraverso i boschi, esattamente come i contadini malati di nostalgia; ci sarebbe voluto un cordone umano lungo centinaia di chilometri per impedire loro di portare via ogni bene commerciabile: «Tutta la zona è stata spostata fuori della zona…», sintetizza uno dei soldati. Ed è finita, radioattiva com’era e pezzo per pezzo – servizi da tè, credenze, televisori, motociclette, abiti – sui mercati della regione, finendo chissà dove.
Ma chi convinse i liquidatori a rischiare, lavorando intorno a Chernobyl? Qualcuno di loro accettò in nome dei benefici la dacia (che molti riuscirono a godersi per poco tempo…), un appartamento più grande (sapete, vero, che nell’ex URSS la mancanza di appartamenti è cronica, al punto che la maggior parte delle famiglie coabita in spazi ristretti con altre famiglie?) o magari un posto all’asilo per il figlio (già!), La maggior parte di loro, però, era gente tosta, militari sopravvissuti all’Afghanistan e convinti (anche dopo partiti, perché le autorità furono molto parche di informazioni sui rischi e le dosi accettabili di esposizioni) di avere già visto il peggio. Invece no, perché a Chernobyl vissero una delle situazioni più assurde e allucinanti che sia dato immaginare: una natura rigogliosa e indomabile che, satura di radiazioni mortali, esplodeva in una incredibile fioritura. Eppure dovettero spiegare ai contadini che bisognava non soltanto lasciare andare in malora il raccolto, ma anche «arrotolare» prati e boschi metro a metro e seppellire la terra sotto altri strati di terra. Ma soprattutto dovettero ricoprire ciò che rimaneva del maledetto «Numero 4» giorno per giorno, armati di badili e protetti da un camice, un berrettino bianco e una maschera di garza ciascuno. Quando la «divisa» era sporca ci pensavano alcune donne a lavarla. A mano. Alcuni, le «cicogne», scavavano proprio sul tetto del reattore; lassù, a causa delle radiazioni « i robot andavano presto in avaria e i macchinari davano i numeri. Noi invece continuavamo a lavorare. E ne eravamo molto fieri». Gente tosta, appunto. Ma poco informata, come il veterano dell’Afghanistan, volontario a Chernobyl, che al ritorno regalò al figlioletto il berretto che aveva tenuto in testa per tutta la missione. Orgoglioso del padre, il bambino non lo toglieva mai: «Di lì a due anni gli hanno diagnosticato un tumore al cervello… Il resto può aggiungerlo lei… Non mi va di parlarne…».
Così tutti laggiù, cercando invano di salvare il raccolto o seppellendolo sotto quintali di terra, facendo gli eroi o gli sciacalli o sparando ai gatti abbandonati con dolore dai bambini («Non ammazzare la nostra Zulca. È una brava gatta…») diventarono «chernobyliani» reduci dalla guerra peggiore e più subdola perché «con Chernobyl è tutto il contrario [del nemico in guerra, N.d.R.]. Ti ammazza dopo che sei tornato».
Eppure, sembra incredibile, ma c’è chi a Chernobyl si è rifatto una vita. Chi ha scelto di lasciare la propria terra per stabilirsi oltre la linea invisibile che separa i chernobyliani dal resto del mondo. È gente nuova, arrivata «dopo» il disastro, che proviene dagli unici posti dove la vita è peggiore e la morte più vicina e invece di farsi aspettare ti fredda in mezzo alla strada: le zone di guerra civile, il Tagikistan, la Cecenia, la Chirghisia: «Perché siamo venuti qui? Sulla terra di Chernobyl? Perché siamo sicuri che da qui non ci cacceranno. Da questa terra. Che ormai è terra di nessuno». Gente russa che ha vissuto in pace in altre repubbliche, convinta di far parte di un grande paese socialista e si è ritrovata improvvisamente ad abitare abusivamente nella «patria» di qualcun altro:
Abbiamo perso due patrie in una sola volta: il nostro Tagikistan e l’Unione Sovietica […] come vanno le cose laggiù? cosa sta succedendo Ma io non voglio neanche saperlo.
