Il tempio della pelle (The Skin Palace) di Jack O’Connell, trad. di Mauro Parolini e Matteo Curtoni, Garzanti editore non è un romanzo di fantascienza, ma può essere collocato in quel filone di romanzi «ibridi», talvolta definito avantpop, emerso negli anni novanta negli USA, testi che utilizzano convenzioni, suggestioni e temi mutuati da diversi generi letterari (noir, cyberpunk, fantascienza, horror, romanzo giovanile, diario) e visivi (film, cartoon, videogiochi). Non è la prima volta che LN si occupa di questo «genere dei generi», per farvi un’idea più completa potete rifarvi alle recensioni dei libri di Ruff (Acqua, luce e gas,), Wright (M31, una saga di famiglia) Stephenson (Cryptonomicon), Dish (Il prete), oltre che alle produzioni di autori normalmente accreditati come cyberpunk: William Gibson o Michael Marshall Smith.
Caratteristiche comuni: l’ambientazione urbana, le fratture e i contrasti sociali, politici e culturali tra differenti etnie, gruppi professionali o religiosi, un tessuto del reale logorato, una cultura diffusa fatta di frammenti spezzati e contorti di sottoculture popolari, la scomparsa di qualsiasi valore morale condiviso, una violenza endemica e una situazione sociale claustrofobica in un universo recintato da una situazione economica rigida e priva di possibilità di sviluppo e riscatto. I protagonisti sono il più delle volte degli emarginati non completamente rassegnati e dotati di qualche talento, gli esiti del loro scontro con la società talvolta fallimentari, mai decisivi e comunque limitati a una dimensione individuale. Il mondo dei romanzi avantpop non ammette riscatti né cambiamenti, al massimo una sopravvivenza meno grama.
Skin Palace è un romanzo del 1995, ambientato a Quinsigamond, città immaginaria del Sudovest degli USA (forse) contemporanei. Protagonista Sylvia, appassionata fotografa dilettante dotata di una pericolosa sensibilità per le immagini.
Vivendo a Quinsigamond è praticamente impossibile non avere a che fare, prima o poi, con l’Herzog’s Erotic Palace, cinema a luce rossa dalle dimensioni ciclopiche, di proprietà di Hugo Schick, regista immigrato austriaco ed ex-collaboratore di Fritz Lang. L’Herzog’s Erotic Palace è nel mirino di Hermann Kinsky, gangster di origine boema e di suo figlio Jacob Kinsky, sia pure per tutt’altro motivo, oltre che essere il bersaglio delle campagne moraliste del reverendo Garland Boetell, fondatore e capo dell’Unione delle famiglie per il decoro, in non facile alleanza con il Fronte Americano di Resistenza delle donne, i cui slogan più frequentati sono: «pornografia= genocidio» e «il coito è un abuso».
Sylvia acquista una macchina fotografica usata e trova un rullino non terminato. Lo sviluppa. Sono sette fotografie di Terrence Propp, geniale fotografo scomparso di scena da qualche anno. Le foto, di una bellezza ipnotica, inducono Sylvia a dedicarsi alla ricerca di Propp. Falsi indizi e incontri misteriosi la condurranno presto allo Skin Palace di Hugo Schick. Jacob Kinsky non è interessato al denaro e alle imprese criminali del padre, il suo sogno è di girare un noir dal titolo La bambina perduta. È grazie all’«interessamento» del padre che riesce a diventare assistente di scena di Schick.
Il marito di Sylvia, Perry, è un giovane avvocato in carriera. Il suo studio legale è stato ingaggiato da Boetell e dal Fronte Americano di Resistenza delle donne per far chiudere l’Herzog’s. Il loro matrimonio è in crisi e Schick offre a Sylvia un lavoro come fotografa di scena per le sue produzioni pornografiche. I film di Schick sono affascinanti, nonostante il tema più che scontato, e Sylvia ha la tentazione di accettare…
Lo Skin Palace con la sua grandiosa architettura anni trenta, i labirintici corridoi, i passaggi, le grandi stanze, le colonne, le scalinate, è il centro di sogni e incubi di Quinsigamond e risveglia nel lettore il ricordo dell’Opera di Parigi di Leroux, altro efficacissimo esempio di architettura onirica. Ma il riferimento costante del romanzo di O’Connell sono le suggestioni cinematografiche. Citando a caso e in modo gravemente incompleto: M, il mostro il Düsseldorf, L’infernale Quinlan, Il Mago di Oz, L’Angelo azzurro. E poi l’opera omnia di Leni Riefensthal, il cinema espressionista, il noir metropolitano americano degli anni quaranta e cinquanta. Innumerevoli infine i riferimenti e le citazioni, a cominciare dai nomi di molti personaggi: Leni Pauline, Hermann Kinsky…
Insomma, quasi cinquecento pagine di allucinata cinefilia in bianco e nero, di percorsi impervi tra il reale e l’immaginario della prima metà del novecento. Contro questo mondo visionario, incarnato nello Skin Palace e in Hugo Schick, il mediocre fanatismo dell’America bigotta e l’assurda coerenza di un femminismo residuale, strumenti di un sistema impegnato a cancellare il pensiero deviante.
Romanzo sulle forme dell’arte e sulla sua irriducibilità al pensiero ecomico, Skin Palace è ben lungi dall’essere un romanzo perfetto, mostrando qualche debolezza soprattutto in un finale che non riesce a raccogliere e a sciogliere tutti i nodi e gli spunti allineati nel corso del testo. Altro difetto non piccolo si rivela il riferimento costante a immagini ed emozioni «esterne» alla pagina scritta, alla lunga insostenibile.
Ma è proprio la scelta di una doppia visione, il tentativo di raccontare l’occhio pensante e la sua sensibilità moltiplicata – fatta di reale, di sogni, di ricordi e di visioni contemporanei – a rendere Skin Palace un romanzo davvero unico e un tentativo comunque ammirevole.
L’ipotesi della visione come pensiero sul mondo, il tentativo di tracciare un percorso tra sensazione, percezione e giudizio, è ciò che anche un abituale lettore di fantascienza apprezzerà. In fondo la fantascienza non è anche un tentativo di ri-creare il reale sulla base di una diversa percezione?
Jack O’Connell, Il tempio della pelle (The skin Palace), Garzanti Narratori Moderni, pp. 480, € 18,50, trad. Maura Parolini e Matteo Curtoni.
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