Sono passati 70 e più anni dalla caduta della Repubblica di Weimar. Eppure, soprattutto in tempi di crisi, il riferimento a Weimar è obbligato.
Si trattò di un esperimento unico nella storia d’Europa, un laboratorio (e una volta tanto il termine non è abusato) nel quale vennero miscelati positivismo scientista, fede nel progresso, socialismo umanista e fervore culturale. Il suo fallimento – perché di fallimento bisogna parlare, secondo Peukert, piuttosto che di semplice successo del Nazismo – fu anche il fallimento di una concezione del mondo, quella che credeva di poter unire la fede nell’eugenetica con lo stato assistenziale, un socialismo statalizzato con la libera iniziativa e il progresso tecnologico.
L’instabilità del quadro economico, premessa alla crisi dello stato sociale (e il riferimento a Weimar per la società italiana e l’Europa di questo inizio millennio non è poi tanto gratuito) fu il canto di morte dell’esperimento Weimar, al cui naufragio fu fatale anche la cecità delle sinistre.
Il libro di Peukert (autore tra l’altro di un saggio sull’acquiescenza allo sterminio nella popolazione tedesca) è ricco di informazioni, dati, spunti di riflessione e osservazioni che colorano il rigore storico, dandogli lo spessore della vita reale, rendendo conto anche di fenomeni solo apparentemente ininfluenti per il successo del nazismo. Tra questi il ruolo della donna, “rimandata ai fornelli” già sotto Weimar (è del 1932 una legge che vieta alle donne di lavorare se anche il marito percepisce una retribuzione, legge che sanzionava definitivamente un orientamento affermatosi per tutti gli anni ’20) e che trovava nelle case popolari costruite nel primo dopoguerra cucine anguste e inutilizzabili. Questo mentre l’americanismo inteso come stile di vita raggiungeva l’apice della popolarità.
Furono tra i primi le donne a essere tradite da Weimar, suggerisce Peukert, strette tra una cultura che le esaltava in quanto madri e mogli e una cultura dell’apparire, allora al suo nascere, che suggeriva – nei film, nei romanzi – comportamenti emancipati. Il modello di donna degli anni ’20 e ’30 era la segretaria: nubile, disponibile, spregiudicata. Ma all’uscita dai cinema non rimaneva che ritornare nella propria abitazione progettata secondo criteri positivi e razionali e, di fatto, invivibile.
Fu probabilmente un deficit di speranza a sancire il termine della Repubblica di Weimar, la convinzione sotterranea e diffusa che fosse tempo di “cambiare aria”. L’antisemitismo non era una caratteristica solo nazista – dopo la Prima Guerra la Germania fu invasa da immigrati ebrei non-tedeschi e poveri che suscitarono forti ondate di intolleranza – come era anche appannaggio di socialdemocratici e comunisti la convinzione che l’eugenetica fosse un toccasana per la felicità dell’umanità.
Questo libro di Peukert aiuta a dissipare molti equivoci e a rendere più comprensibile un fenomeno apparentemente inspiegabile come l’ascesa del Nazismo nel paese di Bertolt Brecht o di Gustav Mahler.
Detlev J.K. Peukert
La Repubblica di Weimar
Bollati Boringhieri, 1996, pp.326, € 36,15
trad. Enzo Grillo
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