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    Magazzino

    Luoghi dove sopravvivere. L’importanza dello sfondo

    • di Silvia Treves
    • Luglio 24, 2012 a 2:58 pm

    di Silvia Treves



    Quali sono gli elementi fondamentali di una storia? La vicenda, i personaggi, le loro azioni e i loro pensieri, i dialoghi. Oh sì. Ma riuscite a immaginarvi una storia che avviene nel nulla? 

    Io sì, un nulla grigio, solcato da lievi bagliori simili, simile a quello che riempiva lo schermo del televisore quando – io ero piccola – le trasmissioni televisive cessavano, a tarda notte. Un nulla silenzioso e insinuante, che riempie le orecchie e la mente di non-rumore, che si insinua nelle narici e fra le labbra strette, inodore, insapore, eppure soffocante come morbida, minacciosa ovatta. Un niente insopportabile, nel quale il mio corpo galleggerebbe, privo di peso e di punti di riferimento, i canali semicircolari senza più segnali, gli organi di Corti impazziti… Accidenti com’è faticoso descrivere il nulla. E non appena l’ho descritto, questo nulla, caratterizzato soltanto dall’assenza di tutto e dalla presenza di niente, diviene qualcosa, acquista il peso delle mie parole, il colore – grigio – che la mia immaginazione o il mio capriccio vogliono attribuirgli, e suoni silenziosi e guizzi invisibili e odori e sapori senza nome. Il nulla è diventato lo Sfondo, il background, un paesaggio, anche se privo di colore. Il mondo indispensabile alla storia quanto i personaggi e l’intreccio.
    Non di rado lo sfondo diventa – se non protagonista – almeno comprimario della storia. È più di una quinta teatrale, di una scenografia. È il Mondo. E di questo mondo – metropoli, piccolo porto destinato a diventare il centro del mondo, cittadina di provincia dove nulla di male può accadere – l’autore ha urgenza di parlarci, tanto quanto, o forse più ancora che, dei personaggi che vi si muovono. Come accade per i tre libri che seguono.


    Atti privati in luoghi pubblici di Derek Raymond è un coraggioso esperimento che, senza forzature, esplora la società inglese dei primi anni Sessanta, vista con gli occhi di alcuni aristocratici costretti a fronteggiarne i radicali cambiamenti innescati dal recupero dell’economia inglese dopo il periodo di austerità e razionamenti del dopoguerra.

    I blasonati costretti a fare i conti con il mondo sono tutti imparentati fra loro: i cugini Mandip e Viper, trentenni, vivono sui desideri e i vizi altrui gestendo una catena di pornoshop; la cugina Beatrice è la velleitaria «contestatrice» di famiglia che vive nella soffitta del castello e mangia in cucina insieme ai domestici, e finisce ogni discorso con una tirata sui «borghesi»; sua sorella Lydia, l’unica vera ribelle, affonda nel mondo che Viper utilizza per arricchirsi; la loro madre, la terribile Lady Quench che brandisce le convenzioni sociali come uno scudo, mantiene il costosissimo castello mettendolo a disposizione dei turisti durante il week end. Lo sfondo sine qua non della storia è la Londra dei Beatles e degli Stones, di Carnaby Street e di Mary Quant, quella che, nel 1960, assolve finalmente L’amante di Lady Chatterleydall’accusa di oscenità e che «The Time», nel 1966, definisce «London: the Swinging City». La Londra di Satisfaction (1965) e dell’antipsichiatria (L’io diviso di Ronald Laing è del 1956), di Ricorda con rabbia (1956) e dei teenagers. La Londra descritta da Arancia meccanica di Antony Burgess (da cui fu tratto il film di Kubrick), da Absolute Beginners di Colin MacInnes, (dal quale, nel 1986, Julian Temple trasse l’omonimo film).
    Nulla di tutto ciò viene direttamente citato nel forte romanzo di Raymond, ma l’ondata irresistibile della Swinging London ha già invaso da tempo la vita e la mente dei cugini trascinandoli al largo; Mandip vi reagisce con una introspezione sterile che lo condanna a essere un eterno, angosciato spettatore; Viper con la determinazione razionale a studiare gli eventi e coglierne ogni occasione:

    C’era solo un tempo per lui: il presente. Nel presente erano contenuti tutti i fatti concreti. Se li studiavi bene, i fatti, e li interpretavi correttamente, guadagnavi un mucchio di quattrini e alla svelta.


