Il palazzo degli specchi di Amitav Ghosh è insieme vicenda corale, saga familiare, storia dei colonizzati e dei colonizzatori, di gente minuta e di re, dello sfruttamento del popolo da parte dei potenti locali e dello sfruttamento ben più efficiente e anonimo da parte degli occidentali, dello spaesamento degli inglesi di fronte al respiro antico e incomprensibile dell’India, del tentativo di molti indiani di afferrare l’occidente, le nuove opportunità, la tecnologia, una differente istruzione e un differente modo di vedere il mondo. Un romanzo diverso da quelli precedenti di Ghosh, nel quale convergono in maniera originale la grande tradizione orientale del racconto orale e quella letteraria occidentale del romanzo storico ottocentesco, ma anche – ed è questo l’aspetto che interessa maggiormente il lettore – una «storia» che cattura immediatamente, trascinandolo davvero «altrove» nell’India storica e concreta ma anche nei paesaggi favolosi dei libri letti da ragazzi: l’acqua lenta dei grandi fiumi, le foreste che i tagliatori incidono poco a poco, tronco dopo tronco, al passo lento e inesorabile degli elefanti, i colori, gli odori e i sapori dei porti, dei mercati cittadini, delle pietanze locali. E nei villaggi temporanei dei tagliatori, circondati da giungle impenetrabili, qualche decina di baracche che reverenti circondano il taj del funzionario inglese della Compagnia, più alto e sempre illuminato a giorno per tener a bada la notte aliena, spazzato e tenuto in ordine da un servo che si sforza di mantenere le forme vuote e rassicuranti della madrepatria.
Il libro è gremito di personaggi di ogni classe sociale, dagli ultimi regnanti di Birmania, deposti ed esiliati in India dagli inglesi, in un palazzotto cadente e cirdondato da tuguri, a Rajkumar, ragazzo indiano rimasto orfano in Birmania, che l’autore segue dall’infanzia miserabile alla giovinezza avventurosa, al successo economico della maturità, a una vecchiaia piena di sofferenze e lutti, ma anche di impensabili felicità. Le storie e la Storia dell’India si intrecciano in due figure femminili: Dolly, giovanissima dama di compagnia dei regnanti birmani, l’ultima rimasta e la più fedele, che diventerà moglie di Rajkumar e Uma, moglie di uno dei pochi funzionari indiani giunto ai vertici della carriera nell’amministrazione inglese e, da vedova, grande attivista della causa dell’indipendenza indiana.
Nel romanzo convivono felicemente gli echi dei sentimenti di autori «bianchi» di fronte al mistero e alla forza oscura di tutto ciò che non è occidentale e familiare, da Kipling a Conrad, e insieme il rigore e la passione storica e sociale dei grandi reportage di viaggio di Ghosh in Birmania e in Cambogia.
Il palazzo degli specchi è un libro seducente, al quale il lettore si abbandona con fiducia che non viene mai tradita. Il suo unico «difetto» è, in un certo senso, un suo grande pregio: l’essere popolato di personaggi non sufficientemente «ambigui». Che non significa positivi a tutti i costi, anzi, Rajkumar, Dolly, Uma e i loro figli e nipoti sono tutti umanissimi e pieni di difetti e incertezze, sbagliano e talvolta non lo comprendono, oppure non possono evitarlo, nonostante la consapevolezza, perché incalzati dalla Storia e dalle loro piccole storie. Ognuno di loro è fin troppo familiare al lettore che, guidato dallo sguardo da narratore onnisciente scelto da Ghosh, si identifica e comprende i loro moventi, simpatizza e prova compassione. Ma forse non si stupisce abbastanza, non prova quell’attimo folgorante e spesso sgradevole di riconoscimento: «ma anch’io sono così?», oppure «ma perché io sono diverso da così?» oppure, (ed è la domanda più subdola e inquietante) «Io potrei sentire o agire così, ma anche all’esatto contrario… ma allora chi sono, io?».

Amitav Ghosh
Due personaggi (entrambi maschili, in un libro davvero pieno di grandi personaggi femminili…) fanno eccezione. Il primo è Beni Prasad Dey, il marito di Uma, un uomo tormentato e non simpatico, sospeso a metà fra una cultura indiana antica – della quale vede, o crede di vedere, tutti i limiti – e una cultura inglese scintillante ma che non gli appartiene fino in fondo. Il secondo è Arjun, parente di Uma, un giovane superficiale che sceglie l’accademia militare e, con sorprea di tutti, diventa uno dei primi ufficiali indiani con brevetto. Felicemente «accasato» nel proprio battaglione, che gli regala un posto nel mondo, un rassicurante rapporto fra commilitoni, uno status che lo pone ben più in alto dei semplici soldati del suo paese che servono l’esercito dei colonizzatori, Arjun viene trascinato dalla Storia, quella giocata sullo scacchiere europeo, da Potenze che nemmeno conosce, e da un Giappone troppo vicino e troppo pericoloso, a interrogarsi sul suo essere nel mondo. I suoi rapporti con un altro ufficiale indiano, quello con il suo comandante, un inglese leale e rispettoso della forma ma anche della sostanza dell’esercito, e con il suo attendente, un giovane contadino indiano, gli instillano ogni giorno più dubbi sulla sua libertà di decidere, sino alla convinzione di non aver mai potuto scegliere, perché il veleno del colonialismo è così potente che agisce prima sui colonizzati che sui colonizzatori, convincendoli che gli stranieri arroganti sono legittimati dalla forza di quel diritto che solo le armi, il potere del denaro e della paura gli hanno conferito.
Sah’b – disse dolcemente Kishan Singh – le paure non sono tutte ugali. Che paura è quella che ci tiene nascosti qui, per esempio? Paura dei giapponesi, o degli inglesi? O paura di noi stessi, perché non sappiamo di chi aver più paura? Sah’b, un uomo può temere l’ombra di un fucile quanto il fucile stesso… e chissà quale delle due cose è più reale.
Vittima sempre più consapevole di un inganno secolare, Arjun è destinato a perdere, qualunque scelta compia, sia che abbandoni gli inglesi per un esercito indiano indipendente che potrebbe, in mancanza di alternative, propendere per i giapponesi, sia che resti a combattere a fianco dei «padroni».
Arjun e Beni Prasad Dey, accomunati dalla consapevolezza di essere stati ingannati, ma anche di aver voluto essere ingannati; personaggi traditi e costretti a tradire a loro volta, senza riuscire a rimanere fedeli nemmeno a se stessi, sono i due personaggi che personalmente ho amato di più.
Amitav Ghosh, Il palazzo degli specchi, Beat 2015 [prima ed. Einaudi 2001, seconda ed. Neri Pozza 2007], pp. 640, € 11,00, trad. Anna Nadotti
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