La gente mi fa delle domande… Si meraviglia… Non capisce: «Vuoi ammazzare i tuoi figli?». Non li ammazzo, li salvo… Ma lo vedete o no che a quarant’anni sono già tutta bianca?!… Restano a bocca aperta… Non capiscono: «Porteresti i tuoi figli in un posto dove c’è la peste o il colera?» So cosa significano la peste e il colera, è da lì che vengo…
E c’è persino chi nel paesaggio lunare della città evacuata, coglie finalmente tutta l’assurdità della retorica di partito: tessere della Gioventù comunista, diplomi di merito dispersi per le stanze vuote, i cartelloni della propaganda di regime, i ritratti dei Capi a guardia di luoghi morti, ha imparato a essere libero: «Mi ci sono voluti tre anni… tre anni… per restituire loro la mia tessera di partito. Il mio libretto rosso… E così mi sono liberato proprio nella zona recintata… Chernobyl mi ha fatto esplodere il cervello… Sono diventato un uomo libero…»
Il libro è terribile, eppure a tratti si ride, esattamente come rideva la gente là, per non lasciarsi morire, raccontandosi freddure sul tempo di dimezzamento di una torta radioattiva a Kiev o barzellette sulla riluttanza dei «volontari»
Un marito torna dal lavoro e si lamenta con la moglie. Mi hanno detto: «Domani o vai a Chernobyl o restituisci la tua tessera del partito». «Ma tu non sei nel partito! «Appunto, è proprio questo che mi preoccupa: dove la trovo per domattina una tessera del partito da restituire?»
Sì, sul piano umano Una preghiera per Chernobyl va letto assolutamente. Ma voi, forse, siete ricercatori, docenti, cittadini informati convinti che da una parte ci siano la gente, il dolore, la tragedia, le vicende personali, il «fattore umano» e tutto ciò che riguarda la dimensione «politica», e, dall’altra parte, ben separata da un fossato invalicabile ci siano l’oggettività scientifica, le norme di funzionamento che devono essere (e non sono state) rispettate, le analisi di rischio, le probabilità che un simile macello si verifichi. Una preghiera per Chernobyl sta indiscutibilmente nella prima parte del campo, mentre il libro di Catino sta nella seconda. Ma siete proprio sicuri? Siete certi che le analisi del rischio abbiano a che fare soltanto con i numeri?
Certo, si può valutare anche il «fattore umano», la probabilità che gli operatori «sbaglino», che, ad esempio, si addormentino in servizio, o che vadano a prendersi un caffè alla macchinetta in fondo al corridoio proprio mentre vira al rosso l’indicatore (l’INDICATORE che tutti i film ispirati a Chernobyl e a Three Miles Island a un certo punto mostrano in primo piano mentre la colonna sonora sale di tono).
Ma è sufficiente conoscere la percentuale di «rischio» per decidere? L’antropologa Mary Douglas, in Rischio e colpa (il Mulino, 1996), sostiene che il problema è molto più complesso.
Nel suo saggio (che non parla di Chernobyl perché fu scritto nel 1989, quando il disastro era ancora troppo recente per essere valutato da un punto di vista antropologico) Mary Douglas inquadra il problema del rischio accettabile nell’ambito delle scienze sociali, partendo dalla constatazione che le crescenti conoscenze umane e le loro ricadute tecnologiche non sono sufficienti a proteggere l’umanità dal «rischio» (e forse lo hanno aumentato). Quanto pesa sulla valutazione del rischio il fattore umano, inteso come individuo e come «struttura generale dell’autorità nell’istituzione»?, si chiede Douglas, e qual è il ruolo della coscienza individuale e collettiva nella definizione di rischio e di responsabilità?
Il concetto di rischio è emerso a poco a poco da una elaborazione matematica della teoria delle probabilità del gioco d’azzardo. Il concetto di aspettative basate su modelli di frequenze ha preso il posto delle vecchie teorie della causalità in tutte le scienze.
L’idea comune degli analisti del rischio è che l’uomo della strada fatichi a pensare in termini probabilistici. Una delle questioni affrontate nelle ricerche sulla percezione del rischio è: gli individui sono in grado di percepire gli eventi poco probabili? E come li percepiscono?
Nei tardi anni cinquanta si diffuse un generale ottimismo sulla possibilità che l’energia nucleare avrebbe assicurato al mondo una condizione permanente di prosperità […]. Si credeva che fossimo capaci di riconoscere i pericoli concreti, quelli la cui cause sono oggettivamente identificate, sostenute dall’autorevolezza di validi esperimenti e di valide teorie.
Col passare degli anni, però, la situazione si rivelò ben diversa; sul finire degli anni settanta, mentre già dominava un capitalismo disposto, per difendere i propri interessi immediati, a mettere in pericolo i lavoratori e i cittadini, a sperperare le risorse ambientali del pianeta e a ipotecare il futuro di tutti, cominciò a emergere una nuova figura professionale: l’analista del rischio.
Visto alternativamente come difensore dell’ambiente e dei diritti umani o come «servo» del capitalismo e come ammortizzatore del conflitto sociale ed economico, l’analista (se onesto) aspira a valutazioni «oggettive», asettiche, non influenzate da convinzioni personali o politiche; si sforza quindi di esprimere il «rischio», cioè l’entità delle perdite e dei guadagni che una certa scelta comporta, nel linguaggio neutro della probabilità relativa. Ma questo modo di presentarlo, concentrato esclusivamente sulla capacità cognitiva della società e degli individui, lascia sistematicamente in ombra il «fattore umano», i rapporti sociali, i contesti culturali di chi scegliendo provoca il rischio, di chi lo valuta e di chi potrebbe subirne le conseguenze. La valutazione del rischio, dice Mary Douglas, deve necessariamente essere «politica», perché «politiche», ossia collettive, ne sono le conseguenze; il linguaggio asettico dei numeri, in realtà, elude il problema, perché le questioni etiche e politiche, così come l’arco temporale di rischio sono molto più vicini e chiari per la mente umana di una classifica percentuale.
