Come sempre suggestivo, Marani, anche se in questo L’interprete l’eccessiva ambizione ha finito per indebolire un romanzo partito nel migliore dei modi e smarritosi nel percorso fino a una chiusa suggestiva ma contraddittoria e scientificamente debolissima.
Canonicamente, almeno per quanto riguarda il romanzo di tradizione gotica, il libro si apre in forma di confessione in prima persona:
Questa è la storia della mia distruzione. Di come un uomo, uno soltanto, mi abbia strappato ai miei affetti, alla mia professione, alla mia vita e portato alla rovina […]
Un evento già avvenuto, una tragedia ormai consumata. Al lettore non resta che seguire il percorso di questa caduta, come nelle migliori storie di E. A. Poe, H. P. Lovecraft o di altri maestri del racconto del soprannaturale. Protagonista lo svizzero Felix Bellamy, funzionario addetto al lavoro di organizzazione dell’interpretariato all’interno di una struttura internazionale. Uomo tranquillo, burocrate irreprensibile e lavoratore scrupoloso, Bellamy vive con la compagna in una casa con giardino «troppo grande per loro», moderatamente e borghesemente felice.
Infausti presagi, eventi al limite del soprannaturale annunciano l’Evento, ovvero l’apparizione di XXX, l’interprete. Un simultaneista di sovrumana bravura, capace di praticare ben quindici lingue ma che ultimamente sembra essersi fulminato, traducendo in lingue di sua personale invenzione o ruggendo, fischiando, ululando e smaniando. Interrogato, l’interprete dichiara di essere vicino a trovare la lingua definitiva, a essere il testimone del «risorgere di una lingua antica, dimenticata dall’umanità».
In breve tempo la vita familiare, sociale e professionale del povero Felix Bellamy va in frantumi. Perseguitato dall’interprete, abbandonato dalla compagna, il tranquillo burocrate è alfine vittima del medesimo disturbo, tanto da dover ricorrere alle cure del Dottor Barnung, titolare di una singolare e misteriosa clinica linguistica dove vengono curati secondo un metodo davvero particolare i disturbi del linguaggio più inconsueti.
Ma la terapia di Barnung riaccende la disperata curiosità di Felix Bellamy che finisce per abbandonare la clinica alla ricerca dell’interprete, inseguendolo per l’Ucraina, la Romania, la Lituania e l’Estonia e vivendo avventure che lo cambieranno profondamente e definitivamente.
Chiave e soluzione della vicenda nelle ultime 7-8 pagine, con uno scioglimento faticoso e inevitabilmente contorto. Marani infatti ha disseminato il suo testo di segnali, fatti e personaggi che restano in buona parte inesplorati o inspiegati (la sorte di Irene, la sua compagna, è probabilmente l’esempio più evidente) mentre ha fatto uso di dei ex machina un po’ troppo su misura, come il miliardario Burke o il commerciante d’organi Radu. Troppa fretta nel voler chiudere il libro, quasi che Marani si fosse stancato del suo personaggio e dell’intera vicenda.
Una domanda fatale e che già so scontata mi ha accompagnato nell’ultima parte della lettura: «Ma perché mai gli autori italiani sono per la maggior parte disastrosamente incapaci di costruire un thriller che non si riveli un colabrodo?»
La risposta che ho trovato risulterà polemica, anche se chiarisco che è solo marginalmente riferita a Marani, autore che viene dal successo di critica e di pubblico dei due ottimi romanzi precedenti, Nuova grammatica finlandese e L’ultimo dei vostiachi, dove l’intreccio giocava un ruolo minore. In sostanza credo che gli autori italiani si sforzino in primo luogo di apparire «scrittori» piuttosto che «autori». Convinti che un preziosismo stilistico valga più della sorte di un personaggio o della solidità dell’intreccio. È solo un sospetto, anche se solidamente motivato da molti anni di lettura. Come tale può essere smentito da ulteriori letture.
Che cosa resta del libro di Marani? Ciò che aveva affascinato i lettori (e anche questo lettore) nei suoi testi precedenti: il limpido talento nel descrivere e raccontare angoli poco noti dell’Europa; l’amore per le lingue, la loro storia e il loro impenetrabile mistero, la suggestione potente della loro origine e il loro rapporto con la cultura e la visione del mondo; il piacere di rivisitare forme classiche del racconto fantastico. Quanto basta per perdonargli, insomma, anche questa prova non del tutto riuscita.
Diego Marani, L’interprete, Bompiani, 2004, pp. 240, € 14,50
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