Sylvain Tesson (Parigi, 1972) è scrittore, giornalista e viaggiatore, appassionato – tra l’altro – di urban climbing, l’arrampicata urbana. Come spiega lui stesso: «mi consideravo un alpinista di città. Nei miei giochi di ragazzo attempato […] gironzolavo sui cornicioni, rientravo attraverso le finestre, mi ritempravo sui tetti».
Nell’agosto 2014, una sera scalò la casa di alcuni amici e cadde dal tetto. Come spiegò in seguito, «avevo guadagnato 50 anni in 8 metri»: costole, cranio e vertebre erano in briciole, «l’incidente mi aveva provocato una paralisi facciale […] La bocca era storta e pendeva da una parte, il naso andava un po’ di traverso, la guancia destra rientrava e l’occhio sporgeva dall’orbita. Un freak, insomma». Dimesso dopo mesi di ospedale, invece di seguire una terapia riabilitativa, decise di camminare a lungo per recuperare le forze e ritrovare se stesso.
Sentieri neri narra la traversata a piedi della Francia, dal Mercantour al Cotentin, ovvero dalla stazione di Tenda, alla frontiera con l’Italia, sino a La Hague, affacciata sull’oceano Atlantico. Il viaggio, effettuato tra agosto e novembre del 2015, viene pianificato in modo peculiare, utilizzando le mappe di un rapporto amministrativo del 2014 sulla riorganizzazione delle campagne francesi, che individuava una quarantina di «aree iper-rurali», cioè poco asfaltate, prive di cablaggio a banda larga e isolate rispetto alle amministrazioni pubbliche. Sulle carte i sentieri minori, segnati con piccoli tratti neri, sono piste di campagna, confini boschivi, viottoli cancellati dal sottobosco:
«I sentieri di cui andavo tessendo la trama svolgevano una funzione importante: disegnavano la cartografia del tempo perduto. Erano stati abbandonati perché considerati troppo antichi, cosa che ormai non rappresentava un pregio per nessuno».
Il primo interesse di Sentieri neri è dunque geografico e geologico. Guidato dalle carte, Tesson attraversa angoli della Provenza ben diversi da quelli da cartolina o da guida gastronomica che molti di noi hanno visitato, passa per le Cevenne, giunge all’Aubrac, al Massiccio Centrale, attraversa la Gâtine de Touraine costituita da altopiani separati da valli strette, raggiunge lo Champagne Mancelle e il paesaggio mayennese fatto di piccoli boschi, siepi naturali e paludi frammiste a terreni coltivati e raggiunge i confini della Normandia e della Bretagna.
Vinta l’impressione di essere presa per mano da un radical chic misantropo e un po’ sentenzioso, ho cominciato a gustare le descrizioni che ritrasformano le mappe nel mondo reale e a scoprire brani esaltanti per un docente di scienze naturali:
«A Brahic, a circa seicento metri d’altezza, l’universo si ribaltò. Le case di granito erano coperte di tetti di scisto; i castagni segnavano il confine, indicando il cambiamento. Sparivano le insegne della Provenza: calcare, olivi e tegole romane. Da quel punto in poi l’araldica cambiava. Lasciavamo a Est lo spirito dell’aria traversata dal sole. La Provenza. Qui, sui pendii del massiccio vulcanico, lo spirito di un fuoco antichissimo dormiva sotto i ricci di castagna».
Questa descrizione delle terre alte di Lozère ha risvegliato il mio rispetto per gli ovini e per la vegetazione di macchia:
«… erano il risultato dell’accanimento e della perseveranza con cui gli animali domestici distruggono la vegetazione. Le greggi sembravano infaticabili ma le generazioni non dimenticano mai che la sterpaglia è come un’onda: se il bestiame si ritira, la vegetazione spontanea ritorna. In Francia, dopo il 1970, milioni di ettari anarchici avevano colonizzato di nuovo il paese; era quello il manto che copriva i sentieri».
L’ostinata lotta tra l’efficiente anarchia della natura e la miope pianificazione umana viene ribadita attraversando una ferrovia in disuso dal 1970:
«Ne seguimmo il tracciato per qualche chilometro, disturbando i passeri nei cespugli e traversando i ponti di ferro gettati sull’Indre nel dopoguerra. Inciampavamo nei travetti e ci aprivamo la via fra la sterpaglia verso settentrione, I binari erano invasi dai rovi […] Io avevo una certa ammirazione per le piante spinose».
Il secondo elemento di interesse del libro sta nella cortese vis polemica che lo attraversa: Tesson spiega fin dall’inizio che egli preferisce defilarsi dalla società attuale pur senza disprezzarla o volerla cambiare; ma i commenti che seguono portano i lettori se non a schierarsi almeno a farsi domande importanti:
«Nei paesi riportati sulla guida Michelin, il centro era bellissimo e la chiesa ben restaurata. Qualche volta davanti alla sala da tè si inaugurava una libreria. Woody Allen avrebbe potuto girare il suo solito film. […] Poi c’era il secondo cerchio: il quartiere delle villette. Un uomo in pigiama tosava il prato; aveva appena finito di lavare la macchina […] Veniva infine il terzo cerchio, quello commerciale. Il parcheggio era pieno, il supermercato non chiudeva mai e c’erano continue promozioni. Più avanti una rotatoria indicava i punti cardinali, la via per arrivare ai campi, ai capannoni e ai boschi dove i cinghiali aspettavano l’apertura della caccia. Tutto ciò dimostrava che anche i francesi, quando ci si mettono riescono a fare ordine nel mondo».
«L’evoluzione era una strana cosa: in trentamila anni aveva indotto una razza di cacciatori-raccoglitori a sviluppare dei comportamenti da piccoli proprietari». Citando il filosofo italiano Giorgio Agamben, Tesson ci mette in guardia contro il «dispositivo», ovvero «la somma delle eredità comportamentali, delle sollecitazioni sociali, delle influenze politiche, delle difficoltà economiche che determinavano i nostri destini, pur restando inavvertite».

Sylvain Tesson
In Sentieri neri e in varie interviste ricorda come le scelte compiute dalla Quinta Repubblica, passando dall’industrializzazione delle campagne nel Dopoguerra all’esplosione delle periferie, alla decentralizzazione e alla moltiplicazione degli ipermercati, alla costruzione di circonvallazioni e tangenziali per collegare le zone periferiche ai centri commerciali, abbiano cambiato non soltanto il volto del paesaggio francese ma anche la vita dei suoi abitanti, rendendoli sempre più dipendenti dalle auto e da forme di aggregazione virtuali.
La questione mi ha colpito per due motivi: 1) il paesino dove io trascorro felici vacanze in montagna è 100% iper-rurale. Le discutibili scelte dell’amministrazione comunale (800 metri più in basso) hanno diminuito il turismo regalandomi un paradiso solitario che non è tale per la sempre più scarsa gente del posto; quando la neve ghiacciata accumulata ai bordi della strada principale mi impediscono di percorrere in auto le ultime salite anch’io comincio a ricredermi.
D’altra parte la descrizione delle periferie sempre più vaste convogliate verso ipermercati e centri commerciali sempre più totalizzanti mi è suonata famigliare. Vi invito a leggere questo articolo:
http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/06/12/news/roma-centri-commerciali-1.323682
Intervista dell’autore
Sylvain Tesson, Sentieri neri, Sellerio, Il contesto 88, 2018 [ed. or. 2016], pp. 152, €15,00, trad. Roberta Ferrara
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