    Lydia, spinta da un rifiuto radicale e autolesionista dell’ambiente ipocrita da cui proviene, si lascia usare da chiunque e paga ostinatamente con se stessa (la frase abusata «sulla propria pelle» qui non è affatto fuori luogo) sino alla fine.

    Era il sorriso di una che conosce molte cose sul proprio conto, ma è paralizzata e tutta la sua conoscenza non le impedisce di continuare a comportarsi nel modo sbagliato.

    Beatrice continua a vivere nel proprio Aventino, senza rischiare nulla.
    Nella realistica ed estrema visione di Raymond, le vicende personali dei quattro giovani, di Lady Quench, di Odion, il miliardario greco che vorrebbe salvare Lydia da se stessa, e di una pletora di piccoli arrivisti che ancora bussano alla porta di questa aristocrazia consunta, risultano così varianti di un mondo che preme inelusibile, il vero protagonista del romanzo, che travolge tutti gli strati sociali, dagli aristocratici fuori tempo massimo:

    Erano rimasti malamente ammaccati in seguito al mutamento di sorte che li aveva esclusi dai vantaggi goduti dai loro antenati. L’educazione ricevuta li aveva trovati inadeguati alle novità […] Pur odiando nel profondo il nuovo stato di cose, si erano ridotti a soddisfare – per profitto – i gusti sessuali perversi della nuova società […] Erano immorali. A Viper non gliene fregava niente […] Agli occhi di Viper, immorali erano tutti quelli che lui conosceva, dal primo all’ultimo. Nel loro modus vivendi pullulavano i germi della loro morte, ma […] in ciò Viper non vedeva un castigo, non ne aveva paura…

    ai turisti che si illudono, visitando l’antica dimora di Lady Quench, di afferrare un po’ del fasto e del potere di un tempo:

    I visitatori vagavano attoniti come tanti prigionieri politici (cosa che erano davvero secondo Viper, che aveva un’idea realistica della «democrazia» britannica) […] E più quelle persone – che sembravano avere rinunciato a ogni individualità con le loro sigarette, le utilitarie e le macchine fotografiche da due soldi – si avvicinavano alla villa, più la villa se ne rideva di loro, bersagli della sua ilarità, del tutto inconsapevoli che stavano pagando per esserne l’oggetto.

    Agli altri, quelli che vivono ai margini della Londra dei felici Sixties

    I nullatenenti, i malaticci, i falliti, i disoccupati, i votati al suicidio. Non c’era semplicemente posto per tutti loro: per sfangarla dovevi avere fegato o fantasia, o tutte e due le cose, oppure al pari di lui qualcuno che ti dava una mano. C’era insomma troppa gente, nella swinging London, troppi malati, pazzi, decaduti.

    Crudo, sostenuto da una forte tensione etica e talvolta da un umorismo feroce, Atti privati in luoghi pubblici è, per quanto mi riguarda, il miglior testo di Rayomond, vergine dell’amarezza ripiegata su se stessa dei romanzi del ciclo della Factory, un unicum di energia e di nefandezze profuse a piene mani ma mai evocate invano.


    La città fantasma di Patrick McGrath è costituito da tre racconti che colgono New York in tre momenti topici della sua storia e della Storia del mondo occidentale.

