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    Manette, istruzioni per l’uso di William T. Vollman

    • di Silvia Treves
    • Marzo 29, 2016 a 7:16 pm

    manette istruzioni per l'uso

    William T. Vollmann, Manette. Istruzioni per l’uso, pubblicato da Fanucci («AvantPop», traduzione di Chiara Belliti e Simona Vinci, ed. or. 1991). Freddo, distaccato, dimesso nello stile quanto il romanzo di Cave è vivido, debordante e sanguigno, Manette esplora cautamente, accumulando piccoli indizi, la relazione di un ex militare e di una ragazza «qualunque» sullo sfondo di Gun City, città metafora di un militarismo trionfante. Il tentativo ambizioso di Wollmann di rendere la violenza asettica e normalizzata dello stato, che subdolamente penetra nella quotidianità fino a infettare l’immaginario di ognuno, è soltanto parzialmente riuscito.

    La vicenda di Abraham Yesterday,

    figlio di un soldato, diventò un soldato come i suoi due fratelli e si distinse in Vietnam e in Nicaragua, ricevendo l’Ordine del Teschio Urlante

    destinato alla carriera militare, unico figlio a non aver deluso il padre colonnello con almeno un attimo di incertezza sul proprio destino di eroe, Abraham alla fine fallisce e, dopo il congedo, cerca con determinazione un altro simbolo che dia significato e spessore alla sua vita, sostituendo medaglie e mostrine. Lo trova nelle manette che diventano la chiave per entrare nel mondo e stabilire una precaria comunicazione fisica e mentale con Elaine. Lei, una «brava» ragazza con la propria quota, più tollerabile, di frustrazioni e angosce, rimane sostanzialmente estranea alle manette; le accetta come legame con Abraham ma non come porta verso la propria interiorità; la loro relazione impari, che Gun City sta già corrodendo, è destinata a finire male.

    Il fascino di Manette è affidato quasi esclusivamente alla suggestione geniale di Gun City, una presenza appena accennata eppure incombente:

    Quel posto rumoroso di strade strette come canyon e attraversate da sovrappassi sotto i cui tunnel l’oscurità e i fetori di urina e la paura si libravano nell’indifferenza generale come gli odori delle gabbie dei criceti.

    Squallide stazioni di metropolitana, gente che si sfiora senza vedersi, acciaio e cemento e acqua sporca, Gun City è parente delle metropoli americane descritte e mostrate al cinema negli anni quaranta e cinquanta dai maestri del noir. È un luogo della mente, estremamente letterario che può afferrare il lettore soltanto se l’autore saprà rilanciare, aggiungere, scavare. E Vollmann pare riuscirci, fino a un certo punto: le cassiere indifferenti del metró ormai dipendenti dal sapore di grafite delle monete che si infilano in bocca, la caduta rituale del «capro espiatorio» la mezzanotte dell’ultimo dell’anno, le manette invisibili, ultimo stadio della perversione, vincoli soltanto immaginati e quindi assolutamente indissolubili… Purtroppo la tragedia civile di Abraham, adombrata dal cognome che lo condanna a vivere al passato e quella privata di Elaine (Suicide, di cognome…) non riescono a diventare un tema unico e potente. L’incapacità di Abraham di comunicare se non dietro lo schermo di un oggetto feticcio, e la frustrazione di Elaine che subisce sentendosi degradata, non hanno alcun bisogno di motivazioni «pubbliche»: la psiche umana contiene sufficienti ombre e immaginazione da fare senza. D’altra parte il racconto di Vollmann non sviluppa la potenzialità e la genialità del suo tema «civile», la pervasività del modello militare che diventa normale e scivola inavvertito fra noi.

    Vollmann

    William T. Vollman

    Due osservazioni:

    La prima di biasimo verso l’editore. Un testo che, – pubblicato quest’anno e scritto nel 1991, il tempo dell’invasione del Kuwait e della guerra del Golfo – non può non suggerire a chi legge riflessioni sulla situazione politica di questi mesi, avrebbe diritto almeno a una piccola introduzione. Tra l’altro il racconto (francamente chiamare romanzo 122 pagine scritte a caratteri grandi e con ampi spazi bianchi mi pare un po’ troppo) fa parte della raccolta Thirteen Stories e Thirteen Epytaphs, che forse meritava due righe di commento.

    La seconda osservazione è più personale. Com’è possibile che la democrazia statunitense, fondata sul sogno grande e degno del diritto alla felicità, sia diventata la cosa avvelenata descritta in questo romanzo?

    thirteen stories

    William T.Vollman, Manette, istruzioni per l’uso, Fanucci AvantPop 2003, pp, 122, trad. Simona Vinci e Chiara Belliti, disponibile c/o Amazon.it o presso librerie Remainder’s.

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