Per spiegare il concetto mi servirò di un esempio citato dall’autrice.
Per una futura madre, è meglio correre il rischio di avere un figlio affetto da sindrome di Down (poniamo 1 probabilità su 200, a una certa età della donna) o correre il rischio che l’amniocentesi danneggi il feto? (1 su 100). La prima alternativa è più sicura, ma le considerazioni etiche sulla difficoltà e sull’angoscia, protratte nel tempo, di allevare un figlio nella prima ipotesi (e di decidere della vita di un altro) pesano quasi sicuramente di più dei numeri. Una madre sicuramente valuta (dando poi la risposta che ritiene più «giusta») in base alla percezione e alla comprensione del «rischio» – dell’entità del pericolo, non della sua probabilità – escludendo quella che ritiene l’eventualità peggiore.
In altre parole, la vera questione è l’accettabilità del rischio, non la sua probabilità; l’analista potrà anche dire che la possibilità di fusione del nocciolo di un certo impianto è estremamente bassa, ma solo politicamente è possibile decidere se il rapporto costo/benefici della – improbabile, certo(!) – fusione e la durata nel tempo dei danni (parliamo di almeno centinaia di anni, vero?) non sia troppo alto per essere accettabile.
Inoltre va tenuto presente che, nella nostra società globale, i rischi non sono equamente distribuiti. I paesi ricchi spediscono le loro scorie tossiche a quelli poveri, li spingono a ridurre drasticamente le foreste, affidano loro benevolmente le produzioni più «sporche», sperperano e inquinano in misura inaccettabile le risorse di tutti. Anche al loro interno, sono sempre le classi sociali più povere a effettuare le lavorazioni più pericolose, ad avere scarso accesso a cure costose e a essere meno tutelate. Che senso ha, allora, parlare di rischio in termini puramente numerici e senza tener conto della percezione individuale e sociale del rischio?
La contadina cecena che ha trovato a pochi chilometri dal reattore un rifugio dove ricominciare a vivere, sia pure per un tempo limitato, è disposta a correre un rischio che io non correrei mai, a meno che, s’intende, non avessi davanti prospettive di vita ancora minori e peggiori. Entrambe conosciamo i numeri. Ma io sono qui, e lei ha «scelto» di stare là (ma si può chiamare scelta la sua, tra una morte e un’infelicità quotidiane e un’alta probabilità dilazionata nel tempo?). (Solo) per gli analisti del rischio siamo uguali. E ancora: il veterano dell’Afghanistan, con il suo peculiare modo di considerare il mondo e il soldato appena sposato, non hanno la medesima percezione del rischio (numericamente uguale) di «morire di Chernobyl»; il primo si offre volontario, il secondo rifiuta di andarci; forse la loro diversa situazione li influenza sino al punto di capire diversamente le (poche e poco chiare) spiegazioni date loro dai superiori e dai medici. Più in generale, comunque, le cifre vere non sono state rese note ai «volontari» né è stata loro dato un equipaggiamento idoneo. Hanno affrontato Chernobyl quasi a mani nude. Quanto valutavano la loro vita le autorità sovietiche? Quanto la valutavano i governi occidentali che invece di affidare il disastro alle Nazioni Unite sono rimasti a guardare?
Siete ancora sicuri, come gli analisti del rischio ortodossi, che sia tutta e soltanto una questione di numeri?
Il modo in cui noi analizziamo comunemente il comportamento delle persone di fronte ai rischi è scorretto, proprio perché separa una particolare questione del rischio dalle questioni morali e politiche in cui la persona normalmente la vede incorporata […] invece di isolare il rischio come problema tecnico, dovremmo formularlo in modo da includere, per quanto rozzamente, le sue conseguenze morali e politiche.
Gli analisti del rischio e gli psicologi della percezione del rischio cercano di diffondere un’idea di rischio accettabile indipendente dalle fedi politiche, ma i problemi della percezione del rischio sono essenzialmente politici. Congressi e parlamenti rinunciano all’esercizio delle loro specifiche funzioni quando delegano questi problemi agli esperti del rischio. I dibattiti pubblici sul rischio sono dibattiti sulla politica […] trattare l’accettabilità del rischio come un fatto tecnico indebolisce la sovranità. Congressi e parlamenti dovrebbero riappropriarsi delle proprie competenze.