    Il protagonista de L’anno della forca racconta, mezzo secolo dopo, un episodio della guerra d’indipendenza americana vissuto a dieci anni. Figlio di una donna profondamente coinvolta nella causa degli insorti, il narratore è testimone e vittima di un conflitto lungo e quotidiano, che di grandioso ha soltanto la testarda volontà degli «americani» di liberarsi degli inglesi. In poche pagine vengono ricordate senza retorica l’arrivo in porto della gigantesca flotta inglese, le sconfitte subite da Washington, i lutti quotidiani, la gente stremata: «prima trasformata in un accampamento fortificato, poi cannoneggiata per intere giornate, infine invasa dai britannici, adesso la città era devastata dall’incendio».
    In qualche modo parente di Martha Pike, L’anno della forca disegna una bella figura di donna:

    La mamma era l’unico elemento certo e stabile in quel mondo rovesciato. […] Si trattava di una donna orgogliosa – ricordo il modo in cui litigava con mio padre, picchiandolo sul petto […] lei non cedeva di un’unghia. Era ostinata e schietta, e si difendeva valorosamente.

    Armata delle proprie convinzioni politiche, la donna riesce a tenere insieme la famiglia durante l’invasione, incoraggia gli scampati a costruirsi capanne e baracche (l’insediamento precario chiamato Canvas Town, la «città di tela») e affronta il rischio tutt’altro che remoto dell’impiccagione. La sua sorte lascerà segni indelebili nel ragazzino di allora.
    Per nulla oleografico il racconto si sostiene sul gusto, tipico di McGrath, di raccontare personaggi apparentemente ordinari, che diventano estremi e simbolici grazie al lavoro di cesello della sua scrittura, all’attenzione minuziosa ai gesti, agli sguardi, ai mezzi sorrisi, agli espedienti – compresi gli incubi, il delirio e la pazzia – che, loro come tutti noi, mettono in atto per tenere a bada il mondo.
    Julius, narrato dalla nipote dei protagonisti, comincia proprio al termine del racconto precedente, quando Noah Van Horn, abile e aggressivo mercante che reinveste i capitali accumulati in tutti i settori redditizi dell’epoca, si sposa con una ragazza molto più giovane. Frutti del matrimonio sono tre figlie e, finalmente, Julius, il sospirato erede. Rimasto vedovo, Noah governa la propria famiglia con pugno di ferro mitigato dagli interventi prudenti ma determinati delle ragazze. Vittima della sua severità è il figlio, un ragazzo dolce e sognatore, totalmente inadatto a occuparsi d’affari, che il padre vorrebbe trasformare nell’erede del suo impero. Quando finalmente le figlie riescono a convincere Noah ad assecondare le velleità artistiche di Julius, il mercante decide di cercarsi un successore alla sua altezza… La mancanza di scrupoli del nuovo erede e l’assoluta mancanza di realismo di Julius cambieranno il destino della famiglia.

    Patrick McGrath

    Da un soggetto degno di un drammone, condito d’amore-morte, ascesa sociale, caduta e follia, McGrath ha creato l’occasione per disegnare personaggi a loro modo grandi che catturano il lettore: le figlie devote ma decise, l’erede adottivo senza scrupoli eppure vulnerabile, il maestro di pittura di Julius, che insegue il sogno di creare «un’arte americana: un’arte che non imitasse quella europea, ma piuttosto che l’assimilasse, la trascendesse» rappresentando, nei «suoi paesaggi vergini e infiniti», il vero spirito della nuova America.

    Anche in questo racconto, New York è suggestiva comprimaria e, ormai avviata a diventare metropoli e mercato più importante del mondo, continua a trasformarsi sotto gli occhi ammirati di Julius, tornato a casa dopo vent’anni di assenza:

    La giornata era nuvolosa, e minacciava pioggia. Svoltò un angolo e, improvvisamente, di fronte a lui – a riempire il cielo, emergendo da un punto vicino all’East River, nei pressi dell’estremità dell’isola – ecco un monumentale blocco di pietra che torreggiava sopra i tetti, scavato da due altissime arcate.
    Per la meraviglia non fu in grado di muoversi per qualche minuto […] Poi nella luce incerta, scorse i cavi che scendevano verso il fiume, ancora invisibile dietro ai palazzi, e capì che era un ponte.

