Protagonista una bambina/ ragazzina di anni dieci che ricorda le strane storie di un’estate torbida e trasognata. Spinta dalle proprie personali curiosità e da quelle di alcuni altri ragazzi di poco più grandi, ha infatti rapidamente percorso l’intero spettro della sessualità adulta, dai goffi brancicamenti iniziali alle esibizioni sadomasochiste a beneficio di ignoti pedofili. Ciò che resta in lei è cenere, una persistente sensazione di vuoto e uno stupore vago che non riesce a farsi coscienza.
La durezza del tema e la rapidità quasi letale con il quale viene condotto fino alla parola Fine ha abbagliato numerosi lettori, sbaragliato critici, debellato benpensanti. Lo stile di Vinci, sia chiaro, non ha nulla di particolarmente nuovo, basato com’è sull’ormai consueta paratassi molto scandita, coordinata in periodi altrettanto ultimativi, ma riesce comunque a indurre il lettore a continuare, per metà infastidito e per metà affascinato da tanta ruvida franchezza.
… Un libro astuto… certamente sa scrivere… come si insegna nelle scuole di scrittura… ma è troppo affrettato, troppo studiato, troppo “vero” per essere vero…
Si tratta di un parere colto al volo in una discussione in libreria, tanto incisivo e definitivo che devo faticare per riuscire ad aggiungere qualcosa di mio. A ripensarci a distanza di tempo sono stupito di come sia facile costruire una trappola basata sui buoni sentimenti dei lettori (e forse anche di chi scrive). Mi spiego: per dir male senza remore del romanzo di Simona Vinci bisognerebbe essere perlomeno Susanna Tamaro, eventualità che qualunque essere appena senziente cerca di evitare. Conseguentemente, o si fanno smorfiette o si grida al romanzo miracoloso che finalmente racconta la sessualità infantile. A pochi viene in mente di leggerlo per quello che è: una cronaca affrettata di emozioni magari genuine ma gonfiate fino al grottesco grazie all’aggiunta di ingredienti di sicuro effetto e di grande attualità, come la droga, la pedofilia e il sadomasochismo, una triade che riesce ad animare anche le pagine di cronaca cittadina dei giornali locali.
A distanza di due mesi dalla prima lettura mi sono stupito per la deplorevole mancanza di immigrati, AIDS ed Internet. E anche di stragi del sabato sera. Ma forse Simona Vinci, visto il successo del suo primo romanzo, riuscirà portarne a termine un altro che non deluderà i fan di questi ulteriori grandi temi.
Si tratta di una raccolta di racconti, chiaramente improntati ai modi e al registro del racconto gotico e in particolare ispirati alla sua vena insana, raccapricciante e decadente. Vinci racconta di emozioni estreme, sensazioni al limite del tollerabile, visioni e gesti crudelmente onirici, senza essere in grado, tuttavia, di preparare adeguatamente all’orrore e al raccapriccio, anzi pretendendo che orrore e raccapriccio siano condizioni naturali, che non richiedono preparazione narrativa né eccessiva abilità.
Il risultato è di tipo collezionistico: una collezione di perversioni oscure e definitive, visitate in racconti mal congegnati (nell’incipit, nello svolgimento o nel finale), nei quali le emozioni estreme sono esibite e non nascono da reali necessità del testo, apparendo largamente gratuite, immotivate o enfatiche. Vinci si sforza di inscenare arcane pulsioni e torbidi istinti – quando non ricorre ai più ovvi terrori d’attualità, come l’Aids in Da solo o l’infanticidio possibile in Agosto Nero – enumerati sempre in forma di effetti raccapriccianti e mai in forma di coscienza dei personaggi. Manca così al lettore il grado profondo dell’orrore, quello immaginato e temuto prima che visto. I personaggi di Vinci si accostano al macabro spinti da infantili curiosità, da una pulsione meccanica alla distruzione/autodistruzione, cifra – nelle intenzioni dell’autrice – di un rapporto alienato con gli oggetti estesosi fino a comprendere il corpo. Ma disgraziatamente non è sufficiente esibire anoressie, torture autoinflitte, imprevedibili contatti tra amore e morte per ottenere l’effetto voluto. La semplicità, la brevità delle frasi, l’irritante approssimazione nel lessico (sbrilluccichio, smangiato, il fruscio dei sassolini) e nella descrizione di emozioni e luoghi, anche se vengono adombrate come meditata secchezza, ritrosia davanti all’indicibile, si rivelano ben presto pura e semplice immaturità espressiva.
Sicuramente talune atmosfere, alcune luci e stanze dei suoi racconti riescono a creare inquietudine, ma la delusione è praticamente certa da lì al prossimo ritorno a capo. Che una principiante del gotico sia riuscita a ottenere paginate e paginate di recensioni e interviste è ovviamente singolare. Ma forse no.
Simona Vinci, Dei bambini non si sa niente, Einaudi Stile Libero 1997, 2009, pp. 168, € 11,00
Simona Vinci, In tutti i sensi come l’amore, Einaudi Stile Libero 1999, pp. 201, € 9,80
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