Quindi anche noi cittadini quando deleghiamo le decisioni agli esperti rinunciamo a un dirittto/dovere che è nostro. Perché scegliere, soprattutto nel caso di eventi improbabili di grande impatto catastrofico, non può essere lasciato agli esperti: è un atto politico, ha a che fare con la visione del mondo, con le aspettative per il futuro, il nostro e quello dei nostri discendenti. Come possiamo pretendere di caricarlo sulle spalle di pochi «eletti»? Eletti democraticamente – forse – ma pochi e, in nessun caso, neutrali e «apolitici». Ma allora si pone il problema, enorme specialmente nel nostro paese, degli strumenti indispensabili per scegliere: dimestichezza con i quotidiani e con le fonti di informazione, accesso a una buona divulgazione scientifica… Informazioni attendibili. Informazioni visibili. Perché le notizie ci sono, compaiono, ma chi di noi riesce a leggerle, mentre sfoglia un po’ stordito e un po’ trafelato le pagine dei quotidiani e dei settimanali? Chi le vede, disperse fra altre centinaia di un’attualità sempre più minacciosa e la «consolazione» di moda costume, nuove tendenze? prendete questa, ad esempio, comparsa su D, supplemento a «Repubblica», il 19 ottobre 2002:
La Tokyo Electric Power Co (Tepco), il più grande operatore giapponese di impianti nucleari, ha infatti ammesso di aver falsificato i risultati delle ispezioni sulla sicurezza compiute in tre importanti centrali in cui si trovano 15 reattori. La società ha rivelato l’esistenza di incrinature, perdite e altri guasti che risalgono addirittura al 1986. Un’incredibile svista che fa dire a Yoichi Kikuchi, assistente presso l’Università di Kagoshima ed esperto di impianti nucleari della General Electric: «In caso di terremoto, avremmo rischiato una seconda Chernobyl o Three Miles Island». La Tepco, naturalmente sostiene che, al di là di tutto, i suoi impianti non pongono problemi di sicurezza… Ma… bè. andatevi a cercare la notizia nell’archivio del giornale, così scoprirete anche che tre anni fa a Tokaimura, un tentativo raffazzonato di mescolare combustibili nucleari aveva rischiato di provocare un’autentica catastrofe a soli 125 chilometri da Tokyo.
Allarmismo? Necessità di montare un caso per riempire qualche pagina? Sinceramente non lo so, ma non ho letto smentite successive. D’altra parte, la smentita potrebbe essermi sfuggita, anche se normalmente sono attenta a questi argomenti. Cosa dicevo della visibilità delle informazioni? Succederà a molti altri lettori, posso consolarmi. O no?
E cosa devo pensare delle 1185 barre con il combustibile del reattore sigillato di Caorso ? Sono al sicuro, i tecnici della centrale montano la guardia, ma che ne faremo? Le lasceremo sempre lì, al costo di 150 mila euro la giorno per il personale e la gestione della centrale (dati riportati dal Venerdì di «Repubblica» del 18 ottobre)? Le riporteremo in superficie (come sembra intenzionata a fare la Sogin, la società che controlla attualmente le centrali nucleari), chiudendole in pesanti bare d’acciaio del costo di 20 milioni di euro? Sistemeremo le bare d’acciaio in un nuovo capannone, un «sito temporaneo dei rifiuti» che il comune di Caorso, temendo che, come spesso accade in Italia, «temporaneo» sia sinonimo di «a tempo indeterminato», non ha nessuna intenzione di ospitare? Non intendo dire che là sotto, nel reattore, le barre di combustibile siano un rischio… Ma non possono restare laggiù per sempre. O sì?
Non lo so. Ed è appunto questo, uno dei fattori di rischio. Non so. Così, se abitassi a Caorso e se venissi interpellata, non saprei decidere, dovrei dire «facciano gli esperti». E come stanno le altre centrali, a Latina, a Trino Vercellese, a Garigliano?
Svetlana Aleksievic , Una preghiera per Chernobyl, edizioni e/o, pp. 300, € 14,00, Trad. S. Rapetti
Idem in e-book, € 6,99
Maurizio Catino, Da Chernobyl a Linate, incidenti tecnologici o errori organizzativi?, Il Mulino 2002, € 22,00
Mary Douglas, Rischio e colpa, il Mulino, 1996, fuori catalogo, reperibile a mezzo OPAC SBN (http://www.sbn.it/opacsbn/opac/iccu/free.jsp)
Ulteriore bibliografia
Gale, R. P. e Hauser, T., La nube, Sperling & Kupfer, Milano 1989.
Read, P. P., Catastrofe, la vera storia di Chernobyl, Sperling & Kupfer, Milano 1994
Video da Focus sull’attuale situazione di Chernobyl: «La vita dopo Chernobyl», 44 min.
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