    Ground Zero completa il trittico narrando, per bocca di una psicoanalista non più giovane, l’incontro di Danny e Kim, pochi giorni dopo l’Undici Settembre. Il trentasettenne Dan è un avvocato impegnato sul fronte dei diritti civili, in terapia da molti anni per sciogliere il nodo di un rapporto soffocante con la madre; Kim è un’attraente artista quarantenne che arrotonda occasionalmente facendo la prostituta. Il loro incontro mercenario diventa una relazione quando Kim racconta a Dan di aver assistito all’attacco al World Trade Center parlando al cellulare con l’amante Jay, intrappolato al centoquattresimo piano della torre. Da quel momento Kim lo scorge ovunque, il volto segnato da «una rabbia terribile e silenziosa, e non diretta verso gli uomini che l’avevano assassinato, bensì verso di lei».
    Nata dall’angoscia e da una solitudine condivisa con l’intera nazione, la relazione cresce zoppa, segnata dal profondo sadomasochismo di Kim, ed è la metafora di un mutamento epocale della percezione (e autopercezione) dell’Occidente rispetto al mondo. Come nei migliori racconti di McGrath l’io narrante esordisce come osservatore neutrale e diventa sempre più coinvolto e inattendibile, mente la vita prosegue intorno al buco nero di Ground Zero di notte, un vuoto perennemente illuminato e circondato da gru, ruspe e benne dove proseguono ininterrottamente i lavori di scavo.

    Verso sud la notte era squarciata dalle luci – di un azzurro pallido e lattiginoso – di potenti fotoelettriche: sembravano incorniciate dagli alti edifici che le sorreggevano e ricordavano un set cinematografico durante una ripresa notturna. Il fumo salita nella loro strana luce. Vidi grosse gru in azione.


    Il set di L’orologiaio di Everton di Georges Simenon è la tranquilla cittadina di provincia dove Dave Galloway vive da molti anni. Il tempo di Dave si divide tra l’appartamento dove vive con il figlio sedicenne Ben e il negozio sottostante, dove svolge il suo lavoro di orologiaio. Gli affari non vanno male, anche se l’orologio più caro in esposizione non arriva a cento dollari e i pochi gioielli sono bigiotteria placcata in oro con imitazioni di pietre preziose. La vita è scandita da ritmi consolidati, da gesti sempre uguali selezionati dal tempo, ma Dave non ne è dispiaciuto, di Everton conosce la gente, che sa di poter incontrare per strada in ore ben precise, le stagioni che ritornano anno dopo anno con i loro profumi e i loro colori. Con il ragazzo, Dave è un genitore premuroso, forse lievemente apprensivo ma i due sanno di poter contare solo uno sull’altro fin da quando la madre li ha abbandonati, pochi mesi dopo la nascita di Ben, senza nemmeno lasciare un biglietto. Il ragazzo cresce bene, fa il suo dovere a scuola e non manca mai di avvertire se cenerà da un amico o  andrà al cinema con i compagni.

    Anche quella sera di maggio tutto si svolge secondo la routine del sabato: chiuso il negozio, Dave cena senza aspettare il figlio che, come al solito, uscirà con gli amici. Il tempo di sparecchiare ed è già per strada, diretto a casa dell’amico più anziano Musak per la solita chiacchierata in veranda seguita dall’immancabile partita a jacquet. I due si scambino poche parole e nessun convenevolo, il silenzio non li infastidisce e non sentono il bisogno di parlare di se stessi.

    Strana amicizia la loro. Né Galloway né Musak avrebbero saputo spiegare come fosse cominciata e non sembravano far caso alla differenza d’età, all’incirca una ventina d’anni.

    È con tranquilla soddisfazione che Galloway si accomiata e ripercorre la strada verso casa. Ancora per pochi minuti sarà una normale sera del sabato e Dave potrà continuare a definirsi un uomo sereno.

    Forse l’avrebbe vissuta in modo diverso, forse avrebbe cercato di godersela più intensamente, se avesse saputo che era la sua ultima sera da uomo felice… A quell’interrogativo, e a molti altri – per esempio se fosse mai stato davvero felice – gli sarebbe toccato in seguito sforzarsi di dare una risposta.

