Brian Fagan
La lunga estate
Codice
€ 29,00
trad. A. Conti
Pochi mesi or sono, il primo ministro giapponese si è presentato alla stampa in maniche di camicia – un’infrazione all’etichetta notevole, in un paese formale come il Giappone.
Il signor Koizumi ha poi spiegato agli astanti che il progressivo riscaldamento del nostro pianeta è anche provocato dall’uso eccessivo di condizionatori. Se tutti si presentassero al lavoro senza giacca, ha detto, si potrebbe abbassare la regolazione dei condizionatori, risparmiare energia e fare qualcosa per tamponare il riscaldamento globale.
Ed i sarariman giapponesi si sono tolti la giacca, come un sol uomo, e hanno abbassato il termostato.
È una goccia nel mare, certo, ma come fa notare David Mitchell nel suo ultimo romanzo, il mare non è forse fatto di gocce?
E dire che Koizumi-san non mi era neanche mai stato molto simpatico.
Ma rimane il problema costituito della complessità, e dalle conseguenze della evidente ciclicità delle variazioni climatiche, e semplicemente chiudere gli occhi e dirci che tanto non è colpa nostra non servirà a nulla.
Per farci un’idea di come e perché il clima sia ancora una pistola puntata alla testa della nostra civiltà, Codice pubblica il bel volume (uscito nel 2004 in originale) dell’archeologo Brian Fagan.
Si tratta di una classica edizione Codice, curata e piacevole, anche se un po’ costosa (ma l’impressione è che tutti i libri seri, ormai, siano alquanto pesanti sul bilancio); la traduzione non è proprio perfetta, ma nonostante un paio di brutture il testo è scorrevole e l’argomento interessante anche per chi non soffre d’ansia da degenerazione climatica.
E’ un libro di archeologia, di quelli sulle antiche civiltà scomparse, quello che ci presenta Fagan, ed è qui l’astuzia della sua trovata.
Perché, per cambiare, Fagan non si concentra sugli effetti delle attività umane sul clima, ma sull’esatto opposto – sugli effetti del clima sulle attività umane.
Tracciando una storia climatica della civiltà umana, da circa 20.000 anni or sono ad oggi, Fagan porta avanti l’ipotesi – che sarà antipatica a molti – che la nostra civiltà sia il prodotto di scelte compiute dai nostri antenati per fronteggiare le variazioni climatiche ed in particolare il surriscaldamento della Terra a partire dall’ultima fase glaciale.
Esiliati su un mondo nel quale i ghiacciai si stavano ritirando, e con loro le grandi mandrie di mammut e bisonti lanosi, i primi abitanti della terra (una banda sparuta e malandata), dovettero decidere una strategia di sopravvivenza.
E così, con un occhio al barometro e l’altro a vasti eventi geologici che attivano o disattivano i termostati del nostro pianeta, Fagan ci conduce dalle bande di cacciatori sub-artici ai primi cacciatori-raccoglitori, passando per la scoperta di ago e filo (abiti migliori, miglior risposta ai cambiamenti del tempo) e la creazione dei primi cicli mitici (storie tramandate per generazioni di antiche cacce). Eventi sull’altro lato del globo rendono fertile la Mezzaluna Fertile, ed i cacciatori-raccoglitori diventano agricoltori, fondano città, nazioni, imperi.
Il tempo atmosferico, tuttavia, non è bello o brutto, in Fagan, ma solo una forza darwiniana che agisce sulla civiltà, operando a volte come una pompa, che aspira forme di vita in questa o quell’area, a volte come il motore di vasti nastri trasportatori, che ridistribuiscono le risorse sul pianeta.
Gli uomini si adeguano, le società cambiano, gli imperi collassano, le città muoiono davanti all’avanzata della siccità.
C’è poco di consolatorio o di auto-congratulatorio ne La Lunga Estate.
Se è vero che la tendenza al riscaldamento si è impostata ben prima della comparsa della civiltà, figuriamoci poi del motore a scoppio (ripetiamo tutti in coro: “Allora non è colpa nostra!”), è innegabile che l’attività umana abbia portato a concentrazioni di gas serra del 20% superiori a quelle previste dai modelli.
Ed il vero problema non è quello.
Non si tratta di stabilire se la vostra auto incida sulla desertificazione del Maghreb (o più vicino a noi, di una buona parte della Sicilia).
La questione, e Fagan ce lo dice chiaro e tondo fin dall’introduzione, è che mano a mano che il clima si assestava su una tendenza calda, la nostra civiltà si è assestata su un modus vivendi che ha ricavato, da quella tendenza, il massimo vantaggio.
Quando il cambiamento climatico arriverà (e non si tratta di stabilire se arriverà, ma quando), molto probabilmente il modello di società corrente non sarà in grado di far fronte all’emergenza.
La civiltà umana crollerà – come ne sono crollate altre in passato.
Con un piccolo extra per i nostri incubi – a differenza delle civiltà suicide del passato, la nostra sta per estendersi a tutto il pianeta, ad ogni suo abitante.
Quando (non se) arriverà il collasso, non ci saranno sopravvissuti.
Finora, infatti, la salvezza del genere umano è stata garantita dagli “altri” – quelli che vivevano fuori le mura ed oltre i confini, i barbari, quelli che non erano cittadini dell’impero, che stavano nei boschi o fra le colline e si potevano fare avanti, smagriti dopo il crollo, per ricominciare da capo.
Colpiti ma non travolti dalla crisi, temprati dalla sopravvivenza a condizioni miserevoli, spesso questi pochi individui potevano ripopolare un continente in una mezza dozzina di generazioni. Ma ormai quei piccoli gruppi non esistono più, sono in via di omologazione o si stanno estinguendo.
Non solo la nostra civiltà ha deciso di suicidarsi (non fate quella faccia – lo ha deciso quasi settemila anni or sono, in Mesopotamia, quindi non è colpa vostra) ma ha deciso anche (e molto più recentemente, e qui è meno facile scaricarsi la coscienza) di pagare a tutti gli abitanti del pianeta il biglietto di sola andata verso l’oblio.
Succede.
E’ già successo.
Leggere La Lunga Estate è al contempo un’esilarante viaggio nelle conquiste dell’umanità, ed un severo monito riguardo alla prossima fermata in questo viaggio di conquista.
la versione integrale di questa recensione apparirà sul numero 35 di LN-LibriNuovi, disponibile da settembre 2005