    Ben di solito a quell’ora è già rientrato, invece manca… Potrebbe trattarsi di un banale ritardo, ma Dave sente che la casa è sottilmente, inconfondibilmente diversa, è «vuota». Gli basta un’occhiata per scoprire che il ragazzo se n’è andato definitivamente, portandosi appresso la valigia e rubando il furgone da lavoro del padre.
    In poche ore Dave scopre del figlio cose che non avrebbe mai immaginato: la relazione intensa con una compagna quindicenne, la fuga programmata da tempo, la vena di ostinato ribellismo che può spingerlo alla violenza peggiore. Per lui comincia una nuova vita, simile al tunnel nel quale entrano i congiunti di un ammalato grave, una vita scandita da incombenze banali, peregrinazioni tra uffici e autorità e gesti che solo pochi giorni prima sarebbero parsi assurdi, come osservare senza emozione la propria casa invasa da giornalisti che si disputano lo scoop o pronunciare un appello alla radio per incitare il figlio in fuga alla resa. E in tutto questo tempo, mentre agisce, attraversa città e cittadine, conosce per poche ore camere d’albergo anonime, Dave continua a chiedersi che cosa ci sia dietro e in fondo alle azioni del figlio. Fino a che comprende – dapprima confusamente e poi in maniera sempre più chiara – che la condotta di Ben non è frutto di un capriccio infantile, di un impulso egoista e incosciente, ma di un bisogno ancora inconsapevole, che non gli è estraneo e che lega la breve vita del ragazzo alla sua e a quella apparentemente ordinata e priva di macchie del proprio padre.


    Scritto con estrema bravura, L’orologiaio di Everton è un romanzo sfaccettato, che si presta a molte letture. È una storia di vite maturate nell’ambiente protetto e cieco alla diversità di comunità chiuse, come quelle provinciali o certi quartieri cittadini di un tempo [1]. È una galleria di piccoli ritratti indimenticabili: Musak, che ha scelto di restare solo e vivere ai margini della comunità, che tratta con dolcezza gli oggetti da restaurare e le persone ferite e sa testimoniare la solidarietà senza ricorrere alle parole, i poliziotti di provincia, che ne hanno già viste troppe per concedersi facili giudizi, il giornalista che – senza dimenticare la notizia che farà colpo sulla falsa coscienza del pubblico – è capace di agire con una distaccata umanità… Infine, come altri romanzi di Simenon, come Luci nella notte,  è l’esplorazione (se non il prodotto) di una visione del mondo non misogina ma almeno omofila, della convinzione che gli «uomini» e le «donne» siano categorie molto più omogenee al loro interno che non fra loro, che gli schemi di pensiero degli uni siano fondamentalmente incomprensibili alle altre e che esistano «segreti» degli uomini che le donne non potranno mai capire.

    Sono convinta che le cose non stiano così, ma il mondo «mascolino» – e anche per questo condannato ad andare in frantumi – di Dave e Ben Galloway è un rebus grandioso, che Simenon ci sfida a esplorare. È una sfida che vale la pena raccogliere.
     
    1) Il bel film di Bertrand Tavernier L’orologiaio di Saint Paul (1974,  con Philippe Noiret), tratto liberamente dal romanzo di Simenon,  è ambientato in un quartiere di Lione. Il  film si allontana notevolmente dal romanzo nelle motivazioni del comportamento del ragazzo.

    Derek Raymond
    Atti privati in luoghi pubblici
    Meridiano Zero 2004, pp. 219, € 13,50
    Trad. P.F. Paolini


    Patrick McGrath
    La città fantasma. Manhattan ieri e oggi
    Bompiani 2007, pp. 192, €. 7,40
    Trad. A. Cristofori


    Georges Simenon 
    L’orologiaio di Everton
    Adelphi 2005, pp. 166, € 14,00

    Trad. L. Frausin Guarino

    da LN-LibriNuovi 35, autunno 2005

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